La Versione di Banfi

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Vince Letta, a metà

alessandrobanfi.substack.com

Vince Letta, a metà

Affermazione del centro sinistra. Flop di Salvini e dei 5Stelle. Ma un elettore su due non vota. Successo di Calenda e dell'unico candidato moderato del centro destra. Draghi va avanti

Alessandro Banfi
Oct 5, 2021
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Vince Letta, a metà

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Sono stati eletti al primo turno tre sindaci di centro sinistra: il riconfermato Sala a Milano, Lepore a Bologna e Manfredi a Napoli, in queste ultime due città i candidati erano sostenuti anche dai 5 Stelle. Il nuovo presidente della Regione Calabria sarà Occhiuto del centro destra. A Roma andranno al ballottaggio Gualtieri e Michetti, ma un grande successo l’ha ottenuto Calenda che ha preso un numero di voti vicini a quelli dell’uscente Raggi, clamorosamente liquidata dai romani. Anche a Torino è in testa il candidato di Centro sinistra Lo Russo nei confronti di quello del centro destra Damilano, un’altra piazza dove i 5 Stelle escono super bocciati dalla prova di governo. In prospettiva nazionale si profila un 5 a zero della sinistra contro la destra nei Comuni più importanti, una pesante caduta dei 5 Stelle, un consenso molto sotto le aspettative per Salvini e un mancato sfondamento della Meloni. L’affermazione di Calenda a Roma pone una richiesta di governo competente e super partes, cui finora i partiti non sembrano saper rispondere.

Fra vincitori e perdenti, c’è da registrare infatti il dato più macroscopico e importante di queste amministrative 2021: nelle grandi città ha votato solo un elettore su due. La metà si è astenuta. La metà degli italiani non trova nulla di buono nell’offerta prodotta da questi partiti (nessuno più si chiama così, a parte il Pd). Niente. Se dovessero rispondere ad un ufficio marketing o ad un Consiglio d’amministrazione i soggetti che producono oggi l’offerta politica dovrebbe rassegnare le dimissioni. Ammettere il proprio fallimento. La sconfitta del centro destra è una sconfitta culturale: dopo 5 anni di inseguimento del populismo, dell’estremismo, dell’anti euro o del No Vax, è arrivato il momento della delusione. Gli elettori nelle urne hanno ripetuto quello che si era lasciato sfuggire Berlusconi: “Governare? Non scherziamo”… La sconfitta dei 5 Stelle è una sconfitta strategica e ampiamente annunciata: abbandonata l’anti politica, e accettate le regole non scritte del centro sinistra, i grillini pagano un crollo di consensi. Crollo anche dovuto alla pessima prova di governo, quantomeno delle sindache di Roma e di Torino.

È vero: a sinistra il Pd ha tenuto, a dimostrazione che le tante critiche contro Letta erano ingenerose e molto interessate. Era giusta l’intuizione di mantenere il rapporto coi 5 Stelle ma ribaltando i rapporti: la subalternità oggi è semmai di Conte, non più dei Dem verso il Papa straniero, come volevano Zingaretti, Bettini e Bersani. Ma al Pd neo ulivista di Letta, ostracizzati i Renzi e i Calenda, manca un pezzo della classe dirigente: il centro. Il sogno di Enrico Letta di tornare al bipolarismo si scontra con questa realtà: sia alla destra che alla sinistra manca oggi  in Italia un centro credibile. Draghi si rafforza, il voto anticipato si allontana. Sarà un inverno duro più per la mancanza di risorse energetiche che per la pandemia e insieme un periodo decisivo per le riforme del Paese e il Pnrr. Tre mesi cruciali per questo Governo ma soprattutto per il futuro del Paese.

Pandemia. È arrivato l’ok dell’ Ema alla terza dose, ma si aspettano le decisioni del Cts. Figliuolo si dice pronto. Black out senza precedenti ieri di IG, FB e Whatsapp. Dall’estero tensioni ancora sul clima in vista della Cop26 di Glasgow e sui prezzi dell’energia, la Ue deve decidere una politica comune. Drammatico resoconto dell’Onu sui crimini contro l’umanità in Libia, lo denuncia Avvenire.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Titoli di apertura tutti da leggere stamattina, necessariamente sintetici sul voto amministrativo. Avvenire propone: Svolta al centro (sinistra). Il Corriere della Sera meno politologico e più fattuale: Le città premiano il centrosinistra. La Repubblica mette insieme flessione dei 5 Stelle e mancato successo di Salvini: Il crollo dei sovranisti. Molto simile La Stampa: Caduta dei populisti, rivincita del Pd. Per il Quotidiano Nazionale: Vince il Pd, perdono destra e M5S. Il Fatto invece sostiene i grillini: Pd e 5 Stelle uniti vincono, le destre unite perdono. Il Giornale per certi versi ammette la crisi del centro destra: Occasione persa. Libero è ancora più esplicito e sulla stessa linea: Il voto è un campanello d’allarme. Sveglia centrodestra. Il Manifesto molto giustamente ricorda che solo un elettore su due ha votato: Vittoria a metà. Si dedicano alle situazioni locali Il Mattino: Trionfo Manfredi, M5S e destra ko. E Il Messaggero: Michetti-Gualtieri, sfida a Roma. Il Sole 24 Ore registra il successo, isolato, del centro destra moderato al Sud: Comuni: vince il centrosinistra, flop M5S. Al centrodestra solo la Regione Calabria. Il Domani mette insieme sindaci grillini sconfitti e Salvini: La pacchia è finita. La Verità? Niente Green pass stamattina: Errori e fango, il centrodestra va ko. E subito parte l’offensiva sul fisco.

I COMMENTI DEI DIRETTORI

Sono i momenti in cui leggere i giornali è quasi piacevole. Perché si apprezzano le differenze di interpretazioni e le chiavi di lettura di uno stesso evento. Ma i numeri non sono oggettivi per tutti? Macché, come scrive Marco Travaglio sul Fatto nel titolo del suo commento in prima, ognuno vuole dire Cosa dicono quei numeri. Per il direttore grillino, i 5 Stelle non hanno comunque perso, compresa la Raggi. Calenda è di destra. Conte invece è ancora amato dal popolo.

«"È la somma che fa il totale", diceva Totò. Quindi non c'è nulla di originale nell'osservare che il nuovo centrosinistra giallorosa vince solo se è unito: a Napoli con Manfredi è un po' più contiano e dimaiano, a Bologna con Lepore è molto più pidino. A Milano i 5Stelle sono irrilevanti, come sempre, e quello di Sala (mai iscritto al Pd e proveniente dal centrodestra morattiano) è un trionfo personale e trasversale. Il vecchio centrodestra a tre punte, a trazione meloniana e non più salviniana, va male dappertutto: per ora porta a casa solo la Calabria, e più per i demeriti del centrosinistra (ben tre candidati) che per meriti propri. È secondo persino a Torino, dove il moderato Damilano era strafavorito sul pd Lo Russo. Il quale però ora deve sperare nella scarsa memoria dei 5Stelle, dopo gli insulti alla buona esperienza Appendino e il rifiuto tracotante di qualsiasi dialogo col M5S . Roma fa storia a sé. La Raggi s' è rivelata un osso molto più duro di quel che diceva la black propaganda, ma non abbastanza per qualificarsi alla finale. Lì però può succedere di tutto: la Meloni farà pesare tutto il suo consenso personale e, anche se Conte facesse l'endorsement a Gualtieri e molti elettori raggiani lo seguissero, Michetti avrebbe un ottimo serbatoio di riserva tra gli elettori di Calenda, l'altro candidato di destra (l'altra destra: quella borghese, confindustriale e tecnocratica), allergico ai giallorosa. Tutto ciò premesso, sarebbe ridicolo confondere questa tornata amministrativa con le prossime Politiche. Chi lo fa, seguendo i soliti esperti del nulla, si condanna al suicidio. Il centrosinistra che ha appena stravinto il primo turno delle Comunali, su scala nazionale resta 10 punti sotto il pur malconcio centrodestra. Il che rende semplicemente comico il pressing dei giornaloni perché il Pd molli l'asse col M5S contiano per allearsi con non si sa bene chi. Se il Pd vince è proprio grazie alla linea Zinga-Letta sull'alleanza col M5S : la linea Renzi, alle Comunali del 2016, portò il partito alla débâcle. Anche chi vaneggia di "sconfitta dei populisti", con Lega e FdI al 40% e gli astenuti al 46%, racconta barzellette. I non votanti - il primo partito d'Italia - sono soprattutto ex elettori 5Stelle in attesa di un'offerta credibile. È un monito soprattutto per Conte, che dovrà trovare linguaggi e contenuti di populismo gentile e competente per recuperare almeno una parte delle periferie sociali ed elettorali che non si sentono rappresentate da nessuno. Specie nel deserto del Nord. Dalla sua, ha la fortuna di essere la soluzione migliore alla penuria generale di classe dirigente: fra i vari ex premier in circolazione, è di gran lunga il più apprezzato dal "popolo". Ma quel ricordo non dura in eterno».

Alessandro Sallusti su Libero ammette che per il centrodestra è andata male:

«Per il centrodestra è andata male, ma solo un po' più male di quanto si poteva sperare. Si salva la Calabria, restano aperti spiragli per Roma, Torino e Trieste, città che tra quindici giorni andranno al ballottaggio. I tre partiti - Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia - che tutti i sondaggi danno maggioranza nel Paese, non riescono a essere competitivi sul territorio. Non è una tragedia ma certo è un campanello di allarme in vista delle prossime scadenze elettorali. Si dice: candidati sbagliati. Certo, ma qualcuno li ha scelti. Si aggiunge: colpa dell'assenteismo. Ovvio, ma non penso che la gente avesse di meglio da fare, è che chi di dovere non è riuscito a motivarla a sufficienza. Gli agguati giudiziari e mediatici certo non hanno aiutato, ma il vero problema penso sia la babele di voci che alla lunga ha stordito gli elettori a partire da quella sulla gestione del Covid: vaccini sì ma anche no, via libera al green pass ma proprio non ci piace, eccetera eccetera. E infine quell'eccesso di astio nella concorrenza tra Lega e Fratelli d'Italia che ha svilito i contenuti e trasformato le elezioni in una gara a due sulla testa dei candidati stessi. È presto per trarre conclusioni però a caldo si può già dire che la spinta propulsiva di sovranismi e populismi - di tutti i segni - sembra mostrare la corda. Lo dimostra il successo di Sala a Milano - primo sindaco a essere eletto al primo turno- quello personale di Calenda a Roma, in generale la sensazione è che nelle urne ha aleggiato un effetto Draghi, cioè voglia di una politica competente e autorevole. Il tracollo dei Cinque Stelle, veri sconfitti di questa tornata, sta lì a dimostrarlo. Immagino che per due settimane - cioè fino al ballottaggio - si lavori per salvare il salvabile a Roma, Torino e Trieste. Ma poi servirà un tagliando: gli elettori di centrodestra ci sono e non hanno tradito con altri partiti. Bisognerebbe spiegargli con chiarezza, fino a che si è in tempo, che cosa è questa coalizione a doppia trazione, dove e con chi vuole andare. Operazione non semplice ma non più rinviabile».

Stefano Feltri sul Domani tematizza il voto in chiave di rafforzamento del Governo:

«Draghi ha di che essere soddisfatto. Il progetto sovranista di Matteo Salvini si è definitivamente dissolto: il leader della Lega non è riuscito a costruire un centrodestra a sua immagine, le tensioni all'interno di una coalizione che in teoria guidava hanno prodotto candidati deboli (Bernardo a Milano, Michetti a Roma, Maresca a Napoli). Fratelli d'Italia non sembra al momento in grado di intercettare i delusi dal salvinismo: a Milano, il centrodestra nel suo insieme ha preso quasi dieci punti in meno che alle europee del 2019. L'uscita di Salvini è ormai inevitabile, anche se non sarà immediata. Giorgia Meloni però non sembra pronta o capace di prenderne il posto. Ad approfittare di questo stallo a destra possono essere candidati centristi: con caratteristiche diverse Beppe Sala a Milano, l'unico che ha provato a cavalcare la nuova sensibilità ambientalista, o Carlo Calenda a Roma, sconfitto ma con un risultato che lo proietta come protagonista di quello spazio (piccolo o grande che sia) finora presidiato da un Matteo Renzi mai così impalpabile. Tutte buone notizie per Draghi e Mattarella. Il sostegno ai partiti di destra sarà forse maggioritario nel paese, ma nelle grandi città la combinazione Pd-Cinque stelle resiste. A Bologna, Napoli, Torino e Roma il Partito democratico ha dimostrato di esistere ancora e di saper dominare. E lo ha fatto proprio rifiutando tutte le innovazioni degli ultimi anni, in un superamento definitivo della "rottamazione" renziana: ha inglobato le dissidenze di sinistra nelle liste, ha candidato personalità di esperienza e ha fatto campagne elettorali antiche, con minimi appelli alle tematiche cavalcate dal segretario Enrico Letta (i temi identitari sul fronte dei diritti). Il Pd, insomma, ha vinto e può vincere ai ballottaggi in quanto partito dell'amministrazione responsabile, caratteristica che rappresenta ormai l'unica vera identità di un gruppo dirigente che ha abbandonato da tempo ogni tentativo di elaborazione culturale e strategica per concentrarsi sull'esecuzione. A questo Pd i Cinque stelle sono utili, ma forse non indispensabili (vedremo al ballottaggio per Roma), cosa che rasserena tutti sul lato democratico, perché è più facile stare in un'alleanza da leader, e pure sul fronte pentastellato dove molti non hanno gradito l'imposizione di Giuseppe Conte. Ora è chiaro che l'ex presidente del Consiglio non sarà mai il candidato premier della coalizione ma solo l'amministratore del declino del Movimento. Queste elezioni innescheranno scosse telluriche all'interno dei partiti, ma sono scosse di assestamento verso la stabilità».

Michele Brambilla per il Quotidiano Nazionale nota che manca comunque una classe dirigente credibile nel centro destra, ma anche a sinistra.

«I candidati di centrosinistra vincono al primo turno a Milano, Bologna e Napoli. A Roma e a Torino vanno al ballottaggio da favoriti (sì, anche a Roma, dove pure Michetti è primo). I due seggi in palio a Siena e a Roma Primavalle sono stati assegnati al centrosinistra: il segretario del Pd, Enrico Letta, torna così in parlamento. Al centrodestra restano la Calabria e forse Trieste. È un risultato complessivo inequivocabile: il centrosinistra ha vinto, il centrodestra ha perso. Nettamente. E questo è avvenuto in un momento in cui tutti i sondaggi nazionali danno il centrodestra maggioranza nel Paese. Il motivo di questo apparente paradosso lo abbiamo scritto nei giorni scorsi: il centrodestra (ma meglio sarebbe dire la destra: perché è di Lega e Fratelli d'Italia, egemoni nella coalizione, che stiamo parlando) sono formidabili nel raccogliere consensi ma non hanno saputo (con alcune eccezioni, di cui parleremo più avanti) formare una squadra di amministratori. Ieri Matteo Salvini - riconoscendo lealmente e onestamente la sconfitta - ha detto che il centrodestra ha sbagliato nel presentare i propri candidati in ritardo. È vero solo in parte. Nel senso che è vero che li hanno presentati in ritardo: ma quei candidati avrebbero perso anche se fossero stati scelti prima, perché erano deboli, debolissimi. Anche brave persone, ma non in grado di competere con candidati che avevano una lunga esperienza amministrativa. Il centrodestra ha scelto i candidati in ritardo perché si è ostinato a scegliere fra i civici e non riusciva a trovare nessuno. I candidati deboli della destra non sono un fatto contingente di queste elezioni: sono un fatto strutturale. Il problema della destra è la sua classe dirigente: lo si vede anche in parlamento, lo si è visto nel governo gialloverde. Dicevamo che ci sono alcune eccezioni. Riguardano soprattutto la Lega. Giorgetti è sicuramente un ministro di alto livello, così come Zaia e altri governatori o sindaci del Nord sono ottimi amministratori. Ma stiamo parlando di una Lega che discende da quella originaria, quella federalista, quella di Bossi. Salvini è stato fenomenale nel portare il partito a percentuali mai viste né immaginate prima: ma deve riflettere sulla qualità della sua squadra. Non basta essere i più bravi sui social, bisogna anche convincere, attrarre una classe dirigente di prima scelta. Dice, Salvini, che hanno perso un po' tutti, perché la metà degli italiani non è andata a votare. Vero. Ma visti i risultati (il centrodestra che non va neanche al ballottaggio a Milano è una cosa dell'altro mondo) è fondato il sospetto che la maggior parte degli assenteisti sia costituita da elettori, appunto, di Salvini e Meloni. Quanto al centrosinistra, ora festeggia. Ne ha motivo. Ma commetterebbe un errore tragico se si illudesse di essere maggioranza nel Paese. Enrico Letta dice che ha deciso di accettare la guida del Pd anche perché è convinto che il vento stia cambiando, e l'onda di destra calando. Non sappiamo se è così. Di certo la destra deve decidere da che parte stare: se continua a stare su posizioni sovraniste e anti-europeiste, sarà difficile vederla al governo».

MASÌA: BOOM DELL’ASTENSIONE

Prime analisi scientifiche sul voto. Sul Sole 24 Ore Mariolina Sesto fa una primissima analisi dei flussi e dei comportamenti elettorali con lo specialista Masìa.

«Premesso che queste sono state elezioni amministrative con tutte le loro peculiarità, è evidente confrontando i dati con le elezioni precedenti, che alcuni movimenti politici hanno faticato: ad esempio la Lega che ha preso il 10% a Torino e l'11-12% a Milano. Questi voti persi da Salvini non sono andati ad altri partiti ma, per la maggior parte, si sono rifugiati nell'astensione». È questa l'idea che si è fatto uno che i dati elettorali li mastica per mestiere, Fabrizio Masìa, partner e ad di Emg Different, uno dei tre istituti del consorzio Opinio Italia che ieri ha prodotto gli Exit poll e le proiezioni per la Rai. «La differenza l'hanno fatta di sicuro i candidati - è la lettura di Masìa - e la loro capacità di mobilitare un elettorato moderato. È per questo, ad esempio, che a Torino la lista di Paolo Damilano potrebbe prendere più voti di Lega e Fdi. Allo stesso modo Occhiuto in Calabria ha trascinato verso l'alto i consensi per Forza Italia che in quella regione stravince mentre la Lega va giù». Morale della favola: è vero che queste comunali hanno rappresentato un duro colpo per il centrodestra ma, laddove Lega, Fi e Fdi hanno presentato candidati credibili, questi sono stati apprezzati dall'elettorato: «Un esempio è Dipiazza a Trieste - fa notare Masìa - ha governato bene ed ha preso più voti del candidato di centrosinistra». C'è poi il tema coalizioni. «L'esito del voto mostra chiaramente - è la convinzione di Masìa - che i candidati con dietro una coalizione sono stati premiati. È il caso di Lepore a Bologna e Manfredi a Napoli. Questo rende ora interessante guardare alla dinamica interna tra Pd e M5S». Infine, cosa ci possiamo aspettare che accada al governo Draghi all'indomani del voto? «Draghi continuerà a prendere le sue decisioni guardando solo al bene del Paese - scommette Masìa -. Chi infatti dopo questo turno elettorale, avrà il coraggio di chiedere di andare a votare? Non certo il centrodestra che dovrà riflettere su quanto accaduto e riorganizzarsi; ma neanche il centrosinistra che ha bisogno di tempo per far decollare la coalizione».

COMMENTI E INTERVISTE 1. I LEADER.

Enrico Letta è stato eletto a Siena nelle suppletive: torna a Montecitorio. Il voto per lui ha il sapore di una rivincita contro le critiche. Lo dice a Giovanna Vitale di Repubblica.

«All'inizio, lo stemma del Pd non c'era: sul palchetto dell'hotel Garden allestito per la conferenza stampa del segretario nazionale campeggiava solo il simbolo - anonimo - col quale Enrico Letta ha corso alle suppletive toscane: un tondo rosso con il suo nome e cognome ma nessun logo di partito, «l'ha nascosto, se ne vergogna», l'accusa lanciata dagli avversari. Una scelta necessaria in realtà, spiegò lui allora, per rappresentare il centrosinistra largo, da Iv al M5S, che aveva deciso di sostenerlo. Per questo, quando prima di pranzo scende per un sopralluogo, il leader pretende che il simbolo del Pd compaia sul podio dal quale, a sera, commenterà il risultato delle amministrative. Sente profumo di vittoria e vuole che sia ben chiaro a chi va attribuita. «A marzo, mai avrei immaginato di vivere una giornata così straordinaria», scandisce. «Quella di oggi è la prova che la destra si può battere e che si vince se allarghiamo. Siamo tornati, ovunque, in sintonia con il Paese». Se dovesse sintetizzare in due parole il risultato di oggi, quali userebbe segretario Letta? «Orgoglio e rivincita verso tutte le approssimazioni, le critiche e le polemiche di questi mesi. Oggi può nascere una nuova stagione politica, il nuovo Ulivo: un centrosinistra moderno e anche radicale, nei comportamenti e nei temi. La dimostrazione che non esiste contrapposizione tra diritti sociali e diritti civili: la persona è una e si realizza nel lavoro come nella propria identità». Lei ha parlato di grande successo del centrosinistra e del Pd: ha capito qual è stata la chiave? «Aver privilegiato l'unità: intanto quella interna al Pd che ci ha consentito di superare le divisioni del passato; in secondo luogo l'unità del centrosinistra, che siamo riusciti a realizzare in quasi tutti i comuni dove si è votato, mentre nel 2016 la situazione era opposta e al primo turno non fummo in grado di vincere nessuna città al primo turno. E poi l'unità del Paese, che ha attraversato un momento difficilissimo: la nostra vittoria rafforza l'Italia perché rafforza il governo Draghi». Non starà esagerando? In che modo la vittoria del centrosinistra alle amministrative rafforza l'Italia e il governo Draghi? «Dopo il voto di oggi l'Italia è ancora più europea perché ha premiato uno schieramento progressista, che ha nell'Europa il suo punto di riferimento nel Pd il baricentro. Dall'anno prossimo si dovrà rientrare in regole di bilancio più severe, operare scelte complicate: solo una coalizione unita e coesa sarà in grado di prendere, nel 2023, il testimone da Draghi. Il mio modello è quello di Scholz con la Merkel: garantire continuità al governo dentro un percorso complesso. Perciò faccio un appello agli alleati è: in questi sei mesi di unità abbiamo capitalizzato un patrimonio, non disperdiamolo». A Roma però il centrosinistra era diviso in tre, a Torino idem. Come farà a convincere Conte e Calenda ad appoggiare i vostri candidati? «Noi ci affideremo agli elettori e gli chiederemo di fare una scelta chiara: o di qua o di là. Di votare per i nostri candidati, che sono tutte personalità di alto profilo, anziché per quelli del centrodestra che ha alzato bandiera bianca. E lo faremo rivolgendoci innanzitutto alle liste a noi più vicine. Io ho visto il M5S in migliore salute laddove era alleato con noi. E con Calenda dobbiamo convergere, anche se lui ha deciso in prima battuta di correre da solo. Il mio compito sarà ora persuadere tutti che stare insieme è l'unico modo per vincere, fra quindici giorni e alle politiche del 2023». Salvini sostiene che avete vinto più per demerito loro che per meriti vostri. E che ad aiutarvi è stata anche la bassa affluenza. «Il centrodestra ha sbagliato i candidati sindaci, ha scelto personaggi di seconda o terza fila e non lo dico io, ma gli stessi leader di quella coalizione. Ma sbagliare i candidati nelle grandi città non è un dettaglio: è la prova che il centrodestra non è affidabile e senza Berlusconi - che era il federatore e ha pronunciato parole terribili - è più debole. Noi l'abbiamo fatto tante volte di rifugiarsi nelle piccole scuse per giustificare una sconfitta. Anche in Calabria l'affluenza è stata bassa eppure hanno vinto loro, purtroppo. Con un candidato di Forza Italia, il partito dello schieramento che mi pare sia andato meglio». Napoli, Bologna e Milano vinte al primo turno: se l'aspettava? «Questo risultato dimostra che si vince se si allarga la coalizione oltre il Pd. Anche nel collegio Toscana 12 abbiamo prevalso perché abbiamo allargato, nonostante le polemiche pretestuose sul simbolo: è finita con 12 punti di margine e siamo davanti sia nel comune di Siena sia a Cortona, entrambe amministrati dal centrodestra. Ora si apre la partita dei ballottaggi, che non è il secondo tempo, ma un match tutto nuovo: noi amplieremo ancora il campo e sono certo che vinceremo». È ancora Conte il punto di riferimento fortissimo dei progressisti? O tocca a lei guidare? «Quella era un'altra fase. Con Conte il rapporto è ottimo, lavoriamo bene e continueremo a lavorare, ma sulla nostra coalizione, anche alla luce di risultati di oggi, bisognerà fare un discorso allargato». Non starà correndo troppo? In fondo sono solo amministrative... «Per me sono la prova generale delle politiche perché testimoniano che la destra è battibile. Quando sei mesi fa mi è stato chiesto di tornare, la vittoria di Salvini e Meloni pareva ineluttabile. Noi abbiamo fatto una campagna non sui social o nei salotti, ma casa per casa, sul territorio, fra la gente. Su temi concreti, parlando di ciò che interessa alle persone. Ci siamo riappropriati di due parole - sicurezza e libertà - che parevano appannaggio della destra. Con la posizione su riaperture e Green Pass, abbiamo mostrato che esiste un centrosinistra responsabile e adulto, in grado di governare meglio di chi preferisce strizzare l'occhio ai no vax».

Matteo Salvini, a caldo, cerca di interpretare un voto che ha sicuramente penalizzato la Lega. Cesare Zapperi sul Corriere.

«Trovare motivi di conforto nei risultati delle urne per la Lega è come intravedere un raggio di sole che buca la pioggia battente che per tutto il pomeriggio e fino a sera si abbatte su via Bellerio, storica sede fin dai tempi del Senatùr Bossi. Ma Matteo Salvini ci prova ugualmente. E di fronte ai quasi trenta punti di distacco rimediati da Luca Bernardo a Milano, la città del segretario che ha spinto perché si puntasse sul pediatra, e agli altrettanti incassati da Fabio Battistini a Bologna (altro candidato voluto dal leader), si dice soddisfatto perché da questo turno amministrativo il Carroccio esce con una cinquantina di sindaci in più (e 500 consiglieri comunali) e va al ballottaggio a Caserta e Varese. «E in tanti Comuni della provincia - sottolinea - da Codogno a Melfi, da Nardò a Villorba, si è vinto al primo turno». Ma per quanto possa risultare ardito mettere sullo stesso piano metropoli e piccole comunità, Salvini non può sottrarsi da una autocritica per quel che hanno detto le urne di Milano, Bologna, Napoli, dove il centrosinistra ha vinto fin dal primo turno, e di Roma e Torino, dove il ballottaggio si presenta in salita. «Abbiamo lasciato troppo poco tempo per presentare e far conoscere i candidati» è l'analisi. Tutta una questione di tempi, non di contenuti perché il segretario difende le scelte fatte sugli uomini: «Abbiamo scelto i migliori candidati possibili, da me non arriverà mai una parola negativa nei confronti di Bernardo, né di Michetti, né di Damilano, né di Battistini», assicura. «L'insegnamento tratto è scegliere presto e insieme. Nessuna scusa, dove si è perso, si è perso per demeriti nostri». Qualcosa da dire c'è anche sulla partecipazione al voto: «Il 50 per cento di affluenza è una sconfitta per tutti. I cittadini ci dicono che dobbiamo pensare ai problemi reali e perderci meno in beghe politiche. Faccio fioretto di non rispondere più agli attacchi dei nostri avversari». Come nelle sue corde, Salvini cerca di non soffermarsi troppo sulla partita in corso (nel pomeriggio passa da una diretta tv all'altra, ma in sala stampa si presenta solo in serata per una dichiarazione senza «concedere» domande ai cronisti) e sposta i riflettori sul futuro. Con un'accelerazione sorprendente. «L'anno prossimo saranno chiamate al voto 25 città importanti (da Genova a Padova, da Verona a Lecce) e dobbiamo fare tesori degli errori fatti. Per questo dobbiamo decidere il prima possibile». Ecco l'iniziativa. «Ho intenzione di chiamare Giorgia (Meloni) e Silvio (Berlusconi) per proporre loro di vederci subito dopo i ballottaggi affinché noi si sia in grado di scegliere i candidati sindaci già a novembre». È stato l'unico accenno diretto alla presidente di Fratelli d'Italia, così come non ce ne sono stati altri nei confronti del leader di FI. A caldo, meglio concentrarsi sui propri risultati: il leader si dice convinto di aver conservato, salvo casi particolari come a Bologna, la leadership del centrodestra. Ma in moltissime città (da Roma a Torino) non è così e comunque rispetto alle Europee del 2019 ci sono arretramenti di 10-15 punti in diverse realtà. Anche sulle tensioni interne alla Lega e sulla divisione più o meno artefatta tra partito di lotta e partito di governo, Salvini preferisce sorvolare. «Siamo concordi e compatti sull'obiettivo di vincere le elezioni politiche del 2023. Le polemiche e le spaccature esistono solo sui giornali». L'attenzione del leader si sposta sul governo. «Sicuramente nell'azione del governo chiederemo a Draghi maggiori incisività su alcuni temi: taglio delle tasse, sicurezza, giustizia, scuola, perché metà della gente che non è andata a votare probabilmente chiede più concretezza. Spero di non passare le prossime settimane in Parlamento a discutere di legge elettorale, ddl Zan e ius soli». Temi, guarda caso, cari al segretario del Pd Enrico Letta. Al quale Salvini affida una riflessione: «Festeggiare il ritorno in Parlamento con un'affluenza alle urne del 30 per cento significa sottovalutare la rabbia e la disillusione dei cittadini».

E Giuseppe Conte? Luca De Carolis sul Fatto racconta gli umori del nuovo leader dei 5S.

«A Napoli è un trionfo con il contiano Manfredi, altrove è tutto il contrario, con Virginia Raggi che saluta dignitosamente e il M5S che nel voto di lista nelle città va male o malissimo. Mescolare il tutto, ed ecco il presidente Giuseppe Conte, che un po' è realista e un po' si giustifica: "C'è tanta domanda di politica, abbiamo cercato di intercettarla, però siamo partiti molto tardi". Chissà se è un riferimento a quel Beppe Grillo con cui in estate era stata guerra totale, tale da bloccare l'avvocato per settimane e da spingerlo sull'orlo della scissione, di un suo partito. Diversi mesi dopo, a urne delle Amministrative ancora aperte, proprio Grillo twitta una sua foto quasi iconica con Gianroberto Casaleggio. A corredo, parole pragmatiche per celebrare il 12° compleanno del Movimento: "Dodici anni fa abbiamo fatto l'impossibile, ora dobbiamo fare il necessario". Ovvero, dal sogno si è passati alla realtà, dal no a qualsiasi alleanza si è passati al Conte che di lunedì pomeriggio ribadisce la rotta: "Le proiezioni confermano l'enorme potenzialità del nuovo corso e la prospettiva politica seria di lavorare assieme alle forze progressiste. I dati di Napoli e Bologna sono politicamente molto importanti". Tradotto, il M5S deve insistere sulla strada del centrosinistra. Per questo l'ex premier in serata corre a Napoli, per celebrare la vittoria dell'unico candidato sicuramente suo, lasciandosi dietro una risposta che conferma il gelo irrimediabile con Grillo: "E che sono, l'interprete dei suoi post?". Però i numeri nelle urne in giro per l'Italia sono poca, pochissima roba; il 9 per cento nella Torino dove governava Chiara Appendino, un tragico 2,88 a Milano, un altrettanto mortifero 3 e qualcosa a Bologna, addirittura il 2 a Varese. "Nel Nord non esistiamo, se andiamo con il Pd la gente vota il Pd", ringhia un parlamentare di peso. "Siamo all'inizio di un nuovo corso, questo è un progetto a medio e lungo termine, e poi noi siam poco radicati nei territori" prova a spiegare Conte. Di più non si poteva fare, è la tesi. E ora bisogna essere pragmatici, quindi ecco la linea per il secondo turno: "I cittadini non possono essere considerati pacchi postali, ma la nostra proposta politica non può avere affinità con le forze politiche di destra". Ergo, Conte parlerà a favore di alcuni candidati di centrosinistra. Ai piani alti del Movimento danno per scontato "un segnale" dell'ex premier a Roma per Gualtieri, "che è pur sempre un suo ex ministro". Mentre per il dem Lo Russo non dirà nulla, non per l'uomo che presentò un esposto contro la sindaca uscente Chiara Appendino, probabilissima vicepresidente nella segreteria del M5S . Oggi sarà in Sardegna, Conte, per sostenere i candidati del centrosinistra a Carbonia e a Olbia. Mentre venerdì parteciperà in collegamento a un evento a Roma, il Forum Compraverde, e chissà se potrà essere l'occasione per quel segnale a Gualtieri. Ma dovrà essere attento alle sfumature, l'avvocato, perché non bisogna irritare Raggi. La 5Stelle che "non sparirà, perché è nel comitato dei Garanti con Di Maio e Fico" come aveva ricordato sempre lui, Grillo, nella telefonata al comizio conclusivo della sindaca uscente. Reattiva, ancora. Le prime parole pronunciate ieri sera al suo comitato da Raggi - "sono l'unica che sta tenendo testa alle corazzate del centrosinistra e del centrodestra" - suonavano già come un possibile muro a Gualtieri e al Pd (tanto che Roberta Lombardi le ha subito risposto: "La politica non è un risiko, bisogna confrontarsi"). Ma sono state anche un modo per rivendicare i numeri del M5S a Roma, decisamente i migliori a livello nazionale assieme a quelli di Napoli. Perché nella Capitale i 5Stelle ieri sera veleggiavano sopra l'11 per cento, dato molto simile a quello del capoluogo campano. Il resto è un bel problema. E in serata il segreterio dem Enrico Letta fa capire che certe cifre in politica fanno la differenza: "Conte fortissimo punto di riferimento? Quella era un'altra fase". Quando i voti ce li avevano soprattutto i grillini».

Giorgia Meloni non si dà ancora per vinta. Difende la candidatura di Michetti a Roma e spera in un pareggio finale: 3 a 3. Fabrizio De Feo sul Giornale.

«Fdi è oggi il primo partito del centrodestra. La politica del buon senso, di cose concrete a difesa cittadini è vincente e competitiva». Giorgia Meloni attorno alle 20, dopo aver atteso a lungo per poter valutare dati il più possibile credibili, si presenta nella sala stampa del partito e rivendica la sua vittoria di lista, se non di coalizione. Se i risultati dei candidati del centrodestra non sono certo tali da fare alzare in alto i calici, il risultato di Roma, con l'affermazione parziale di Enrico Michetti, primo davanti a un big del Pd come Roberto Gualtieri, è certamente motivo per festeggiare. «FdI è il primo partito della Capitale e ha avuto un ruolo fondamentale nella determinazione del candidato sindaco e mi pare di poter dire che un centrodestra a trazione Fdi è molto competitivo» commenta la leader del partito. «Il candidato non conosciuto e improvvisato, come è stato descritto, Enrico Michetti è arrivato primo a Roma, anche con uno scarto importante», mentre «il risultato di Gualtieri è deludente e sotto le aspettative oggettivamente. Così come a Virginia Raggi credo che vada riconosciuto un risultato di tutto rispetto, nonostante la débâcle del M5S. E credo sia ragguardevole il risultato di Calenda pure molto osteggiato dalla sinistra». La conseguenza del ragionamento di Giorgia Meloni è semplice: noi siamo pronti per andare al voto, gli altri lo sono? Una considerazione che si tramuta in una sfida diretta lanciata a Enrico Letta. «Fratelli d'Italia è disponibile a votare Mario Draghi alla presidenza della Repubblica a patto che si vada subito a votare». Detto questo non si può sottovalutare il nodo del disinteresse dimostrato dagli cittadini verso le urne. «Quando si vota in città importanti e si configura un astensionismo che oscilla attorno al 50%, ci si deve interrogare sul fatto che non siamo di fronte a una crisi della politica, ma della democrazia». I dati indicano che Fratelli d'Italia, rispetto al derby sovranista con la Lega, ha messo a segno il sorpasso a Trieste (un vero e proprio exploit con un salto dal 4 al 16%), a Bologna, mentre a Torino si gioca una sfida all'ultimo voto, anche se Augusta Montaruli sottolinea come «la vera sorpresa sia Fratelli d'Italia. Abbiamo più che raddoppiato i voti rispetto alle regionali del 2019, è un risultato che dovrà dar riflettere». A Roma il partito di Giorgia Meloni conquista la palma di primo partito. E Fabio Rampelli da romano mette l'accento su un dato dalla forte valenza simbolica. «Fratelli d'Italia è cresciuto a Roma più che in qualsiasi altra grande città. Merito di Giorgia Meloni e della classe dirigente romana. Infine, una valutazione sugli entusiasmi del Pd: governavano in 5 città, ne escono con 3». A Milano il sorpasso, pronosticato da molti osservatori, alla fine non si concretizza. La Lega conquista l'11,4%, più o meno come 5 anni fa, Fratelli d'Italia si attesta al 9,9%, con una crescita importantissima rispetto al 2,4% sempre di 5 anni fa. Fdi sembra erodere comunque i consensi salviniani in diverse città, ma la vera partita è soltanto iniziata. «Il risultato di Fdi va letto nel contesto di un centrodestra che non vince nella maggior parte delle città, e forse anche per questo il partito non registra il boom sperato» è l'analisi di Livio Gigliuto, vicepresidente dell'Istituto Piepoli. «La crescita rispetto a cinque anni è comunque la prova di un trend di crescita che si conferma».

COMMENTI E INTERVISTE 2. IL VOTO A ROMA

I voti che ha raccolto sono già una notizia. Carlo Calenda, candidato al Campidoglio super partes, spiega le sue ragioni a Giovanna Casadio di Repubblica.

«È stato uno sforzo titanico, una sfida senza altre liste accanto. Faticosa, difficile. Non una battaglia di testimonianza però, ho sperato di andare al ballottaggio e ci ho lavorato un anno. E ora sono molto dispiaciuto. Quando non si raggiunge l'obiettivo per cui ci si è spesi, bisogna dirlo». Carlo Calenda, il leader di Azione, l'outsider che ha riempito le piazze nella corsa per il Campidoglio ma non le urne, parla della sconfitta. Ad addolcirla tuttavia, c'è il risultato della "lista Calenda" che è, nelle proiezioni consolidate, al 15,3%,in pratica a un passo dal Pd. Calenda, si sente tradito e da chi? Dalle periferie che ha girato in lungo e in largo? «Ma no! Nessun tradimento. È stato uno sforzo titanico il nostro. Ringrazio i 1.500 ragazzi con i quali abbiamo fatto una campagna elettorale porta a porta, il mio staff che rappresenterà una risorsa di classe dirigente per la politica italiana». E anche sua moglie Violante? «Sì certo. Anche mia moglie è molto dispiaciuta: ci ha creduto molto anche lei. Comunque è stato un buon risultato. Adesso ci rialziamo per portare un po' di pragmatismo e sano riformismo nella politica italiana». Letta, il segretario del Pd, ha detto che lei è un interlocutore e che le vostre strade si dovranno incontrare. Come risponde? «Avevo capito che ero di destra ...». Quindi risponde picche? «Enrico è un amico, parleremo. In questa campagna elettorale il Pd ha usato parole ultimative nei miei confronti. Però non ci sarà mai una questione personale tra me e Letta, contro il quale a Siena abbiamo evitato di presentare candidature». Dove andranno i suoi voti, li riverserà su Roberto Gualtieri? «Non faremo apparentamenti, non sarebbe onorevole. La nostra lista civica ha raccolto consensi da sinistra, dal centro, da destra». E quindi nessuna indicazione? «Deciderò nei prossimi giorni, ma sul mio voto personale e senza contropartita. Sono 220mila le persone che hanno votato la lista Calenda. La fiducia nei miei confronti è alta, quindi non voglio nessuna ombra e sospetto che si possa pensare a alleanze in cambio di posti in giunta». In pratica semplicemente dirà per chi intende votare al ballottaggio? «Probabilmente». La sfida nella sfida è battere la Raggi e arrivare terzo? «Lo sarebbe per la mia autostima, ma non cambia molto politicamente. Credo che Raggi sia stata insieme a Alemanno uno dei peggiori sindaci della Capitale. È stata bocciata dall'80% dei romani. Non so se si è mai vista una cosa così per una sindaca uscente». Neppure l'onore delle armi? «Si è battuta . Anche se in modo talvolta un po' scombiccherato e scorretto». E lei ora cosa farà? «Come ho sempre detto, se fossi stato eletto sindaco avrei fatto il sindaco. Non essendo stato eletto, almeno che non risultino dati differenti, rimarrò europarlamentare. Il nostro obiettivo comunque, lo ripeto, non era una testimonianza ma arrivare a governare Roma. Rivendico con orgoglio un risultato che è stato comunque importante, perché è un'area di riformismo pragmatico che non si accontenta dell'offerta politica attuale e che a Roma ha avuto una affermazione molto significativa. Per una lista civica abbiamo raggiunto un dato senza precedenti». Intorno al 17,5%. «Forte di questo risultato si apre per noi una fase di lavoro importante anche a livello nazionale». Immagina di lavorare a un raggruppamento centrista e con chi? «Non penso a questo: per me il riformismo è il contrario del moderatismo e del centrismo. E poi non tramite alleanze. Andrò in giro a prendere il consenso, come ho fatto a Roma».

Comunque la pensiate, il tramonto della Raggi è un evento di prima grandezza per la politica italiana. Non solo per i romani. Ne scrive Filippo Ceccarelli per Repubblica.

«Sindaco o sindaca? «Chiamatemi Virginia» rispose il primo giorno, con un sorriso. E quindi: addio, Virginia. L'epicedio o canto di lutto è un genere letterario che non ammette gioia, ovviamente, né sollievo, né rancore. Mancheranno, è vero, accompagnamenti di danze e suoni di flauti, ma l'aver perso a Roma, al netto dell'amarezza, farà bene soprattutto a lei, Raggi, che è giovane (42) e molto ancora potrà fare per sé e forse anche per gli altri. Sono stati cinque anni di fatiche pazzesche, sofferenze, sberleffi, tradimenti. In un articoletto dell'autunno del 2018, come dire a metà consiliatura, si legge che aveva già accumulato 360 denunce e perso 14 chili. Una volta, durante un interrogatorio, è svenuta. Non si vuole far del pietismo, ma è pur vero che il potere si è rivelato con lei, più che severo, crudele. Nel giorno della fine corre la memoria visiva al trionfo, quando arrivò in Campidoglio a bordo di un'automobilina elettrica; per poi affacciarsi su quel magnifico balcone da cui, diceva Rutelli, «è facile perdere la testa». Una figurina sopraffatta da una solitudine di cielo, pietra, abisso e splendore. Ci scappò anche una lacrima, immagine in seguito tornata utile al meme terminale e riepilogativo: «Era meglio se restavo a fa' le fotocopie allo studio di Previti». Addio Raggi. I romani, d'altra parte, non li ha mai conquistati. Si avvertiva nei suoi modi un che di algido, un'intermittenza emotiva che buttava ora sul risentito, ora sull'infastidito; quasi certamente era paura, la più giustificabile alla luce dei risultati, ma anche e sciaguratamente, della scarsa qualità umana delle persone che si era scelta. "Gentarella", come si dice qui, nel migliore dei casi, altrimenti gentaccia. Ma soprattutto: Roma si è rivelata un affare immensamente più grande di lei che ne ignorava la curva catastrofica e forse nemmeno possedeva la percezione culturale dei suoi terribili guasti. In campagna elettorale - e perciò troppo tardi e con troppa enfasi - s' è detta «innamorata pazza», ma chi poteva crederci? Nessun altro sindaco - e le si fa un complimento - è mai stato così incapace di simulare e dissimulare. Anche se nessuno, in tutta onestà, può pensare che abbia privilegiato il suo tornaconto o la sicurezza personale. Scorrono le foto di questi anni: in fuga sul tetto del Campidoglio, molto bella in abito Gattinoni all'Opera, bellicosa nella cerimonia dell'abbattimento delle villette Casamonica (quella notte dormì con il sacco a pelo in ufficio), sul terrazzino di casa durante il lockdown a tagliare i capelli al marito, anche lui molto autentico, però anche un po' querulo. Certo, al netto del fervore elettoralistico, dei cantieri dell'ultim’ora e delle inaugurazioni presciolose, i problemi dell'Urbe sono rimasti quelli di sempre, alcuni pure aggravati. Una volta, camminando a via del Corso, è inciampata anche lei in una buca (poco dopo è toccato anche a Grillo). Tutti i soliti guai sono continuati ad andare nel peggiore dei modi, la manfrina delle discariche, l'immondizia per strada, il traffico impossibile, la metro che si rompeva, i bus che prendevano fuoco, i dipendenti capitolini premiati e scontenti, le bare insepolte, gli ambulanti predatori, il culto delle ciclabili deserte, i monopattini dappertutto, i centurioni... Altro che la mancata teleferica, altro che Spelacchio! Pure i terribili poeti romaneschi ci si sono messi, trombette di vittimismo: "Virgì, Roma nun te merita!". In verità Virgì ha dedicato più tempo al cambio degli assessori (16, forse 17), alla girandola delle poltrone e a marketing della sua immagine che alle piaghe dell'Urbe. Considerati i poveri voti di ieri, non è servito a nulla darci dentro coi social, ondeggiando tra buffi siparietti domestici (a un certo punto anche un cagnolino) e baldanzose semplificazioni tipo "voglio", "pretendo", la gladiatora, la combattente, ma via! Nel frattempo, il Colosseo sbagliato, la ridicola targa di Azelio Ciampi, i topi, i gabbiani, i cinghiali, la moria degli storni e dei pesci. Negli ultimissimi giorni della campagna si è regalata un tango col casquè. Anche lì, sulla pista, sembra di vedere una figurina in lontananza che si abbandona, finalmente. Non è detto che sia un male per Virginia aver perso. Non è detto che tutto questo non servirà a qualcosa di meglio».

DRAGHI VA AVANTI, OGGI IL FISCO

Le ripercussioni del voto amministrativo sul Governo sembrano non minacciarne l’azione. Nel suo retroscena Francesco Verderami sul Corriere della Sera nota che l’unica reazione di Mario Draghi è stata quella di convocare una riunione sulla riforma del fisco.

«Ieri il premier ha voluto commentare il risultato delle Amministrative annunciando per oggi il Consiglio dei ministri che dovrà varare la delega fiscale. È stato un modo per mandare «un avviso alla maggioranza», come spiega un rappresentante del governo: «Perché Draghi aveva già pronto il testo. Se aveva accolto la richiesta di rinviare la riforma a dopo le elezioni, ora dice ai partiti: abbiamo degli impegni». E fine della ricreazione. Che il premier non intendesse stare sotto lo scacco delle forze politiche e delle loro scaramucce, era parso chiaro ai ministri durante l'ultimo Consiglio. Prima Draghi li aveva invitati a «tenere le beghe tra partiti fuori da questa stanza». Poi li aveva gelati con una battuta fatta mentre si discuteva la norma sui referendum: «... E se l'anno prossimo ci fossero le elezioni anticipate, vorrebbe dire che i referendum slitterebbero». Nessuno però ha la forza di toccare il governo. Sarà vero, come dice la Meloni, che la bassa affluenza alle urne testimonia una «crisi della democrazia», ma è anche il segno di una profonda disaffezione della pubblica opinione verso le modalità d'azione dei partiti, come riconosce Salvini nella sua autocritica. E il voto conferma la debolezza delle forze politiche. La debacle del centrodestra evidenzia come la coalizione non abbia un leader capace di fare sintesi ma ne ha due impegnati in un'eterna competizione. Tanto che ieri FdI ha subito rivendicato di esser diventato il «primo partito» dell'alleanza. Sul versante opposto l'affermazione del Pd avviene sulle macerie del grillismo. Il centrosinistra oggi non esiste, dato che «al Nord M5S sta scomparendo», come ha evidenziato Prodi, offrendo a Renzi la possibilità di dire che «Iv è avanti ai grillini quasi ovunque». In queste condizioni la dote che Conte porta a Letta è insufficiente per competere con gli avversari. E infatti il leader del Pd deve parlare di una «coalizione allargata», evocando il progetto della maggioranza Ursula. Un disegno che per realizzarsi dovrebbe però passare per una rottura del centrodestra di governo. Ma proprio per impedire un simile scenario, Salvini si è affrettato a sottolineare che «noi stiamo nell'esecutivo e vi rimarremo. E se qualcuno usasse il voto per abbatterlo, sarebbe irresponsabile». Parlava al Pd perché Meloni intendesse, e anche per ripararsi dalle critiche interne al suo partito, dopo una campagna elettorale giocata sul green pass invece che sui risultati ottenuti dal governo di cui fa parte. Una linea che lo ha consegnato alla sconfitta. Si vedrà se il leader del Carroccio sarà capace di gestire il rapporto con il premier e quello con la Meloni: già ieri è tornato a criticare il Viminale e l'ipotesi di revisione del catasto. Ma non coi toni usati in campagna elettorale: non può più farlo. Così si torna a Draghi, attorno a cui si stringono per necessità i partiti della maggioranza. Compreso ovviamente il Pd, dove nel giro di sei mesi è cambiato il lessico con cui si parla del governo di larghe intese. All'inizio era stato vissuto come «un pericolo» da autorevoli dirigenti del Nazareno. Oggi invece a Draghi si porta in omaggio la vittoria, «perché grazie al nostro successo si rafforza», dice Letta. E il ministro Orlando, che non voleva saperne di sedere al fianco della Lega «nemmeno se a Palazzo Chigi ci fosse superman», adesso scommette che «il governo potrà andare avanti con più velocità e determinazione». Proprio quello che ha chiesto Draghi. Ma lo scontro tra partiti non si ferma. Si sposta sulla corsa per il Quirinale. Meloni già sfida Letta, dicendosi disponibile a votare Draghi se poi si andasse subito al voto: il guanto in realtà è lanciato a Salvini. Così il centrodestra potrebbe nuovamente dividersi, disperdendo la forza dei numeri di cui dispone con i suoi grandi elettori e lasciando al Pd la regia sul Colle. Se non fosse che anche il centrosinistra è diviso, perché Conte non controlla i gruppi parlamentari e il Pd annovera troppi candidati. Sul Quirinale potrebbe scoppiare l'ennesima crisi dei partiti».

TERZA DOSE, OK DELL’EMA. NUOVO CALENDARIO

È arrivato l’ok dell’Ema, adesso toccherà all’Aifa e al CTS declinare la somministrazione della terza dose in Italia, già iniziata per i più fragili (stamattina alle 6 risultano 153 mila 588 richiami già iniettati, pari al 2 per cento della popolazione over 12). Il punto di Adriana Logroscino sul Corriere della Sera.

«Gli scienziati del Comitato tecnico scientifico si prendono il tempo per una valutazione che è già iniziata ma non è conclusa. La macchina organizzativa, invece, è già in moto. Pronta a partire dalla fine di ottobre, con la somministrazione della terza dose di vaccino anti Covid ai 70-79enni e, a ruota, ai 60-69enni. Anche per la terza dose, il piano è iniziare con l'apertura delle prenotazioni, sulla base della data in cui si è ricevuta la seconda dose. Ma poi via con gli open day e le vaccinazioni senza appuntamento. E, rispetto alla prima tornata, a somministrare saranno anche i medici di base e i 22 mila farmacisti che hanno completato la formazione come vaccinatori. La nota dell'Ema demanda la decisione alle autorità sanitarie nazionali che si baseranno sulla risposta degli anticorpi al primo ciclo di vaccinazione, e sul suo attenuarsi col passare del tempo e in base all'età. Il Comitato tecnico scientifico ha già iniziato la valutazione proprio partendo dagli over 70. «Per il momento - conferma Franco Locatelli, che del Cts è coordinatore - l'unica decisione assunta riguarda immunocompromessi, ospiti delle Rsa, ultraottantenni e operatori della sanità oltre i 60 o più esposti. Categorie per le quali la somministrazione della terza dose è iniziata. Riguardo a chi ha più di 70 anni e anche chi ne ha più di 60, la discussione è in corso». Chi si aspetta una decisione a breve è il commissario per l'emergenza che sta guidando la campagna vaccinale, Francesco Paolo Figliuolo. È Figliuolo, infatti, a far trapelare che il programma è già nero su bianco. «Aspettiamo la valutazione dell'Ema sulla terza dose - aveva dichiarato, ospite della trasmissione di Raitre Che tempo che fa , due giorni fa - noi di dosi ne abbiamo in quantità sufficiente per vaccinare tutti gli italiani una terza volta. E senza sospendere la campagna delle prime dosi e dei richiami: possiamo procedere in parallelo. La macchina è rombante, tutti ce la invidiano, e l'equipaggio deve salire a bordo. Ma naturalmente saranno gli scienziati a indicarci come procedere. Noi siamo pronti». Ed è in base alla valutazione degli scienziati sul «decalage» degli anticorpi che i primi a essere chiamati per una terza dose saranno i 70-79enni. La terza dose, come indica l'Ema, deve essere somministrata ad almeno sei mesi di distanza dalla seconda. E il Cts si orienta a suggerirla agli over 60. Si comincia, come sempre, dai più anziani. I 70-79enni, circa sei milioni, sono stati chiamati negli hub a partire dall'11 marzo e hanno in gran parte completato il ciclo entro la fine di aprile scorso. La finestra perché ricevano la terza dose, quindi, per loro si apre già alla fine di questo mese. Naturalmente non sono mancati ritardatari e riottosi, ma la platea dei vaccinabili con un ulteriore richiamo è composta dal 90% di quei sei milioni. Per lo stesso calcolo, i 60-69enni - salvo che il Cts scelga di chiamare per la terza dose dai 65 anni, come Francia e Stati Uniti - che hanno completato il ciclo entro la fine di giugno, sarebbero richiamati ai primi di gennaio. In questo caso su un bacino di circa 7 milioni e mezzo di vaccinabili, la percentuale di non immunizzati è un po' più alta: 11,3%. Riguardo ai più giovani, invece, si vedrà più in là. Ma Locatelli è molto prudente: «Non c'è alcuna evidenza che faccia pensare che un quarantenne in salute con una buona risposta immunitaria, debba ricevere la terza dose», ha ribadito ieri. Sempre sotto il profilo logistico, quindi, non soltanto le terze dosi procederanno insieme con prime e seconde per quei cittadini ancora da raggiungere. Ma, in vista del periodo autunnale, potrebbero essere somministrate insieme al vaccino antinfluenzale, che è anch' esso consigliato sopra i 65 anni. Figliuolo non vede nessuna difficoltà sotto il profilo logistico né a somministrare i due vaccini in contemporanea né, in futuro, a gestire una terza dose generalizzata per tutti. «Quando i dati sul campo relativo al calo degli anticorpi lo consiglieranno per tutti, noi saremo pronti», conclude Figliuolo».

IL GIORNO NERO DI IG, FB E WHATSAPP

Black out prolungato ieri di Instagram, Facebook e Whatsapp in Usa e gran parte dell’Europa, Italia compresa. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera racconta il giorno nero dei social.

«Frances Haugen, computer scientist e manager di 37 anni, è la nuova spina nel fianco di Facebook. Prima consegnando documenti segreti alla stampa, poi andando in tv. E oggi verrà ascoltata dal Congresso. Per Facebook piove sul bagnato: ieri, poco dopo la denuncia televisiva, blackout di tutte le reti del gruppo, da Instagram a Whatsapp, in quasi tutto il mondo, per molte ore. Sabotaggio? Probabilmente no. La società si scusa con gli utenti e cerca di ripristinare il servizio. Secondo gli esperti, incidenti di questo tipo, con reazioni a catena, possono capitare quando le società cambiano le configurazioni interne di rete commettendo un errore che magari si ripercuote ovunque. Ma per ora non vengono date spiegazioni e un incidente di queste dimensioni non si era mai verificato. Haugen era la product manager nel Civic Integrity Team, l'organismo creato dall'azienda di Zuckerberg per monitorare possibili interferenze nelle sue piattaforme in tempo di elezioni. Ha visto dall'interno le distorsioni spesso segnalate da entità esterne (sempre negate da Facebook) e ha deciso di denunciarle. A maggio, dopo lo smantellamento del suo team, ha lasciato Facebook ma prima ha copiato migliaia di pagine di documenti interni che ha dato in modo anonimo al Wall Street Journal . È il materiale sul quale nelle settimane scorse il quotidiano finanziario ha costruito i suoi Facebook Files: un'inchiesta in cinque puntate dalla quale emergono fatti gravi come il funzionamento redditizio ma socialmente distorto di un algoritmo che diffonde strutturalmente discordia perché costruito per massimizzare i contatti e il tempo trascorso dagli utenti sulle sue piattaforme. O come il fatto che Instagram aveva studiato il suo effetto sui giovani scoprendo che l'uso intenso di questo social provoca danni psicologici seri alle ragazze più giovani. Una scoperta mai resa pubblica. Poi la «gola profonda» ha deciso di uscire allo scoperto: domenica sera Frances si è fatta intervistare da 60 Minutes , la storica trasmissione giornalistica della Cbs, e oggi sarà protagonista di un'audizione a Washington. Oltre alla sua identità ha rivelato nuovi dettagli. Ad esempio ha accusato Facebook di avere responsabilità per l'assalto al Congresso del 6 gennaio scorso non solo perché i ribelli hanno usato le sue piattaforme, ma anche perché la società ha smantellato prematuramente le strutture di controllo che aveva creato, come l'Integrity Team della Haugen. La compagnia di Zuckerberg ha replicato con un comunicato nel quale respinge i rilievi e afferma di aver fatto del suo meglio per ridurre i danni che, insieme a tante cose positive, vengono provocati da ogni rete sociale. Facebook ha 40 mila dipendenti che lavorano sulla sicurezza con un costo di oltre 5 miliardi di dollari l'anno. Ma tutto va rapportato alle dimensioni della rete del social (2,8 miliardi di utenti) e ai suoi profitti: poco più di un controllore per ogni 100 mila utenti. Per Frances i capi di Facebook non sono malvagi. Semplicemente non vogliono penalizzare fatturato e profitti introducendo limiti permanenti: le cautele usate durante la campagna elettorale sono state eliminate subito dopo il voto. Haugen dice di considerare questo un tradimento della democrazia: ha rivelato quanto sapeva per costringere la compagnia a cambiare, in meglio».

LA UE RISCHIA DI RIMANERE SENZA BENZINA

Crisi energetica e prezzi delle materie prime alle stelle. Si prepara un inverno molto difficile e l’Europa stenta a trovare una risposta comune. La cronaca di Beda Romano da Bruxelles sul Sole 24 Ore.

«Il forte aumento dei prezzi dell'energia è diventato per molti versi un rompicapo comunitario, oltre che un nuovo rischio per la ripresa dell'economia europea. Una riunione ieri dei ministri delle Finanze della zona euro è stata l'occasione per dibattere una questione ormai controversa. Mentre la Commissione si appresta a presentare un pacchetto di misure e suggerimenti, Parigi e Madrid chiedono d'emblée una revisione radicale della politica energetica. Il tema è sociale, economico e anche monetario. L'incremento dei prezzi dell'energia - ieri il barile del petrolio Brent ha toccato il prezzo massimo degli ultimi tre anni - sta riducendo grandemente il potere d'acquisto delle famiglie; e sta anche minando la competitività di molte imprese. Parlando in una conferenza stampa dopo la riunione, il commissario agli affari economici Paolo Gentiloni ha ammesso la necessità di coordinare tra i Paesi membri misure che siano «mirate e temporanee». La competenza in questo ambito è soprattutto nazionale, ma con diversi paletti europei. Tra le altre cose, i governi devono rispettare le norme nel campo della concorrenza e della tassazione. Soprattutto l'ex premier italiano ha spiegato che le misure non devono «entrare in contraddizione con la nuova politica ecologica dell'Unione europea», in altre parole il Patto verde, o Green Deal. Bruxelles vuole raffreddare il prezzo dell'energia ma senza far sì che il costo del gas diventi tanto conveniente da minare la transizione verso fonti rinnovabili. Concretamente, il commissario Gentiloni ha spiegato che la Commissione sta lavorando su opzioni relative all'approvvigionamento e a possibili riserve in comune di gas. Novità dovrebbero giungere in vista del vertice europeo previsto il 21-22 ottobre, quando l'argomento verrà discusso dai capi di Stato e di governo. «Vogliamo proporre soluzioni, se possibile soluzioni originali», ha detto l'uomo politico. Durante la riunione di ieri qui in Lussemburgo, la Francia e la Spagna sono state tra i Paesi più combattivi. Il ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire ha sottolineato due aspetti. Prima di tutto ha spiegato che è urgente «una migliore regolamentazione del mercato e delle riserve di gas». Poi ha insistito perché vi sia «un legame diretto tra il prezzo dell'elettricità e la produzione di elettricità». In questo momento, il prezzo della corrente elettrica si basa in ultima analisi sui listini del gas. Quest' ultimo punto non è banale nell'ottica di Parigi. Anche i francesi stanno subendo il forte aumento dei prezzi dell'energia, nonostante la loro produzione nazionale di elettricità avvenga principalmente grazie al nucleare. Il ministro Le Maire ne ha quindi approfittato per difendere quest' ultima fonte energetica, perché assicura «l'indipendenza energetica» e consente «di contribuire alla riduzione delle emissioni nocive». Dal canto suo, la ministra dell'Economia spagnola Nadia Calviño ha suggerito acquisti di gas in comune: «Abbiamo imparato dalla fornitura di vaccini anti-Covid 19 che siamo più forti quando parliamo con una sola voce e pensiamo che sarebbe molto appropriato che le istituzioni europee parlino con una sola voce quando trattano con i grandi fornitori internazionali di gas». Anche l'Italia è di questo avviso. Schematizzando, dalla discussione di ieri è emerso che mentre i Paesi del Sud chiedono una risposta rapida, i Paesi del Nord sono più cauti, preferendo lasciar fare al mercato, pur sensibili al fatto che la transizione ambientale richiederà una riflessione sul futuro del mercato dell'energia in Europa. Infine, i ministri hanno anche discusso dei rischi di inflazione, ribadendo che l'aumento dei prezzi dell'energia dovrebbe essere temporaneo. Al tempo stesso, serpeggiano timori perché l'incremento potrebbe travasarsi sulle altre filiere produttive e anche sui salari. Per ora, rimane ottimismo sul futuro della crescita, anche se il direttore generale del Meccanismo europeo di stabilità Klaus Regling ha notato come altre materie prime, oltre il gas anche il petrolio o vari metalli, potrebbero registrare aumenti di prezzo: «Sui mercati - ha detto - alcuni economisti non escludono una revisione della crescita europea dello 0,2-0,3% nell'arco del prossimo anno».

CLIMA, IL PRESSING DI KERRY

Se l’Europa si divide sull’energia, non va molto meglio la discussione sul clima a livello globale. L’appuntamento in Scozia sarà cruciale ma la preparazione non induce all’ottimismo. Paolo Mastrolilli su La Stampa.

«Chiacchiere diplomatiche a parte, c'è un numero preciso che secondo l'amministrazione Biden decreterà il successo o il fallimento della Cop26 di Glasgow: 70%. Affinché la conferenza per l'emergenza clima possa raggiungere i suoi obiettivi reali e concreti, la percentuale del Pil mondiale prodotto dai Paesi impegnati a tenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi centigradi dovrà salire dall'attuale 55% al 70%. Le chiavi restano soprattutto Cina, India e anche Russia. A rivelarlo sono fonti autorevoli direttamente coinvolte nei negoziati, secondo cui per gli Usa questa è la soglia che definirebbe il successo della Cop26. Il calcolo è basato sulla necessità di ridurre le emissioni di carbonio del 45% nel corso dei prossimi dieci anni, indicata dall'inviato speciale del presidente Biden, John Kerry, durante l'evento per i giovani appena tenuto a Milano. Secondo gli americani sarà impossibile raggiungere questo obiettivo, se il Pil mondiale rappresentato dai Paesi impegnati ad aumentare i loro sforzi volontari non salirà al 70%. Perciò è indispensabile un'accelerazione delle pressioni diplomatiche durante il mese di ottobre per evitare il fallimento della conferenza in Scozia. Al momento le nuove "nationally determined contributions" previste dall'accordo di Parigi che sono state presentate in vista della Cop26 sono 89, e ridurrebbero le emissioni di gas solo del 12%. In totale tutte le Ndc messe sul tavolo sono 191, ma come sono scritte finirebbero per aumentare la quantità di carbonio rilasciata nell'atmosfera del 19%, tra ora e il 2030. Non serve un genio della matematica per capire che non ci siamo. Secondo uno studio del Rhodium Group, la Cina è di gran lunga il principale inquinatore del mondo, con il 27% delle emissioni totali. Al secondo posto restano gli Usa con l'11%, al terzo l'India con il 6,6%, e al quarto la Ue con il 6,4%. Se domani l'intera Ue bloccasse di colpo tutte le sue emissioni di gas, non sarebbe sufficiente a rivolvere il problema. Ammesso che Biden negli Usa riesca ad invertire la rotta dell'indifferenza indicata da Trump, cosa che dipenderà molto dal braccio di ferro in corso al Congresso sui due pacchetti infrastrutture da 1,2 e 3,5 trilioni di dollari, è essenziale che Pechino, Nuova Delhi e Mosca facciano di più. La Cina si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni prodotte dal carbone entro il 2030, per poi arrivare "net zero" entro il 2060. Washington invece chiede che blocchi subito la costruzione di nuove centrali a carbone all'interno dei suoi confini, dopo aver promesso di non finanziarle più all'estero, anticipando al 2050 le zero emissioni. Kerry continua a negoziare ed è stato invitato a tornare a Pechino, ma il problema è anche riuscire a tenere l'emergenza clima separata dalle dispute economiche. Proprio ieri la rappresentante della Casa Bianca per i commerci Tai ha annunciato che le tariffe imposte da Trump restano, perché la Repubblica popolare non ha rispettato gli impegni presi nella Phase One del negoziato avviato con la precedente amministrazione. Biden segue la linea dura soprattutto per ragioni di politica interna, ma questo non facilita il lavoro di Kerry sul clima. L'ex segretario di Stato poi ha visto Putin, che non ha preso impegni seri a nome della Russia, mentre l'India non ha nemmeno indicato come e quando arrivare a zero emissioni. È allarme, dunque, a meno di un mese da Glasgow».

IN LIBIA CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ

Denuncia impressionante su Avvenire. Nello Scavo e Paolo Lambruschi ricordano in prima pagina che si stanno consumando crimini contro l’umanità in Libia. Nei pdf  trovate il testo integrale degli articoli. Ecco la sintesi.

«Stupri da praticare ed esibire. Torture da infliggere al buio e sevizie da mostrare alla platea di prigionieri, perché le ferite aperte dei malcapitati siano da esempio per tutti. «Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che in Libia siano stati commessi crimini di guerra, mentre la violenza perpetrata nelle carceri e contro i migranti potrebbe equivalere a crimini contro l'umanità». Lo scrive la missione d'inchiesta indipendente dell'Onu, istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha trovato in Libia prove di crimini di guerra e crimini contro l'umanità, in particolare nei confronti di migranti e detenuti. Intanto, 4mila rifugiati, tra cui donne incinte e bambini, sono stati presi casa per casa dalle forze di sicurezza e ammassati arbitrariamente in una ex fabbrica di tabacco a Tripoli trasformata in lager. Un giovanissimo è stato ucciso e quindici migranti feriti, sei dei quali seriamente, dalla polizia. Il blitz, senza precedenti, è stato lanciato venerdì nel sobborgo della capitale libica Gargarish, densamente popolato da anni da migliaia di migranti e rifugiati subsahariani riconosciuti dall'Unhcr. Si tratta di un'operazione dal sapore elettoralistico del premier libico Dbeibah».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 5 ottobre:

https://www.dropbox.com/s/6rp19tkp37z9e4j/Articoli%20La%20Versione%205%20ottobre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/per gli aggiornamenti della sera.

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