Vincitori e vinti
Destra e sinistra valutano gli errori commessi e i possibili nuovi successi dopo il voto sardo. Meloni teme Salvini. Conte vuole tutto. Orlov condannato a Mosca per un articolo. Coro di no a Macron
Bisogna saper perdere. Cosa diversa dal saper coltivare, anche per anni, la propria testarda opposizione. Giorgia Meloni e i due leader alleati del centrodestra, il giorno dopo la pesante sconfitta alle regionali in Sardegna, promettono in un comunicato congiunto di voler valutare “i possibili errori commessi”. Fra questi errori c’è forse l’imposizione di “Trux”, di Paolo Truzzu da Roma? Oppure è compreso il comizio elettorale tenuto a Cagliari mercoledì scorso con la premier, Salvini, Tajani e Lupi? Avvenire consiglia oggi: “Per chi se lo fosse perso, vale la pena di andarlo a recuperare sui social: vedere il capo del governo (al di là degli eventuali motivi di ragione sui temi trattati) sciorinare un repertorio di battute, irrisioni degli avversari, moine e altro ancora, cornice più da spettacolo che da discorso di una carica dello Stato” è eloquente. Tornano fatalmente alla mente gli attributi vergati a mano da Silvio Berlusconi in aula nell’ottobre 2022 su Giorgia Meloni: “Supponente, prepotente…”. Saper perdere non è facile, riconoscere i propri errori quasi impossibile. Il primo segnale di un ravvedimento sincero potrebbe essere un’apertura sul terzo mandato. Vedremo.
Bisogna saper vincere. Anche in politica, come nella vita, non è facile neanche questo: i successi fanno in fretta a trasformarsi in disgrazie. Per un Carlo Calenda che onestamente riconosce di aver sbagliato, ragiona e accetta di considerare una vasta alleanza anche coi 5 Stelle, c’è un Giuseppe Conte desideroso di fare proprio una vittoria che in realtà si deve soprattutto al Pd. Un leader 5 Stelle che pone veti e minaccia sfracelli già sulle prossime due delicatissime prove prima delle Europee, politicamente pesantissime: Abruzzo e Basilicata. L’aspirazione di “Giuseppi” è essere il capo, o avere pari dignità col Pd, entrambe cose lontane dalla realtà dei consensi popolari. Anche per lo schieramento di sinistra la qualità dei rapporti nell’alleanza (e dentro il Pd) e la questione del terzo mandato sono già un banco di prova.
Veniamo alle drammatiche notizie dalla Russia. Non si trova ancora un luogo per celebrare i funerali di Aleksei Navalny. Alla famiglia vengono opposti molti no. Ieri Oleg Orlov, storico volto della dissidenza russa, cofondatore e presidente di Memorial, l’ong Nobel per la Pace messa al bando dalle autorità tre anni fa, è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione per aver scritto un testo contro l’offensiva russa in Ucraina. Lo hanno portato via in manette, scortato da decine di agenti antisommossa dal volto coperto e coi cani al guinzaglio.
Intanto Emmanuel Macron ha raccolto un coro di no, con l’eccezione dell’Ucraina, alla proposta di mandare sul terreno bellico soldati europei della Nato a combattere i russi. Ha però rotto un tabù, estremizzando l’atteggiamento occidentale che corre verso la guerra globale. Il Sole 24 Ore pubblica oggi l’ultimo rapporto sulla spesa militare: nel 2023 è aumentata per il nono anno consecutivo in termini reali, a una somma che si avvicina a 2.500 miliardi di dollari. In Europa l’anno scorso business ha raggiunto i 345 miliardi di dollari. Incontro con il principe ereditario Mohammed Bin Salman in Arabia Saudita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha discusso della “formula di pace” proposta da Kiev per porre fine al conflitto, dello scambio di prigionieri, e della possibile partecipazione saudita alla ricostruzione postbellica dell'Ucraina.
A Gaza ieri pomeriggio gli aiuti alla popolazione palestinese sono arrivati dal cielo (vedi Foto del Giorno), lanciati in un’operazione umanitaria guidata dall’aviazione giordana. Nel Diario di Sami al-Ajrami per Repubblica c’è il racconto oggi della popolazione affamata che si contende i pacchi di viveri. Il presidente Usa Joe Biden ha annunciato la tregua per lunedì, ieri mangiando un gelato, ma è stato smentito sia da Israele che da Hamas. L’agenzia Reuters ha scritto che Hamas avrebbe ricevuto una bozza di proposta a Parigi che prevede una tregua di 40 giorni e la liberazione di 40 ostaggi in cambio di circa 400 detenuti. Delegati di varie fazioni palestinesi, tra cui Hamas, Fatah e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, parteciperanno alla conferenza di Mosca per colloqui sulla guerra in Medio Oriente.
In Italia si discute ancora dei manganelli usati contro gli studenti che a Pisa e Firenze manifestavano la scorsa settimana per la Palestina. Domani alle Camere darà la sua versione il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi. Sono una ventina i poliziotti protagonisti degli scontri su cui si concentrano le indagini ma nessuno è finora ufficialmente indagato.
La Versione si conclude con un articolo del padre gesuita Antonio Spadaro, pubblicato dal Fatto, che riprende un’intervista di La Carcova News a papa Francesco. Tema: la città.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae gli aiuti umanitari paracadutati ieri sulla Striscia di Gaza, in un’operazione guidata dalla Giordania.
Fonte: Ibraheem Abu Mustafa per Reuters
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il titolista del Manifesto è in un momento magico. Dopo L’isola felice di ieri, oggi si ispira a Riccardo Cocciante e titola, sulla foto di Schlein, Todde e Conte: Se stiamo insieme. Il tema è sempre quello: il risultato delle regionali in Sardegna. Il Corriere della Sera si mette dal punto di vista del centro destra e dà la parola ai tre leader: «Una sconfitta, impareremo». Mentre la Repubblica sceglie quello della segretaria del Pd: Schlein: «Non finisce qui». La Stampa registra le contraddizioni della maggioranza: Meloni-Salvini, alta tensione. Il Messaggero sta sul governo: «Sardegna, lezione degli errori». Il Quotidiano Nazionale nota che tutti, sia chi vince sia chi perde, devono metabolizzare il voto: La lezione Sardegna scuote le coalizioni. Il Domani va sul latino: Redde rationem nella destra. Meloni ha paura di perdere ancora. Libero cerca di esorcizzare l’unità del centro sinistra: Ammucchiatissima. Avvenire torna sulle minacce ai parroci in Calabria: Intimidazioni ai preti un attacco alla Chiesa. La Verità tiene viva la polemica No Vax: Il mistero delle morti improvvise. Il Giornale enfatizza le raccomandazioni all’Europa dell’ex premier: Draghi: «Basta dire sempre no». Il Sole 24 Ore annuncia: Industria 5.0, chi incassa il bonus. Mentre Il Fatto mette nel mirino Macron: Ultima follia bellicista: «Soldati Ue in Ucraina».
AUTOCRITICA DEL CENTRODESTRA, LA NOTA DEI TRE LEADER
A destra bisogna saper perdere. «Ragioneremo sugli errori» promette l’autocritica del centrodestra, che si esprime in una nota congiunta dei tre leader. Salvini punzecchia: quando cambi un candidato in corsa è più complicato. E spinge sul terzo mandato, pensando a Zaia. Marco Cremonesi per il Corriere.
«Rimane una sconfitta sulla quale ragioneremo insieme per valutare i possibili errori commessi». Il centrodestra si ricompone dopo la giornata nera della Sardegna. Con la premier Giorgia Meloni e i suoi vice, Matteo Salvini e Antonio Tajani, che cofirmano una nota rammaricata per il fatto che «l’ottimo risultato delle liste della coalizione di centrodestra, che sfiorano il 50% dei voti, non si sia tramutato anche in una vittoria per il candidato presidente». L’importante è che dalle elezioni sarde non emerga «un calo di consenso per il centrodestra». Tanto meno per il governo. Anzi, la premier Meloni di fronte alla Stampa estera non ci gira intorno e se la prende tutta: «Ho perso la Sardegna». Purché nessuno pensi di continuare con il logoramento interno dell’esecutivo. Antonio Tajani dice che «non si è vinto, ne terremo conto ma questo non ha alcun effetto sulla tenuta del governo». Anche Matteo Salvini garantisce sulla stabilità del governo e, dopo aver maltrattato la cronista di La7, ricorda che «con Meloni e Tajani saremo sullo stesso palco» per la campagna elettorale in Abruzzo: «C’è l’occasione di rivincere subito, il 10 marzo in Abruzzo, dove sono assolutamente ottimista sia come centrodestra sia come risultato della lista Lega». Ma anche se nessuno si avventura più di tanto sul tema del voto disgiunto e da quale partito possa essere venuto, certo la Sardegna qualche strascico lo ha lasciato e Salvini la dice così: «Quando cambi un candidato in corsa è più complicato. Vale anche per un sindaco. Ma non sarò mai quello che, quando le cose vanno bene, è merito mio e quando le cose vanno male è colpa degli altri». Nella Lega il tema del non cambiare i candidati è assai ripreso. Per esempio, dal sottosegretario Massimo Bitonci: «Una coalizione non deve utilizzare il manuale Cencelli, ma deve individuare il candidato giusto. Con anche un po’ di generosità». E con un promemoria per Meloni: «Bisogna essere un po’ generosi, soprattutto quando si è sopra». Non è una considerazione a posteriori, ma un invito per il futuro ripreso anche dal vicesegretario leghista Andrea Crippa: «Il popolo sardo non ha capito il criterio dei rapporti di forza». Appunto quello da non utilizzare più: «Occorre fare una valutazione su chi possa vincere». È una partita che si proietta più lontano e include il terzo mandato per i governatori. Cruciale per la Lega, perché in gioco c’è la possibilità di una nuova corsa per Luca Zaia in Veneto. Non per nulla ieri sera, da ambienti vicinissime a Salvini, si spiegava che per le regionali ci si avvia sulla strada della continuità dei governatori: «Umbria, Basilicata, Piemonte e Veneto». Certo, Fratelli d’Italia continua a dare per chiusa la partita del Nordest. Giovanni Donzelli, da FdI, assicura che sulle regionali «decideremo prestissimo», ma spingendo la garanzia esplicita di riconferma al solo governatore della Basilicata, in quota Forza Italia: «Non abbiamo alcuna preclusione, tantomeno su Bardi con cui abbiamo governato bene cinque anni insieme». Ma sul terzo mandato, Luca Zaia pare ottimista: «A me non risulta che la questione sia chiusa». Certo, «dovete chiederlo al Parlamento. Da quel che ho capito la norma sarà ripresentata alle Camere, il dibattito è aperto». L’idea resta quella di riproporre il tema dopo le Europee».
LUPI: VOTO LOCALE, ABBIAMO PERSO TUTTI
Angelo Picariello su Avvenire intervista Maurizio Lupi di Noi Moderati, che cerca di ridimensionare il significato del voto, pur ammettendo il cedimento di Cagliari.
«Non ha alcun senso, se analizziamo bene il voto in Sardegna, attribuire ad esso un significato nazionale». Per il leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi - in questa competizione rappresentato dalla lista “Sardegna al Centro”, che ha riportato un lusinghiero 5,4% -, «tutto si è giocato sul dato negativo di Cagliari, dove Truzzu è sindaco».
Una candidatura sbagliata?
Inutile personalizzare o accusare questo o quel partito. La decisione di non confermare il presidente uscente è stata presa insieme e ci poteva stare di puntare sul partito maggiore della coalizione, sindaco del capoluogo di Regione. Ma si è agito tardi e non c’è stato tempo per valutare quale fosse la migliore alternativa, e tanto meno di spiegarla. Bisogna fare autocritica, tutti insieme e fare i complimenti a chi ha vinto.
Poteva funzionare, astrattamente. Ma in concreto, se Truzzu ha avuto un tracollo di voti nella città in cui è sindaco non poteva certo pensare di recuperare nelle altre città, alcune delle quali in storica rivalità con Cagliari.
Truzzu è stato leale, si è assunto le sue responsabilità. Se nel capoluogo siamo andati sotto di 10-15 punti, credo che ogni altra valutazione diventi secondaria, comprese queste polemiche sul voto disgiunto, che non stanno in piedi. I partiti nel loro insieme hanno riportato un gran risultato. In particolare “Sardegna al centro” ha superato la Lega e raggiunto il Partito sardo d’azione. Ma abbiamo perso. L’autocritica deve quindi portarci a fare tesoro di questa esperienza puntando in seguito sulla concretezza della proposta e sull’unità della coalizione, senza improvvisare candidature e programmi all’ultimo momento.
C’è chi mette Giorgia Meloni sul banco degli imputati.
Quando si vince si vince insieme, lo stesso deve valere anche quando si perde. Ogni decisione è stata presa da tutti. Quello che deve risultare chiaro è che l’apporto dei cosiddetti “piccoli” è decisivo, ma questo la presidente del Consiglio lo sa e ha sempre mostrato di averlo ben presente.
Todde ha detto che «le matite hanno battuto i manganelli».
Mi sembra che pochi secondi dopo la vittoria sia partita subito con una gaffe. I manganelli non c’entrano niente. Anche a me, come a Mattarella, quelle immagini di Pisa hanno fatto male, bisognerà verificare se ci sono state responsabilità, fermo restando che le nostre forze dell’ordine hanno meriti e professionalità enormi. Ma, ciò detto, che c’entra questo - mi chiedo - con le elezioni a Cagliari? A Todde io faccio i complimenti per la vittoria, mentre lei con questa affermazione si manca di rispetto da sola, se dice - in pratica - che ha vinto “grazie” alle immagini degli scontri di Pisa. Cosa, fra l’altro, che non credo assolutamente.
Da dove si riparte?
Dalla prossima, dall’Abruzzo, dove lo scenario è del tutto diverso. Lì Marco Marsilio ha governato bene e si ripropone con la convergenza di tutti, senza improvvisazioni o fughe in avanti. Ci sono tutte le premesse per riportare una conferma della coalizione che, nei numeri, ci sarebbe stata anche in Sardegna. se il voto per la guida della Regione avesse replicato la somma dei singoli partiti. In Basilicata però le divisioni nel centrodestra potrebbero ripresentarsi. Facciamo un passo alla volta. Ora ci concentriamo sull’Abruzzo, per confermare che la Sardegna è stato un episodio isolato, di carattere locale. E che invece, quando si lavora uniti, si vince».
MELONI SOSPETTA CHE SALVINI NON SI FERMI
Giorgia Meloni è preoccupata: il rischio viene dalle prossime elezioni in Abruzzo e in Basilicata, che si tengono prima delle Europee. Il sospetto della premier è che Matteo Salvini non si fermerà. L’idea a Palazzo Chigi sul capo leghista è questa: cercherà sempre di dissociarsi. Per il Corriere Francesco Verderami.
«Ne è convinta Meloni: «Salvini cercherà sempre di dissociarsi». Nessuno può persuaderla del contrario e nessuno si azzarda a farlo. Non dopo una giornata «un po’ così», che definire storta è un eufemismo: con la sconfitta in Sardegna ancora da metabolizzare, i ragionamenti della premier sono un collage di pensierini andreottiani sul capo della Lega, sulle sue manovre contro Palazzo Chigi che sfidano le leggi della politica e che infatti gli si stanno ritorcendo contro: perché non ha alternative, «non ci sono alternative». Ma nonostante questo «non si fermerà». Come non bastasse, il voto di domenica ha modificato il timing di Meloni, che immaginava di chiudere a giugno i conti con il segretario del Carroccio. Dovevano essere cinquanta milioni di italiani a fissare una volta per tutte i rapporti di forza nella maggioranza. Invece ora potrebbe bastare un milione e mezzo di elettori per stravolgere lo scenario. Perché se il centrodestra incespicasse in Abruzzo o in Basilicata, la débâcle sarda non sarebbe interpretata come un semplice scivolone sul percorso ma come l’inizio di una fase negativa che potrebbe influire sull’appuntamento delle Europee. Ecco il motivo per cui la premier è spietata con sé stessa quando analizza il risultato. «L’elenco degli errori è lungo», lo riconoscono anche esponenti di primissimo piano di FdI. Ma quello su cui si sofferma Meloni è particolare: lo sbaglio è stato rivendicare la candidatura a governatore per il suo partito dopo il durissimo scontro con gli alleati nella trattativa. È una questione metodologica: chi viene scelto in quelle condizioni arriva indebolito alla sfida elettorale. E Truzzu «così ci è arrivato» e ha perso per una manciata di voti. Ecco l’errore. Peraltro la premier aveva seguito in precedenza quella regola non scritta: in Sicilia, infatti, dopo un altro estenuante braccio di ferro, invitò il governatore uscente Musumeci a non ricandidarsi, per evitare che venisse infilzato dagli alleati nelle urne. Proprio quanto sarebbe accaduto in Sardegna. Ma per una volta Meloni non punta l’indice contro Salvini, nel senso che a far mancare quei decimali decisivi non è stata a suo avviso la Lega, che nell’isola non ha un consenso organizzato. Piuttosto è Solinas il principale sospettato, è il Psd’Az che — per vendicarsi — avrebbe manovrato un pezzo del suo elettorato contro Truzzu. Ed è bastato poco per centrare il risultato. Così, per uno dei paradossi della politica italiana, «che è incomprensibile anche agli italiani», la premier deve porre attenzione ai prossimi appuntamenti regionali. Perché se per meno di tremila voti è stata consegnata la vittoria in Sardegna a Pd e M5S, non può permettersi una replica in Abruzzo o in Basilicata. E c’è un motivo se si avverte un certo allarme. Ieri, dopo il vertice del centrodestra sulle candidature, i delegati hanno informato i loro leader di partito sull’andamento della riunione. Uno di questi ha detto: «Per la Basilicata la Lega fa resistenza, ma è tutta tattica. Alla fine cederà su Bardi, perché poi vuole affossare il candidato di Forza Italia alle elezioni». Ecco perché Meloni non si fida e perché non può mettere la testa sulla riorganizzazione del partito. Non ora, almeno. Forse dopo le Europee, dove — come dicono fonti autorevoli — sarà «condannata a candidarsi», visto che i voti sono suoi, non di FdI. Una posizione rovesciata rispetto a quella di Salvini, almeno a sentire il dissenso che monta al Nord. Là dove — spiega uno dei maggiorenti leghisti in carica — «stiamo perdendo i militanti storici, gli imprenditori che non vogliono sentir parlare degli estremisti di AfD, gli elettori semplici che ci chiedono cosa siamo diventati e che ci sta a fare Vannacci con noi». Tutto al momento sembra proiettato verso il voto di giugno. E nel Carroccio si discute quale sia la soglia sotto la quale la leadership del Capitano verrebbe messa apertamente in discussione. Anche in quel caso però sembrerebbe (quasi) impossibile spodestare Salvini, perché «se al Nord la segreteria potrebbe essere contendibile, al Sud lui controlla praticamente tutti i delegati». Il punto è che prima delle Europee ci sono gli appuntamenti di Abruzzo e Basilicata. E se nel primo caso il centrodestra non dovrebbe avere problemi, nel secondo qualche incertezza c’è. Meloni non può permettersi un bis della Sardegna, ed ecco allora che autorevoli pompieri si adoperano da ieri per spegnere ogni focolaio, per «rinsaldare i rapporti tra alleati», perché «non possiamo commettere gli stessi errori». E la premier, con quella faccia un po’ così, quelle espressioni un po’ così, fa mostra di condividere. Ma su Salvini nessuno riesce a persuaderla».
SALVINI STUDIA COME USCIRE DALL’ANGOLO
Qual è la strategia de leader leghista? Matteo Salvini non alza i toni, non dà interviste e chiede concessioni alla premier, incolpando della scelta perdente del candidato Paolo Truzzu. Luca Zaia incalza: “Sul terzo mandato non è finita”. Antonio Fraschilla per Repubblica.
«Abbassare i toni, non fare interviste per cavalcare il risultato della Sardegna in chiave anti Meloni. Ma chiedere alla premier, quando si saranno spenti i riflettori sul voto sardo, il “conto” di quanto accaduto: per avere una maggiore collegialità nelle scelte, il via libera al terzo mandato dei governatori con Luca Zaia ricandidato in Veneto e l’accelerazione sull’autonomia. Questa è la linea data da Matteo Salvini ai suoi. Il leader leghista si sente all’angolo, non vuole fare falli di reazione ma sa che si gioca tutto nei prossimi mesi. Tra i dati delle urne nell’isola che vedono la Lega scavalcata da Forza Italia e il rischio di tensioni interne al partito con un pezzo di Carroccio che potrebbe mettere nel mirino la sua leadership (puntando sul malcontento del governatore Zaia), Salvini è in difficoltà: ma questa volta invoca prudenza, tanto che sono pochi i leghisti vicini a lui che commentano il voto sardo in queste ore. Prende tempo e riflette sulle contromosse: due cose che non ama fare, lui impulsivo per natura. Ma i tempi non sono buoni per lui, dentro e fuori la Lega. E questa volta non può sbagliare mosse. Il ministro del Ponte ieri mattina a margine di un evento a Pescara (in Abruzzo si vota tra dieci giorni) dà la linea: «Quando cambi un candidato in corsa è più complicato», dice, salvo aggiungere subito dopo: «Ma non sarò mai quello che quando le cose vanno bene è merito mio e quando le cose vanno male è colpa degli altri». Prudenza, moderazione. E intanto prepara la reazione. A partire dal chiudere subito accordi con i movimenti territoriali moderati e presentare liste uniche nelle regioni al voto e in vista delle Europee: per evitare l’errore in Sardegna di un accordo con il partito di azione senza lista unica. Un mancato passaggio che non ha consentito di sommare il voto delle due liste, facendo quindi emergere un otto per cento che avrebbe tenuto alto il morale, anziché un misero 3,7 della Lega in solitaria superata e non di poco non solo da Forza Italia ma pure da Noi moderati di Maurizio Lupi. Anche l’accordo con l’Udc, in discussione per le Europee, sarebbe stato utile in Sardegna: il partito di Lorenzo Cesa da solo è arrivato quasi al due per cento. «Sono sempre più convinto che per dare forza al messaggio della Lega, al Sud ma non solo, sia indispensabile trovare convergenze con i movimenti territoriali e i moderati», dice non a caso il presidente della commissione Difesa Nino Minardo dopo aver sentito il leader. Salvini ha poi la grana Zaia e per questo chiederà con forza a Meloni di votare il terzo mandato dei governatori in tempi «brevissimi », dicono da via Bellerio. Lo stesso governatore veneto è convinto che la partita non sia chiusa: «Sul terzo mandato dei presidenti di Regione non è ancora detta l’ultima parola, la palla è al Parlamento — dice Zaia confortato da Salvini — da quel che ho capito, la norma sarà ripresentata e il dibattito è aperto non solo nella Lega ma anche in altre forze politiche, da destra a sinistra. Vedremo». Per i salviniani è fondamentale rassicurare Zaia e ribadire la sua ricandidatura. «Zaia — dice il sottosegretario Massimo Bitonci — è stato riconfermato con l’80 per cento dei consensi. Pensiamoci bene, perché quando hai delle persone come Zaia o Fedriga bisogna cercare di tenerle, non cercare di metterle da parte ». L’unico leghista al quale scappa il freno è il governatore della Lombardia Attilio Fontana che torna a criticare la scelta di Paolo Truzzu imposto da Meloni: «La cosa più incredibile è che il candidato del centrodestra in Sardegna abbia preso pochi voti nella sua città. Forse qualche cagliaritano si è sentito tradito dal fatto che dovesse smettere di fare il sindaco e andare a fare il presidente». Per il resto Salvini ai suoi ha detto di evitare critiche forti a Meloni e a Fratelli d’Italia e di abbassare i toni in attesa di tempi migliori e delle contromosse che sta studiando. Il leader leghista ha pronta «la lista della spesa» da presentare a Meloni e di sicuro se non sarà ascoltato, a partire dal terzo mandato al voto in Parlamento tra due settimane e dall’autonomia differenziata, con segnali concreti di apertura da parte dei meloniani, tornerà a fare quello che sa far meglio: portare il caos nel centrodestra e far saltare i nervi alla premier. Ne va della sua sopravvivenza politica da leader e per questo i toni morbidi di queste ore sono solo tattica. Nulla di più».
CONTE METTE VETI SU BASILICATA E PIEMONTE
A sinistra bisogna saper vincere. Per un Carlo Calenda che finalmente ragiona e accetta di considerare una vasta alleanza, c’è un Giuseppe Conte desideroso di fare proprio una vittoria che si deve soprattutto al Pd. Wanda Marra per Il Fatto.
«Arrivare al voto in Abruzzo sulla scia della vittoria di AlessandraTodde in Sardegna e ribaltare ancora una volta il pronostico, che vuole vincente il presidente uscente, Marco Marsilio, contro il candidato del campo larghissimo, Luciano D’Amico, rettore dell’Università di Teramo. L’atmosfera che si respira in casa giallorosa è una via di mezzo tra l’entusiasmo e la trattativa continua. Perché da qui a giugno, non sono pochi i voti importanti. In Abruzzo, dove le elezioni sono il 10 marzo, dal Nazareno parlano di sondaggi che danno lo sfidante a un’incollatura. Mentre si preparano al rush finale dove sarà lo stesso candidato a valutare se preferisce puntare su comizi unitari con i leader - Elly Schlein e Giuseppe Conte - o, come ha fatto la Todde, su iniziative separate. E con Schlein sarà impegnatissimo anche Pier Luigi Bersani, come già in Sardegna. Intanto, Carlo Calenda, dopo aver sostenuto Renato Soru, si ravvede: “Mai più soli alle Regionali. Occorre parlare con Conte”. Apertura salutata positivamente sia dalla neopresidente della Sardegna che dalla segretaria del Pd (“una bella notizia”). Ieri è stato pure il giorno in cui i riformisti dem hanno fatto buon viso a cattivo gioco: bene anche l’alleanza strutturale con Conte, in nome del bipolarismo. D’altra parte, D’Amico nella sua coalizione Patto per l’Abruzzo ha ben sei liste: Pd, M5S, Azione, Avs e Sinistra con Democrazia Solidale, Iv con Partito Socialista Italiano e +Europa, e Abruzzo Insieme. Il problema sono le alleanze ancora da chiudere. Tra i dem auspicano un tavolo nazionale. Ma i contatti sono continui e frequenti. Il dossier più delicato è quello che riguarda la Basilicata (al voto il 21 e 22 aprile). Fino a ieri era ancora sul tavolo il nome di Angelo Chiorazzo, il re delle coop bianche, vicino a Sant’Egidio, spinto fortissimamente da Roberto Speranza. Sarebbe proprio lui per il Pd e per Conte il candidato ideale, ma l’ex ministro della Salute non ne vuole sapere. E allora si lavora a un terzo nome. Schlein si sta convincendo che su Chiorazzo non si regge. Conte in serata chiarisce: nome scelto “unilateralmente”. Girano nomi di civici. Il più accreditato è quello di Roc co Paternò, presidente dell’or dine dei medici di Potenza. E si ragiona anche su Lorenzo Bochicchio, direttore dell’Azienda Sanitaria della Provincia di Potenza. Entrambi incarnano la battaglia in difesa della sanità pubblica. Ai piani alti dem non vogliono fare nomi di sorta. “Siamo impegnati a costruire le condizioni per affrontare la sfida per vincere”, spiega il responsabile Organizzazione dem, Igor Taruffi. Il Pd, insomma, è anche disponibile a ragionare su alternative. Entro un paio di giorni bisognerà trovare la quadra: sabato c’è la direzione regionale dem. Il 9 giugno poi si vota in Piemonte. Ma sulla Regione le possibilità di convergenze tra Pd e Cinque Stelle sono davvero minime, soprattutto per il veto di Chiara Appendino, come ha ribadito ieri il leader 5S. E poi, ci sono una serie di città che vanno al voto insieme a Bruxelles. Prima di ’’ tutto Bari. Conte ha acconsentito alle primarie. A cavallo di Pasqua, si sfideranno Vito Leccese, il capo di gabinetto del sindaco uscente, Antonio Decaro e Michele Laforgia, un civico, un avvocato penalista, appoggiato dal Movimento e da Avs. Al tavolo delle primarie c’è anche Azione. Ma – visto che persino alcuni assessori della giunta Decaro, ambienti vicini a Michele Emiliano e pezzi della maggioranza del Pd stanno pensando di votare Laforgia – alla fine perla guida di Bari potrebbe correre un altro civico. A trazione di sinistra è anche Vittoria Ferdinandi, la candidata del centrosinistra a Perugia, che alla fine ha deciso di appoggiare anche Azione. Psicologa, nominata Cavaliere al merito da Mattarella, la civica è il primo tassello di un’alleanza strutturale tra i dem e 5s anche per le regionali in Umbria che vede protagonisti Marco Sarracino e Roberto Fico. A Cagliari l’alleanza Pd-M5S-Avs è una certezza. In pole position c’è Massimo Zedda, che è già stato primo cittadino della città. Ha un credito da riscuotere, avendo spostatoi suoi voti da Renato Soru alla Todde. A Firenze resta in campo Sara Funaro, la candidata voluta da Dario Nardella. Pesa molto Matteo Renzi, con Schlein che non solo gli sta chiedendo di appoggiarla, ma ha anche provato a insistere per allargare ai 5s. Situazione cristallizzata. L’asse Pd-M5S- Avs è in campo in Emilia-Romagna: a Modena con Massimo Mezzetti, ex assessore regionale provenienza Sel; a Reggio Emilia, con Marco Massari, un civico, primario di infettivologia nell’ospedale cittadino; e a Ferrara con Fabio Anselmo, il legale della famiglia Cucchi. Mentre a Campobasso, Maria Luisa Forte, provveditore agli studi del capoluogo molisano, è espressione della stessa coalizione».
BONACCINI: BRAVA SCHLEIN, AVANTI COSÌ
Stefano Bonaccini elogia la linea della segretaria e dice: «Da Elly ottimo lavoro, serve l’intesa con i 5 Stelle ma non lasciamo i moderati alla destra». Sul terzo mandato spera che il partito vada avanti. L’intervista è di Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Stefano Bonaccini, si aspettava questa vittoria?
«Dirlo oggi sarebbe troppo facile, però c’era la consapevolezza di una battaglia difficile, ma aperta. Esattamente come in Abruzzo il prossimo 10 marzo. Questo non toglie nulla alla bellissima affermazione di Alessandra Todde e del centrosinistra, nata nel lavoro nel territorio, con la presenza e l’ascolto delle persone. Di fronte a una destra che, ancora una volta, ha deciso tutto a Roma, consumando divisioni e lotte interne, lontano dai problemi di famiglie e imprese. Per questo ho ringraziato la nuova presidente Todde e la nostra segretaria Elly Schlein per l’ottimo lavoro e la splendida vittoria».
Non c’è il rischio che il Pd vada a traino del M5S?
«Ho presente molte situazioni in cui sono i 5 Stelle a sostenere nostri candidati nelle città. Nel centrosinistra dobbiamo lavorare per l’unità, superando le divisioni e la competizione interna per un punto percentuale in più o in meno al singolo partito. E dobbiamo farlo incalzando il governo su temi concreti, a partire dalla difesa della sanità e della scuola pubbliche, dalla buona occupazione e dal sostegno a chi la crea. Solo così siamo credibili agli occhi delle persone e degli elettori e smascheriamo la destra, le cui bugie reggeranno sempre meno. Poi certo, considero indispensabile un accordo anche in Basilicata e in Piemonte: se ci presentassimo divisi regaleremmo la vittoria a tavolino alla destra».
La sua area aveva chiesto alla segretaria un chiarimento sui mandati dei sindaci e dei governatori. Lo chiedete ancora o con la vittoria sarda la partita interna si chiude?
«Come la penso sul terzo mandato è noto a tutti. La direzione del partito si è chiusa indicando una strada, giusta, che non può essere risolta con un sì o con un no a un provvedimento sgangherato come quello del governo. Serve una riforma di respiro che ridia ordine a una materia, quella degli enti locali, ulteriormente terremotata dalla destra. Mi aspetto che si proceda nella direzione indicata in direzione».
Avevate anche accusato la segretaria di non lavorare per l’unità…
«Non scherziamo. Possiamo anche avere ogni tanto opinioni diverse su singoli aspetti, ma condividiamo una responsabilità generale ed Elly è impegnata quanto me per il bene del Pd. Capisco però che per molti osservatori sia sempre più difficile accettare la normalità di un partito democratico che discute, quando molti partiti coincidono ormai con un nome e cognome o con un capo».
Tornando alle alleanze, nel Pd c’è chi ritiene, dopo il voto sardo, che non sia più necessario coinvolgere Azione e Italia viva.
«Noi dobbiamo parlare a tutti gli italiani. Né possiamo pensare di lasciare il dialogo coi moderati a una destra sovranista e anti-europeista, nella quale tanti non si riconoscono, pur non essendo di sinistra. La costruzione di un’alternativa che possa battere la destra nel Paese passa per lo schieramento più unito, coeso e largo possibile. Leggo che Calenda dice ora “mai più soli alle prossime regionali”. Per me è un segnale molto importante che non va fatto cadere nel vuoto, anzi».
Schlein è stata criticata per l’alleanza con il M5S, ma il voto sardo sembra darle ragione.
«Non mi convincerebbe un Pd a rimorchio dei 5 Stelle, ma penso sia necessario un accordo col Movimento. In Abruzzo, dove si vota tra due settimane, c’è unità di tutto il centrosinistra a sostegno dell’ottima candidatura di Luciano D’Amico, con una coalizione ampia che va dalla sinistra ad Azione e Italia viva, passando per Pd e 5 Stelle. È un fatto estremamente positivo che va esteso, superando contrapposizioni e veti personali incomprensibili. Invece della competizione interna nel centrosinistra, costruiamo l’alternativa per battere la destra nei territori e per tornare al governo del Paese quando si tornerà a votare».
Voi dite che nell’alleanza con i 5 Stelle bisogna valorizzare i punti comuni. Ma la differenza di posizione sull’Ucraina non è una questione di poco conto…
«Non lo è e credo che occorra discutere. Tenendo saldi alcuni punti che dovrebbero essere la stella polare di tutti i progressisti: non sono accettabili invasioni di Paesi sovrani e le violazioni del diritto internazionale da parte di chi persegue una politica di potenza e vuole destabilizzare il già precario ordine internazionale. Il nostro campo è sempre quello dell’Unione europea, che va ulteriormente rafforzata perché da soli non contiamo nulla, nell’ambito dell’Alleanza atlantica; la pace deve sempre essere l’obiettivo essenziale e la via diplomatica, alla lunga, è l’unica che può risolvere e magari prevenire i conflitti. Se assumiamo insieme questi principi è più facile costruire un incontro tra noi e i 5 Stelle che tra la Lega e Fratelli d’Italia».
Bonaccini il tempo delle decisioni si avvicina: si candida o no alle Europee?
«Sono il presidente di una Regione fantastica come l’Emilia-Romagna e faccio ogni giorno il mio dovere al servizio dei cittadini. Non ho mai chiesto nulla per me e non intendo iniziare a farlo adesso. Sul resto decideremo insieme al mio partito».
FERRARA: AI FATTI BISOGNA PORTARE RISPETTO
Giuliano Ferrara commenta il voto sardo e gioca col “catalogo Todde”. E realisticamente nota: senza i figli di Conte non si va da nessuna parte ma assieme dove si va?
«Todde. La Todde non si può dire. Dunque Todde. Un mistero. Come sempre quando si tratti dei grillini. Non li ho mai visti arrivare. Ancora adesso in certo senso penso non siano mai nemmeno partiti. Eppure mi hanno superato di slancio senza fare alcuna fatica. Sono l’unico a riconoscerlo, loro non sono cibo digeribile per l’establishment, a me tutto è permesso per via dell’amicizia, tutto mi è perdonato, ma quante rampogne. Nemmeno per me, in verità, ci sarebbe piena digeribilità di quella sostanza cosiddetta antipolitica. Quando il loro leader Giuseppi in un comizio citò il mio lusinghiero catalogo di realizzazioni di quel gruppetto di avventizi, non fossi uno svergognato naturale, rotto a ben altre bizzarrie, avrei provato vergogna. Invece avevo azzeccato mozartianamente l’elenco leporelliano delle loro conquiste: questi hanno fatto giusto o sbagliato il Reddito di cittadinanza, senza scassare i conti dello stato con il prodigiosamente vacuo e orrendo Conte uno, questi hanno contestato la Tav in Val di Susa con gli argomenti turpi e geniali di Marco Ponti, e arriverà il ponte prima del treno ostacolato da Ponti, questi hanno messo le mani nelle mie tasche con i vitalizi, roba giacobina ingiusta e ribalda ma di gran sollievo e formidabile per la voce pubblica, questi hanno ridotto il numero dei parlamentari che tutti dicono che non funziona, ma non si vede bene il disfunzionamento, mentre si sa che lo hanno fatto con due diverse e opposte maggioranze, un miracolo, questi hanno chiuso l’Italia appena in tempo, e se il Conte due arrivava in ritardo alle conferenze stampa sempre meglio del mio amato Boris che si faceva birrette illegali citando Omero in greco antico a memoria, questi hanno fatto scomparire impresari idraulici muratori operai e padroni di casa per dare una frustata liberale e ecologica, altro che Milei, all’economia, e ora promuoveranno la civiltà nuragica al 350 per cento, e in Europa i miliardi son già mille e tré. Insomma, l’agenda Conte, e dimentico parecchio, è bestiale. Gli scappati di casa ci hanno rifatto casa (non a me, ma a molti dei loro critici e denigratori sì). Poi hanno fatto vincere le destre, normalizzando il sistema trasformista definitivamente e beffardamente, come direbbe Alain Minc. Una riforma via l’altra, un paese ricostruito come nemmeno con il Boom, il piano Fanfani, la riforma agraria, le partecipazioni statali, Mani pulite, l’omicidio dei partiti. Non gli è riuscita la resa dell’Ucraina disarmata, se Dio vuole, né la colonizzazione militare russa, ma anche il Papa non ce l’ha fatta, e nemmeno quel dolce nomignolo di Trump a Giuseppi ha portato fortuna al coniatore, fino a oggi, per domani chissà. Questi ora rompono anche il famoso soffitto di cristallo e sfondano il Nuraghe supremo con una donna scoperta da Gigi Di Maio e promossa da Giuseppi, una donna di cui improvvisamente si scopre che, nonostante il tempo passato a leggere la Murgia, ha avuto la possibilità di coltivarsi in quattro lingue, sardo compreso, come sottosegretario di Patuanelli e viceministro di Draghi, altra agenda, sul piano dell’eleganza, ma non la sola. Chi glielo dice ai miei amici liberali che perfino quel simpatico testone pedagogo di Calenda si è reso conto che senza i figli e figliocci di Grillo, bè, diciamo di Conte che è meglio, non si va da nessuna parte? Che poi da che parte mai si possa andare con loro non è chiaro. E’ chiaro soltanto che in politica ai fatti bisogna portare rispetto, è uno sprone a produrne al posto delle chiacchiere. Ah, Todde, la Todde!».
CONDANNATO A 30 MESI ORLOV PER UN ARTICOLO CONTRO LA GUERRA
Difficile in Russia trovare un posto dove celebrare i funerali di Aleksei Navalny. Alle 12 di domenica 17 marzo appuntamento ai seggi. Condannato a due anni e mezzo Oleg Orlov, il settantenne co-presidente dell’organizzazione umanitaria Memorial, vincitrice del Nobel per la pace. Fabrizio Dragosei per il Corriere.
«Ufficialmente non è arrivato (per ora) alcun divieto a un funerale pubblico per Aleksei Navalny, morto in prigione il 16 febbraio. Ma a Mosca i suoi collaboratori non riescono a trovare una sala disponibile per la cerimonia. «Qualcuno dice che il loro locale è già impegnato», ha raccontato la portavoce Kira Yarmysh. «Altri, semplicemente, riattaccano». Una impresa di pompe funebri ha confessato al telefono di aver ricevuto un ordine preciso dall’alto: «Non collaborare con quelli di Navalny». Quello tra le autorità e gli amici di Navalny è un sotterraneo braccio di ferro. Il corpo del dissidente è stato alla fine restituito alla madre. E nessuno è riuscito a imporre alla fiera Lyudmila le esequie segrete che qualcuno in alto voleva. Ma è chiaro che una cerimonia aperta a chiunque viene vista con grande preoccupazione. Potrebbero alla fine presentarsi migliaia di «amici» e questo fatto non ricadrebbe nella fattispecie di «riunione sediziosa» proibita dalla legge. Intanto uno degli alleati del politico defunto ha rilanciato la sua idea per una silenziosa e «indolore» manifestazione contro la rielezione di Putin alla presidenza che, già si prevede, sarà comunque plebiscitaria. «Aleksei ci aveva già invitato al mezzogiorno contro Putin», ha ricordato Leonid Volkov. «Presentatevi tutti ai seggi esattamente alle 12 di domenica 17 marzo per una protesta legale, sicura e che non può essere impedita», ha spiegato. «Questo è il testamento politico di Aleksei Navalny». Ma proseguono pure le azioni contro chiunque abbia a che fare con il defunto leader o con iniziative a favore della libertà d’espressione, secondo quanto riferiscono fonti indipendenti russe. Ieri è stato brevemente fermato uno degli ultimi avvocati ancora a piede libero che hanno assistito Navalny e la sua famiglia. Si tratta di Vasilij Dubkov che era stato con la madre davanti al carcere dove è spirato Navalny. Altri legali sono tuttora in prigione, mentre qualcuno è dovuto scappare all’estero. Poi, come previsto, è arrivata la pesante sentenza per Oleg Orlov, il settantenne co-presidente dell’organizzazione umanitaria Memorial, vincitrice del Nobel per la pace. Orlov era stato già multato per aver scritto un articolo intitolato «Volevano il fascismo e l’hanno avuto». In Russia, come in altri Paesi, con il termine fascismo si intende soprattutto nazismo. Poi però, visto che quella che forse era stata considerata una «ammonizione» non era bastata, contro Orlov si è aperto un processo penale chiuso ieri con una condanna a 30 mesi. «La conferma che quello che avevo scritto era esatto», ha detto l’imputato prima di essere portato via in manette da un nugolo di agenti. Quando ha avuto la possibilità di parlare in aula, Orlov si è espresso in maniera netta contro il potere e contro gli «esecutori» che, evidentemente, gli avevano ricordato come «la legge debba essere osservata». Ha replicato Orlov: «Certo. Anche in Germania promulgarono nel 1935 le leggi razziali di Norimberga ma poi chi le applicò venne processato nella stessa città nel 1945». Evocando poi i processi staliniani, ha continuato: «Coloro che alimentano la macchina repressiva, giudici e procuratori inclusi, ne saranno prima o poi vittime a loro volta, come è accaduto molte volte nella storia. I figli si vergogneranno dei propri padri». Orlov ha avuto parole di fuoco per i vertici russi: «Chi ha trascinato il nostro Paese nell’abisso, rappresenta l’ordine vecchio, decrepito, datato. Non ha visioni per il futuro, solo narrative false del passato». Memorial ha commentato dicendo che Orlov è un vero patriota. «Ma oggi in Russia tutto è volto al contrario: la guerra è pace e gli appelli alla pace sono un crimine».
LE PAROLE IN AULA DEL PREMIO NOBEL
Oleg Orlov è stato condannato per odio verso il gruppo sociale “personale militare” e “ostilità ideologica verso i valori spirituali, morali e patriottici tradizionali russi” contenuti in un articolo. Alexander Bayanov per Vita.it, qui l’integrale del suo scritto, ricostruisce le parole di Orlov in aula.
«Ecco il suo ultimo discorso davanti ai giudici. “Tutti questi sono anelli di un’unica catena: la morte, o più precisamente, l’omicidio di Alexey Navalny, le rappresaglie giudiziarie contro altri critici del regime, compreso me, lo strangolamento della libertà nel paese, l’invasione delle truppe russe in Ucraina. All’apertura dell’attuale processo a mio carico mi sono rifiutato di parteciparvi e grazie a questo ho avuto l’opportunità di rileggere il romanzo di Franz Kafka “Il Processo” durante le udienze in tribunale. Davvero la nostra situazione attuale e la situazione in cui si è trovato l’eroe di Kafka hanno caratteristiche comuni: si tratta di assurdità e arbitrarietà mascherate sotto l’osservanza formale di alcune procedure pseudo-legali. Noi che ci opponiamo al regime e alla guerra con l’Ucraina siamo accusati di non sostenere il sistema di opinioni e la visione del mondo considerati corretti dalla leadership del Paese. E questo nonostante il fatto che, secondo la Costituzione, in Russia non possa esistere un’ideologia di Stato. Siamo condannati per aver dubitato che un attacco contro uno Stato vicino sia inteso a mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Assurdo. L’eroe di Kafka non sa nemmeno di cosa è accusato fino alla fine del romanzo, ma nonostante ciò viene condannato e giustiziato. In Russia l’accusa ci viene formalmente comunicata, ma è impossibile comprenderla restando nel quadro della legge e della logica”. Alla fine del suo discorso, Oleg Orlov si è rivolto inaspettatamente al giudice e all’accusa, dicendo loro che probabilmente stavano pensando: “Cosa posso fare io? Sto solo seguendo le istruzioni dei miei superiori”. Per questo Orlov ha aggiunto: “Ma voi stessi non siete spaventati? Non è forse spaventoso vedere in cosa si sta trasformando il nostro Paese, che probabilmente anche voi amate? Non è spaventoso che non solo voi e i vostri figli, ma anche, Dio non voglia, i vostri nipoti possiate dover vivere in questa assurdità, in questa distopia?”. Ovviamente, nella serie di eventi scandalosi e folli accaduti in Russia, questo processo a Oleg Orlov non è il più notevole. Ma in termini di profondità della questione, è uno dei principali. Può una persona delegare la sua coscienza ai propri capi? Per uno Stato ideologico, come ha osservato Hannah Arendt, questo è certamente possibile. Ma per la Russia moderna, dove non esiste alcuna ideologia, e nemmeno idee. A parte le affermazioni pseudo-cristiane e le vuote chiacchiere propagandistiche, come è possibile tutto ciò? Nessuna risposta. Solo paura, paura dello Stato, ma nessuna paura degli uomini e di Dio. Ma sappiamo che la vita è fatta in modo che prima o poi tocca rispondere».
CORO DI NO A MACRON SUI SOLDATI NATO IN UCRAINA
Un bluff, una gaffe? Una mossa studiata per togliere voti alla destra francese o per offuscare la guida italiana del G7 a Kiev? Fatto sta che c’è un coro di no a Emmanuel Macron che non aveva escluso la possibilità di spedire truppe europee in Ucraina, dopo che il filorusso premier slovacco aveva alluso all’intenzione di alcuni membri della Nato di intervenire direttamente. Germania e Italia si sono dissociate. La Casa Bianca ribadisce la linea: «Non manderemo soldati». Francesca De Benedetti sul Domani.
«Oggi non c’è il consenso per inviare in modo ufficiale truppe di terra, ma niente dev’essere escluso». Le parole pronunciate lunedì notte da Emmanuel Macron hanno generato ieri un caos diplomatico. Non che la cosa sia nuova: gli era già successo su un aereo di ritorno dalla Cina. Il bluff rientra tra le arti affabulatorie del presidente francese, e che dire delle gaffe? Ma ci vuole un inedito talento per mettere insieme l’occidentalissimo Donald Tusk e il filorusso Robert Fico, la destrorsa Marine Le Pen, socialisti e sinistra francesi, tutti contro di lui. Dichiarando che un intervento di terra in Ucraina non è da escludere in futuro, l’Eliseo ha scatenato un putiferio. Non c’è stato neppure bisogno che il Cremlino alzasse la cresta, visto che ci ha pensato Olaf Scholz a contraddire l’Eliseo pubblicamente; e Palazzo Chigi al traino. In serata pure la Casa Bianca si è sentita in dovere di chiarirlo: «Non manderemo truppe a Kiev». Una sintesi impietosa dell’incidente – chiamiamolo così – l’ha fatta il cancelliere austriaco: «È sorprendente uscirsene con un argomento che non ha consenso, e creare così un dibattito del quale davvero non abbiamo bisogno». Pare che i riferimenti di Macron a un intervento sul campo abbiano avuto l’unico effetto di mettere a nudo divisioni interne e incertezze. Ma come si è innescato il patatrac diplomatico? Anzitutto il contesto: questo lunedì sotto l’ombrello dell’Eliseo si è radunata una ventina di capi di stato e di governo, principalmente europei, per una «conferenza a sostegno dell’Ucraina». Né Giorgia Meloni né Antonio Tajani sono andati, con il Consiglio dei ministri convocato in concomitanza. Per l’Italia c’era Edmondo Cirielli, viceministro degli Affari esteri. Il tema di un intervento diretto occidentale in Ucraina è filtrato ben prima che Macron lo sfoderasse nel suo intervento finale prossimo alla mezzanotte. Già verso l’ora di cena il premier slovacco Robert Fico ha lanciato segnali: «Diversi membri Nato e Ue stanno valutando l'invio delle proprie truppe sul terreno ucraino su base bilaterale». Fico è ovviamente contrario; le sue dichiarazioni di disimpegno verso Kiev in campagna elettorale avevano fatto scandalo. Fatto sta che un leader disallineato ha dato un messaggio: di invio di truppe si stava effettivamente discutendo, anche se in termini di iniziative sparse («su base bilaterale») e non di consenso condiviso. Nel giro di circa tre ore è arrivato l’intervento di Macron che ha poi gettato scompiglio anche il giorno successivo, ovvero ieri. Cosa ha detto esattamente il presidente francese? In realtà nel suo intervento finale ha parlato di un «momento critico del conflitto» che impone di «prendere l’iniziativa, e non limitarsi a reagire», viste anche le «incertezze» anzitutto degli Usa; e ha mantenuto come bussola «il diventare sempre più un’economia di guerra»: del resto ingrossare i finanziamenti europei verso l’industria militare è una delle sue effettive priorità. Poi però una cronista gli ha chiesto conto dell’uscita del premier slovacco. Ed è a questo punto che Macron ha risposto: «Tutto è stato evocato, stasera, in modo franco. Oggi non c’è il consenso per inviare in modo ufficiale truppe, ma niente va escluso. Faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità perché la Russia non vinca la guerra. Con determinazione e umiltà faccio notare che eravamo pieni di jamais, di mai: gente che diceva jamais aerei, e così via. C’era chi diceva “daremo elmetti”, e oggi è il primo a dire: “di più, più rapidamente!”». Riferimenti abbastanza chiari a Olaf Scholz. «Insomma tutto è possibile, se porta all’obiettivo». Vale la pena ricordare che fino a poche ore prima che partisse l’aggressione all’Ucraina Macron tentava il dialogo con il Cremlino, e che anche dopo non si è certo caratterizzato come falco; nel giorno dell’insediamento di Meloni, era a Roma a un evento per la pace. Come interpretare quindi quel «tutto è possibile»? Analisti come Mujtaba Rahman, referente europeo di Eurasia Group, riportano che «stando alle fonti di alto livello francesi, lo scopo era anzitutto di avvertimento a Putin: anche se ora non c’è consenso, nulla può essere escluso, e nel dirlo Macron ha rotto un tabù». Il punto è che se lo scopo era di deterrenza, allora l’esito è stato quello opposto, visto che gli altri leader europei si sono affrettati a dichiarare che di mandare boots on the ground – forze sul campo – non ci pensano proprio. «È chiaro: non ci saranno truppe sul terreno da paesi europei o dalla Nato», ha dichiarato ieri pomeriggio il cancelliere tedesco. La coesione fra alleati, il «supporto, non contempla la presenza di truppe di stati europei o Nato», ha detto il governo italiano sulla falsariga di Scholz un paio d’ore dopo. Tusk lo aveva detto già in mattinata: «La Polonia non ha intenzione di inviare truppe». Altrettanto ha fatto poi Washington. A quanto pare non c’era neppure bisogno che si disturbasse ieri il portavoce del Cremlino, minacciando che «un intervento non sarebbe nell’interesse degli europei»: ci hanno pensato gli europei a contraddirsi fra loro».
QUIRICO: LA TERZA GUERRA MONDIALE NON È PIÙ UN TABÙ
L’analisi di Domenico Quirico per la Stampa. Le parole del presidente francese ci dicono questo: la Terza Guerra Mondiale diventerebbe una realtà.
«Finora politica e guerra in Ucraina erano, per signori e signore del nostro occidente, un tira e molla, un'altalena, un dai che io do, un va e vieni dai quali tutti in fondo pensavano di uscirne salvi, alla fine. Gli astuti perfino con qualche bel gruzzolo da spendere politicamente all'interno. Tutt'al più si trattava di pagare qualche milione di euro e di svuotar gli arsenali del vecchiume; ma alla prima occasione, ridotto come vogliono logica ed economia Putin al lumicino, si recuperava il perduto e il pagato. Si sa che le ricostruzioni sono affari lucrosi... Agli ucraini, quelli scampati al macello in prima linea, rimasti liberi per merito proprio, si riservava la amarognola soddisfazione della medaglia degli eroi. L'importante era che nessuno ad occidente uscisse con le ossa rotte. Altrimenti il bel gioco della politica e della guerra fatta con gli altri sarebbe finito. Poi un giorno il presidente francese Macron pronuncia alcune parolette: che non può escludere di spedire soldati a combattere a fianco degli ucraini, non solo, sarebbe ansioso di costruire una coalizione di volenterosi (formuletta dietro cui abbiamo posizionato alcune delle nostre peggiori sconfitte) e così accingersi virilmente a vincere la guerra del Donbass. Ci si incammina da Parigi sulle luttuose tracce della Grande Armata? Macron è un azzimato Napoleoncino che si tiene bigottamente stretto alla lettera della superiorità gallicana pur essendo, come impongono i mutati tempi della potenza, uomo di nebbia e di vento; che illazioni sproporzionate, con ipocrita reverenza, hanno etichettato come macigno europeista. Con indicativa miopia provinciale, da questa parte delle Alpi, le sue ardite e allarmanti escogitazioni belliciste (insomma: la Terza guerra mondiale a pezzi da noiosa cantilena diverrebbe Terza guerra mondiale e basta) sono state interpretate come legate al gioco di dispetti tra "monsieur le président" e la Meloni, una grottesca batracomiomachia dell'Unione. Lei si trasferisce a Kiev come capo dei Grandi o di quel che resta di loro con un misterioso, forse un pacco vuoto forse no, Patto d'acciaio con Zelensky. E lui replica dichiarando, nientemeno, quasi guerra alla Russia. Macron non ha fatto altro che compiere un passo verbale ulteriore in una pericolosa progressione che dura da mesi. Con cui le cancellerie d'occidente in modo omeopatico preparano le opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi a scavalcare il limite estremo: ovvero la necessità se non si vuole ingoiare, dopo due anni di sacrifici, il malpasso della sconfitta ucraina, di scendere in campo. Per piegare la Russia rimasta putiniana bisogna passare dalla non belligeranza milionaria (armi e sostegno economico) alla belligeranza diretta. È così che da sempre le guerre diventano mondiali e "inevitabili". Il presidente francese gioca d'anticipo, dire per primo ciò che gli altri ancora occultano sotto formule vaghe potrebbe rendere i gradi di capitano della futura Gran Coalizione dei generosi. La politica rispetto a come risolvere il problema ucraina finora si è mossa nell'arte dell'assicurazione e della contro assicurazione, dell'inganno e del para inganno, dallo scavar buche per far inciampare Putin da non saper poi come camminare trovandosele intorno ai propri piedi. Ci pareva possibile curare i conti della nostra aritmetica, preparar le elezioni Usa, nell'Unione e nei Paesi satelliti e intanto pagar altri per far la guerra necessaria. I signori presidenti, buoni a seccar tasche per il conflitto, eran pieni di entusiasmo: con Kiev comunque, fino alla vittoria. E aguzzavano gli occhi, nei tavoloni dei Vertici, su realtà caparbie e avverse aggruppate sotto nomi poco familiari che i loro aiutanti leggevano sillabando su carte geografiche dell'Ucraina. Alcuni di loro conoscono il mestiere ma questa faccenda ucraina è diversa, non una "small war", una guerruccia, ci sono città piene di uomini che fuggono nei rifugi ed eserciti in marcia nella steppa con i piedi indolenziti da ritirate e avanzate. Con le armi donate uomini correvano incontro alla morte attraversando fiumi gelati e, equipaggiati in carri armati, soffocavano solcando le nevi sterili dell'Ucraina. La brutale aggressione russa ha restituito alla Morte il posto che da un quarto di secolo non avevamo più dinanzi ai nostri occhi di europei. Pace e benessere ne avevano sbocconcellato il dominio che per secoli era stato in questa parte del mondo assoluto. La guerra restava una realtà dell'uomo, ma una realtà nascosta e lontana. Circondata da precauzioni era per gli europei spettacolo televisivo. Per trovarla bisognava viaggiare in Africa e in oriente dove i suoi trionfi sembravano essersi rifugiati. La furiosa mischia ucraina ha riportato i morti, i morti dappertutto, non onorevolmente coperti come si usa ma nudi con il loro odore e colore di morte, ridotti a lembi nelle strade e nei fossi, orride gonfiezze dondolanti a fior d'acqua. Era una morte europea. Ma finora degli altri. Che sta per diventare anche nostra? Attenti, qui ora si parla di noi. Nel sipario di mezze verità, ottimismi e bugie di chiassoni e gabbadei spunta che l'Ucraina, armi o non armi, è in gravi difficoltà: dopo mesi di mutua distruzione e nulla più il fronte cambia faccia. Kiev manca di uomini perché li ha consumati in due anni. Gli arsenali in occidente son quasi asciutti, bisogna produrre a gran forza ma per esser sicuri noi. Il bellicismo disinvolto dei due anni precedenti, la gigantesca fatamorgana della vittoria sparisce, si cambia tono. Diventa preoccupato, allarmista, da corsa contro il tempo: ahimè, per fermare Putin gli ucraini non bastano! Ci si arma e riarma, si restaurano le leve, ci si strofina con il formare nuclei di riservisti. Perché non si sa mai, Putin è goloso, bisogna esser pronti. L'entrata in guerra light, dopo aver ammorbidito le coscienze. Come era chiaro fin dall'inizio, con armi e denaro si poteva tenere in vita l'Ucraina non portarla alla vittoria, liberare le terre occupate fino all'ultimo centimetro. Per quello ci vuole la Terza guerra mondiale. Morire per Kiev: ma davvero, non solo nel portafoglio. Forse è davvero necessario per salvare l'occidente ma bisogna avere il coraggio di dirlo. E a condurla non potranno essere coloro che hanno causato il disastro».
L’ECONOMIST: “FRANCESI E INGLESI GIÀ IN CAMPO”
La rivelazione dell’Economist: diversi militari francesi e inglesi sono già al fronte a combattere contro i russi e a fianco degli ucraini. Carlo Nicolato per Libero.
«Mentre in Europa si discute dell’improbabile invio di truppe a supporto di quelle ucraine il presidente Zelensky si trova in Arabia Saudita per discutere della possibile mediazione di Riad in uno scambio di prigionieri tra Kiev e Mosca. I negoziati, ha specificato lo stesso Zelensky su X, si concentreranno sulla «formula di pace» già proposta da Kiev per porre fine all'invasione russa. Nel settembre 2022 l’Arabia era già riuscita a mediare per il trasferimento di dieci prigionieri di guerra stranieri, tra cui due americani e cinque britannici che combattevano dalla parte di Kiev e che erano stati catturati. Tra le sue file infatti l’Ucraina conta una “Legione Internazionale” composta da volontari provenienti da 55 Paesi diversi. Secondo le informazioni rilasciate a suo tempo il maggior numero di questi volontari sono americani e britannici, seguiti da polacchi e canadesi. Un numero piuttosto elevato arrivano anche dai Paesi baltici e nordici. Si tratta, è bene sottolinearlo, di volontari e non di soldati inviati da Paesi alleati. Il giornalista dell’Economist Joshi Shashank tuttavia ha fatto presente che sia i missili di precisione Scalp recentemente inviati da Macron a Kiev, sia la versione britannica Storm Shadow già forniti nei mesi scorsi, non possono essere utilizzati se non con l’aiuto diretto di militari specializzati, ovvero francesi e inglesi. Il Regno Unito anche ieri ha ribadito di avere in Ucraina alcuni consiglieri militari, ma la Francia non lo ha mai ammesso».
ALL’ELISEO CENA DI GALA PER AL-THANI
A proposito di Parigi, l’emiro del Qatar Tamim Al-Thani, uomo chiave nei negoziati per il Medio Oriente e proprietario della squadra di calcio del Paris Saint-Germain, una delle più ricche d’Europa, è stato festeggiato all’Eliseo da Emmanuel Macron e la moglie Brigitte, con tutti gli onori. Cena di gala con star e calciatori. Stefano Montefiori per il Corriere
«Ieri sera il presidente Emmanuel Macron e la moglie Brigitte hanno ricevuto gli ospiti per una cena di gala in onore dell’emiro del Qatar Tamim Al-Thani, uomo chiave nei negoziati per il Medio Oriente e proprietario della squadra di calcio del Paris Saint-Germain, una delle più ricche d’Europa. Tra gli invitati alcuni giocatori del Psg tra i quali Kylian Mbappé, campione del mondo nel 2018 e stella del Psg in procinto di passare al Real Madrid. All’Eliseo si è incrociata la diplomazia internazionale con il soft power del Qatar, potenza regionale capace di pagare gli stipendi dei dirigenti di Hamas a Gaza (con il benestare di Israele); di ospitare i leader in esilio della stessa organizzazione (qualificata come terroristica da Europa e Stati Uniti) nella capitale Doha; di mediare con i talebani prima e dopo la precipitosa ritirata degli occidentali dall’Afghanistan; di essere adesso al centro dei negoziati tra Israele e Hamas sia per il rilascio degli ostaggi sia per una tregua a Gaza; e allo stesso tempo capace di organizzare gli ultimi mondiali di calcio e di vegliare sul destino di Kylian Mbappé, giocatore tra i più forti al mondo, prodigio di Bondy ( banlieue parigina) che a soli 25 anni, dopo sette stagioni al Paris Saint-Germain e nessuna Champions League vinta, ha già comunicato al presidente della squadra Nasser Al-Khelaifi di volere trasferirsi al Real Madrid a partire dalla prossima stagione. La presenza di Macron, Al-Khelaifi, l’emiro del Qatar e Mbappé nello stesso salone dell’Eliseo ha rilanciato per qualche ora le speranze di una nuova, faraonica offerta del Qatar capace di convincere Mbappé a cambiare di nuovo idea e restare a Parigi. Nel 2022 il presidente Macron era già intervenuto presso Mbappé, con il quale ha un rapporto molto stretto, per convincerlo a resistere alle offerte del Real Madrid, e il campione si era lasciato persuadere a restare a Parigi con la promessa che la proprietà qatarina gli avrebbe costruito intorno una squadra capace di dargli i trofei che merita. Difficile che Macron abbia speso di nuovo la sua parola, o che l’emiro abbia proposto l’impossibile a Mbappé, che già è il giocatore meglio pagato d’Europa con circa sei milioni di euro al mese, ma i tifosi del Paris Saint-Germain hanno ripreso a sognare l’impossibile. Nessun invito all’Eliseo invece per la sindaca Anne Hidalgo, già poco amata da Macron e da mesi in lite con il presidente del Psg Nasser Al-Khelaifi e con i tifosi, per il suo rifiuto di vendere al Qatar lo stadio cittadino Parc des Princes».
“TREGUA LUNEDÌ”, BIDEN MANGIA UN GELATO
Joe Biden risponde ai giornalisti mentre mangia un gelato e dice: «Tregua a Gaza forse da lunedì». Ma il premier israeliano Benjamin Netanyahu e Hamas lo smentiscono. Polemiche sui social. Davide Frattini per il Corriere.
«Il gusto è menta con pezzetti di cioccolato. Il sapore che lascia in bocca amaro. Perché le speranze di Joe Biden — «i miei consiglieri mi dicono che la tregua può iniziare già lunedì prossimo» — vengono subito ridimensionate dagli israeliani — «le parole hanno sorpreso il primo ministro» — e dai capi di Hamas: «Non abbiamo intenzione di ridurre le nostre richieste». Lascia un cattivo sapore anche a chi sui social commenta che il presidente avrebbe potuto evitare di rispondere alle domande sulla guerra — i palestinesi uccisi sono ormai 30 mila — mentre lecca il gelato. Le dichiarazioni con il cono in mano sono state precedute da quelle nell’intervista alla Nbc in cui Biden avverte che «Israele rischia di perdere il sostegno del mondo, se continua così con questo governo». Non nomina Benjamin Netanyahu ma Itamar Ben-Gvir, uno dei suoi ministri messianici ed estremisti. È Bibi, com’è soprannominato, a rispondergli: «La maggior parte degli americani sta dalla nostra parte. Dall’inizio del conflitto conduco una campagna diplomatica per contrastare le pressioni a concludere le operazioni in anticipo e per ottenere l’appoggio internazionale». Il premier è ormai in campagna elettorale e ha scelto lo scontro con Biden come strategia di politica interna, nonostante il supporto all’inizio incondizionato del presidente, atterrato a Tel Aviv una decina di giorni dopo i massacri del 7 ottobre, 1.200 persone uccise dai terroristi palestinesi. E nonostante abbia ancora bisogno di lui: «Dobbiamo rifornire le difese aeree israeliane», ha insistito Biden con i leader del Congresso alla Casa Bianca, annunciando allo stesso tempo aiuti umanitari per Gaza. Dove l’Onu ha ridotto i convogli con cibo e medicine per ragioni di sicurezza e i pacchi con i materiali sono stati lanciati dall’aviazione giordana e francese tra le altre. Due bambini sono morti per malnutrizione e disidratazione all’ospedale Kamel Adwan di Gaza City e «migliaia sono a rischio», dichiarano dal ministero della Sanità. La Croce Rossa palestinese ha sospeso le missioni di emergenza per due giorni dopo che i soldati israeliani hanno fermato una fila di ambulanze che trasferiva 24 pazienti e fatto spogliare i soccorritori: l’esercito risponde di aver avuto informazioni d’intelligence sulla presenza di paramilitari di Hamas. Lo stato maggiore israeliano sta preparando l’offensiva contro la città di Rafah sul confine con l’Egitto, l’area in cui è ammassato un milione e mezzo di persone. «Dobbiamo arrivare lì anche perché sono tenuti alcuni ostaggi», afferma Daniel Hagari, portavoce delle forze armate. I negoziatori sperano ancora di poter raggiungere un’intesa per una pausa nei combattimenti prima di Ramadan, il mese sacro per i musulmani inizia fra una decina di giorni. Anche se i funzionari del Qatar, tra i principali mediatori in quanto sponsor finanziario di Hamas, ammettono che nelle trattative per ora non ci sono «svolte». Gli israeliani sarebbero disposti — scrive il New York Times — a rilasciare 15 carcerati palestinesi condannati per reati di terrorismo «gravi» in cambio della liberazione di 5 soldatesse sequestrate. Questo punto si aggiungerebbe alla bozza di accordo che prevede la liberazione di 40 ostaggi per 400 detenuti assieme a una tregua di sei settimane».
GLI AIUTI GIORDANI LANCIATI DAL CIELO
Diario da Gaza di Sami al-Ajrami per Repubblica. Racconta: “Attendo di far evacuare le mie figlie e vediamo arrivare dal cielo i pacchi di aiuto”.
«Le mie figlie, spero, se ne andranno presto: il loro visto egiziano e passaggio fino al Cairo è stato già pagato grazie all’aiuto di tanti amici fuori di qui che hanno partecipato con generosità a una colletta online. Aspettiamo solo che il loro nome compaia su una delle liste redatte due volte alla settimana. Mi auguro sia questione di pochi giorni. Voglio però che lascino Gaza, il luogo dove sono nate, con memorie migliori di quelle di questi ultimi mesi di guerra. E dunque ho dato fondo ai risparmi e organizzato per loro un picnic con amici e parenti nella tendopoli che abbiamo costruito a ovest di Khan Yunis, il posto dove già parte di noi si è rifugiata nel timore che l’esercito inizi le operazioni di terra anche al Sud. Mentre per ora io e le ragazze restiamo a dormire a Rafah allo scopo di essere più vicini al confine nel momento in cui potranno spostarsi. Lo ammetto, è stato un picnic surreale. Sono riuscito a procurarmi dell’agnello da un macellaio che di solito vende solo carne di gallina ma a quanto pare, e a caro prezzo, ha ancora degli animali nascosti da qualche parte. Lo abbiamo arrostito all’aperto per poi offrire agli ospiti una carne che qui nessuno mangiava più da quasi cinque mesi, mentre un amico ha improvvisato un forno con fango e argilla dove abbiamo cotto il pane. C’era il sole e davanti a noi il mare: era quasi bello, se non fosse stato per l’eco delle bombe che in lontananza abbiamo sentito almeno cinque volte, a ricordarci che la guerra è qui ed è vicinissima. Potevamo morire, anche in quel momento. Il pasto è stato però abbastanza lieto, ritmato dai racconti di ciascuno. Ricordi dei tempi ormai andati, persone e luoghi che non ci sono più, feste che a pensarci ora sembrano favole. Abbiamo pianto, abbiamo riso, ci siamo abbracciati. Ruba e Bisan, le mie ragazze che sognano di venire in Europa e studiare per diventare un giorno giornaliste — mestiere che qui a Gaza è diventato improvvisamente ambitissimo: tutti ne hanno compreso l’importanza — mi sono sembrate rasserenate da questo pomeriggio di “pace”. A fine giornata ho voluto fare una foto di noi tre insieme col tramonto alle spalle. Forse l’ultima per un bel po’ e per questo ancor più importante, per me e per loro. Cessati i bombardamenti in lontananza, mentre ancora mangiavamo abbiamo visto arrivare nuovi aerei, senza insegne. Per qualche istante è stato il panico: abbiamo avuto molta paura pensando che stessero per paracadutarsi prima dell’invasione. Dei paracadute, in effetti, si sono aperti. Ma a cadere dal cielo sono state casse pieni di aiuti, che la Giordania ha deciso di far arrivare in questo modo nella zona più affollata di profughi qui a Khan Yunis Ovest. Dentro ogni cassa, infatti, c’erano decine di buste nere: ciascuna conteneva un pasto completo da tre portate per una persona. Chi è riuscito a prenderli ha davvero fatto festa. Ma accaparrarsele non è stato certo facile. A decine si sono precipitati e ci sono state anche liti, spintoni, forse anche peggio. Purtroppo, il problema è che far entrare aiuti qui nella Striscia sta diventando sempre più difficile. Da giorni non si vede più un solo poliziotto in giro: gli uomini in uniforme blu sono spariti dalla strada da quando diverse delle loro pattuglie in divisa sono state prese di mira da raid di Israele che accusa la polizia locale di essere parte del braccio armato di Hamas e anche di rubare e gestire in maniera mafiosa gli aiuti. In realtà la scomparsa dell’ultima parvenza d’ordine ha un impatto rilevante sulla vita quotidiana: i camion carichi di aiuti sono infatti più esposti agli attacchi della folla affamata. E non essendo più scortati fino ai luoghi dove sono più necessari, anche la distribuzione è saltata. Egitto e Giordania hanno tentato di negoziare con l’esercito israeliano un possibile ritorno della polizia palestinese in strada. Ma né gli agenti né Israele hanno accettato. E dunque, per tentare di sfamare almeno i più disperati, certi aiuti, ora, piovono dal cielo. Ma chi se li procura — i più giovani e forti, capaci di farsi largo nella mischia che quei lanci provocano — ha di che andare avanti soltanto per un’altra giornata».
TRATTARE CON TUTTI, SENZA FANATISMO
Gabriele Segre per La Stampa affronta il tema della trattativa trattare con Houthi e Hamas. E scrive: “Perché è giusto negoziare anche con chi sfida le regole. Come Augusto a Teutoburgo l'Occidente è attaccato da miliziani sfuggenti. Si deve trattare senza sdoganare il fanatismo”.
«È dai tempi della sconfitta romana a Teutoburgo che l'Occidente è sembrato ignorare più e più volte la medesima lezione nel corso dei secoli. Prendiamo un esercito ben organizzato, emanazione di uno Stato sovrano creato allo scopo di esercitare il monopolio legittimo della forza nel confronto con realtà politiche e militari omologhe. Facciamolo scontrare con un gruppo di milizie irregolari che non si identificano in confini, ma conoscono il terreno, con meno armi e più ideologia. Chi vincerà? Chiedetelo a Varo, a Custer o al generale Navarre dopo Dien Bien Phu. Sessant'anni di ostilità post-coloniali tra Africa e Indocina e decenni di guerriglie tribali in Medio Oriente hanno preferito evitare la domanda. La guerra in Ucraina è sembrata riportarci in quella dimensione dello scontro in cui contano carri armati e chilometri di avanzate: una lotta simmetrica, non per questo equilibrata sul piano della potenza, ma di certo a noi più comprensibile nelle sue finalità. Un'eccezione. Dopo il 7 di ottobre in Medio Oriente si sono riaccesi piccoli e grandi focolai di conflitto, in verità mai sopiti: dagli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, al nuovo fermento dell'Islam sciita, dalla Siria al Baluchistan, fino ai rigurgiti della Jihad Islamica che non accenna a rinunciare alla causa anche quando Al Qaeda e Isis paiono meno vivaci di un tempo. Una "guerra asimmetrica" che, grazie a tecnologie a basso costo e a un mondo iper-connesso, è diventata letale anche a lungo raggio: un drone kamikaze da 20 mila dollari può oggi svolgere la missione di un missile Tomahawk da 1 milione ciascuno, e una fake news è in grado di spostare miliardi di opinioni e finanziamenti nello stesso istante. Un tipo di sfida di fronte alla quale l'Occidente si è confermato impreparato. Del resto, se non riesce a sviluppare una dottrina adatta a neutralizzare la minaccia, appare incapace ancor più di comprenderla. Persino gli obbiettivi perseguiti sono asimmetrici: mentre noi concepiamo la vittoria come il controllo del perimetro geografico e della popolazione al suo interno, lo scopo del nostro nemico sembra piuttosto incentrato sul logoramento, fino all'annientamento. E, non cogliendo il fine della loro missione, fatichiamo a comprendere se sia possibile la pace. Cesare Augusto ebbe la forza di ritirarsi al di qua del Reno. Nixon di abbandonare Saigon. Oggi ammettere la sconfitta non basterebbe: l'11 settembre ha reso palese quanto una guerra asimmetrica possa colpire in un mondo globale. E allora è arrivato forse il momento di considerare l'ipotesi che queste forze non siano del tutto sradicabili e che, se non possiamo sconfiggerle sul campo di battaglia, dovremo trovare il modo di affrontarle attraverso un approccio diverso: una nuova dottrina, questa volta di "politica asimmetrica". Lo sforzo fino ad oggi è stato limitato a qualche prova di realpolitik tenuta lontana dai riflettori, ben consapevoli che dare legittimità a relazioni considerate tradizionalmente indebite ci porrebbe su un terreno scivoloso. È possibile immaginare di instaurare rapporti con questi attori ostili all'interno delle sedi istituzionali e multilaterali del consesso mondiale, senza validare al contempo metodi brutali e fanatismo? Sarebbe già un buon inizio riconoscere che queste forze hanno un peso nel panorama internazionale senza che tale ammissione venga percepita come una resa. Un ulteriore passo avanti sarebbe renderci conto che non siamo i soli a volerlo. Anche le conseguenze delle guerre asimmetriche si sono globalizzate: gli agguati dallo Yemen danneggiano Cina e India tanto quanto noi. Russia e Turchia si confrontano in un magmatico scacchiere che va dal Kurdistan al Caucaso. Persino i moderni "guerrieri", tra foreign fighters, mercenari e hacker, paiono più l'investimento economico di capitali ben gestiti che indomiti idealisti. Tentare un dialogo con questo mondo è verosimile? Forse no… ma abbiamo comunque il dovere di provarci prima di mandare altre legioni al massacro».
LE CARICHE COI MANGANELLI A PISA
Veniamo alle vicende italiane. Matteo Piantedosi riferirà domani alle Camere sull’uso dei manganelli a Pisa e a Firenze. Lite tra Pd e Lega in aula a Strasburgo. Venti agenti che parteciparono agli scontri sono sotto osservazione anche se nessuno è sotto indagine. Manuela Perrone per il Sole 24 Ore.
«Domani in Parlamento, nell’informativa fissata la mattina alla Camera e alle 15 in Senato, Matteo Piantedosi fornirà ufficialmente la versione del Governo sulle cariche della polizia contro gli studenti a Pisa e a Firenze. Il ministro dell’Interno ribadirà sostanzialmente la tesi già illustrata prima ai sindacati e poi in Consiglio dei ministri lunedì scorso. Costruita su due argomentazioni: è sbagliato trascinare le forze dell’ordine in polemiche di natura politico-elettorale; dal Governo nessuna contrazione della libertà di manifestare, gli scontri sono «casi isolati» su cui saranno le Procure a fare «piena luce». Proprio dalle inchieste si attendono le prossime novità. A Pisa, sotto il coordinamento del procuratore facente funzioni Giovanni Porpora, si procede con cautela, senza ipotesi di reato né indagati. I carabinieri del nucleo investigativo hanno inviato all’autorità giudiziaria solo i video acquisiti dai social e dalle telecamere di videosorveglianza urbana e trasmetteranno l’informativa in Procura soltanto dopo aver ascoltato i testimoni. Solamente all’esito degli accertamenti preliminari, che potrebbero avvalersi anche delle dichiarazioni raccolte tra il personale del liceo artistico “Russoli”, collocato proprio sulla strada dove si è verificata la carica, si saprà se è possibile configurare la contestazione dei reati di lesioni volontarie e violenza privata. Sono una ventina gli agenti del reparto mobile e della questura sotto osservazione, nessuno dei quali ancora formalmente sotto indagine. Tanti i punti da chiarire, compreso quello cruciale della ricostruzione della catena di comando che ha dato origine alle cariche. Se ieri a Pisa è stata convocata un’assemblea dei collettivi studenteschi alla quale hanno partecipato centinaia di persone, il botta e risposta politico è planato anche in Europa. Con l’eurodeputata leghista Susanna Ceccardi che intervenendo in Aula a Strasburgo ha augurato «pronta guarigione ai poliziotti», sostenendo che «tra i manifestanti c’erano infiltrati alcuni violenti dei centri sociali», e la dem Elisabetta Gualmini che ha replicato: «È dovuto intervenire anche il Presidente della Repubblica per spiegare che i ragazzini inermi di 15 anni non si manganellano, vergognatevi». È in questo clima che alla Camera, nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, è stato incardinato ieri il disegno di legge sulla sicurezza approvato dal Governo a novembre. Una stretta che spazia dall’accattonaggio ai blocchi stradali, fino alle proteste nei centri di accoglienza per migranti. E che liberalizza le armi private senza licenza proprio per gli agenti di pubblica sicurezza. Norme destinate ad accendere animi già surriscaldati».
DENIS VERDINI TORNA IN CARCERE
Denis Verdini, per le le cene romane con manager e imprenditori durante la detenzione, deve lasciare i domiciliari e tornare in carcere. Luca Serranò per Repubblica.
«Fine pena 2036. Rischiano di costare carissime a Denis Verdini le cene romane con manager e imprenditori durante la detenzione domiciliare. Il tribunale di sorveglianza ha aggravato la misura cui il politico toscano era sottoposto dal gennaio 2021 per il crac del Credito cooperativo fiorentino. E ha ordinato il carcere. Oltre alle evasioni per incontrare, tra gli altri, alcuni dei protagonisti dello scandalo degli appalti Anas, Verdini, 72 anni, ha pagato le altre due condanne definitive per bancarotta accumulate nel corso del 2023. E ieri mattina è stato raggiunto nella sua villa sulle colline di Firenze dagli uomini della questura. Il tempo di lasciare le sue cose ed è partito per il carcere di Sollicciano: in attesa di una nuova istanza di scarcerazione — secondo la difesa le condizioni di salute sono incompatibili con la detenzione — è qui che dovrà trascorrere giorno e notte, lontano anni luce da affari e politica. E dire che una seconda chance i magistrati gliel’avevano concessa. Uscito da Rebibbia dopo poche settimane per un focolaio di Covid, l’ex parlamentare berlusconiano aveva ottenuto i domiciliari e, in seguito, un allentamento delle prescrizioni. Nell’autunno del 2021, poi, gli era stato concesso di spostarsi a Roma — e di dormire a casa del figlio — due giorni a settimana per cure odontoiatriche: permessi che avrebbe sfruttato per riallacciare rapporti, almeno secondo le indagini della procura di Roma, sul caso Anas. Il 26 ottobre 2021 il primo degli incontri sotto i riflettori, nel ristorante Pastation del figlio Tommaso, presenti l’allora ad di Anas Massimo Simonini e l’imprenditore Vito Bonsignore. Poi altre due cene, a novembre e gennaio, sempre con una compagnia “eccellente” e sempre a dispetto dei vincoli imposti dal tribunale. Da qui l’accusa di evasione e la trasmissione degli atti a Firenze. «Gli atti di indagine documentano una vita sociale e di relazione impegnativa comportante uscite notturne, incontri con imprenditori, politici e pubblici funzionari», si legge nell’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza ha disposto il carcere. E ancora: «È evidente come la reiterata violazione delle prescrizioni, anche successive alla data dell’udienza (marzo 2022) in cui si discuteva della proposta di revoca per una condotta ben meno grave di quella oggetto di odierna valutazione, rende inidonea la misura domiciliare». Un riferimento alla mail inviata a Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Utri nel gennaio 2022 in cui Verdini suggeriva, in caso di insuccesso del Cavaliere nella corsa a presidente della Repubblica, di dare pieni poteri a Matteo Salvini (suo genero) per trovare un altro candidato. Nel motivare la decisione, infine, il tribunale si è soffermato sulle altre due condanne definitive (una a 5 anni e 6 mesi per il crac della Ste, l’altra a 3 anni e 10 mesi per il dissesto di una impresa edile) inanellate da Verdini, così come sulla vicenda Anas in cui l’ex politico è indagato insieme con il figlio Tommaso: «Fatti di corruzione e altri reati commessi proprio dalle persone con cui si intratteneva abitualmente, ed anzi ricoprendo il ruolo di elemento di collegamento per i rilevante ruolo politico ricoperto in passato [...]. Emerge il fondato dubbio che le autorizzazioni richieste per svolgere le lunghe e ripetute cure dentarie in Roma fossero in realtà uno strumento per poter più facilmente eludere il vincolo delle prescrizioni».
“LA CRIMINALITÀ È CONTRO LA CHIESA CALABRESE”
Antonio Maria Mira intervista su Avvenire il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo sui recenti episodi di intimidazioni e violenze contro parroci in Calabria. Dice Falvo: «Con questi atti contro i preti calabresi si vuole colpire l’azione del Vescovo»
«Quando sono due i parroci colpiti e poiché alcune delle lettere di minacce non riguardano solo i parroci ma anche il vescovo, evidentemente si vuole colpire anche la diocesi e l’azione riformatrice portata avanti dal vescovo». A parlare è il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che conferma il sostegno al vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea, don Attilio Nostro. «È una persona straordinaria. Gestire una diocesi così complessa come quella di Vibo Valentia per il territorio su cui opera, non è facile, ma ce la sta mettendo tutta, sta bene operando. E quando si opera bene e si intaccano certi interessi poi alla fine questo è il risultato».
Cessaniti, il paese dei due parroci colpiti (uno con tentativo di avvelenamento e un altro oggetto di intimidazioni, ndr) non è un territorio facile…
Le due operazioni, “Maestrale” e “Carthago”, hanno squarciato un velo. Sembrava una comunità tranquilla, ma così tranquilla non è. Se si arriva a gesti di questo tipo senza ragioni almeno plausibili, questa è la dimostrazione che è veramente una realtà complessa. È stato attaccato il commissario prefettizio, è stata attaccata una volontaria dell’associazione Crisalide, espressione della società civile, vengono attaccati due sacerdoti. Questo dimostra che c’è qualcosa che evidentemente non va bene a un sistema consolidato. Non sono ragazzate.
Lei due anni fa partecipò ad un’iniziativa promossa in parrocchia proprio da don Felice sul tema della legalità e invitò i cittadini a non stare in silenzio.
Ho conosciuto don Felice proprio in quella circostanza. Ho visto che c’era una comunità che lo adorava, cittadini, molti ragazzi. Mi era piaciuto l’ambiente che circondava don Felice. Anche lì, come faccio spesso quando incontro le comunità vibonesi, ho invitato a denunciare, a raccontare quello che succede, a vincere l’omertà.
E invece?
Mi sarei aspettato, visto quello che sta accadendo, che qualche informazione ci arrivasse, perché è difficile che non si sappia o comunque non si possa ipotizzare qualcosa, in frazioni dove in genere qualcosa si sa. Invece nulla. È preoccupante che in una realtà così piccola non ci sia nessuno che parli.
E voi?
Le indagini le stiamo facendo, i carabinieri sono molto preparati e sono “sul pezzo”. Speriamo di venire a capo presto di questa situazione.
Il Vibonese è stato a lungo trascurato, la periferia della periferia. Invece da un punto di vista criminale è tutt’altro che una periferia, come hanno fatto emergere le ultime inchieste.
Molte delle inchieste più importanti degli ultimi anni in Calabria si sono concentrate proprio sul Vibonese. Abbiamo svolto un’enorme mole di lavoro che ha dato questi risultati. Ma voglio ricordare anche la grande quantità di Comuni sciolti per mafia e di interdittive antimafia che dimostra che Vibo per troppo tempo è stata trascurata dall’azione dello Stato complessivamente, forze dell’ordine e magistratura.
Adesso i nodi stanno venendo al pettine.
È molto preoccupante il grandissimo numero di Comuni sciolti per mafia, un segnale del forte condizionamento della ‘ndrangheta sulle amministrazioni comunali, come emerso anche per Cessaniti. E’ il frutto dell’attività che con la Dda abbiamo portato avanti negli ultimi anni. I dati delle operazioni hanno poi consentito alla Prefettura di fare tutta questa attività sulle amministrazioni locali, così come le interdittive che come numero in rapporto alla popolazione sono il doppio rispetto a Reggio Calabria.
Il fatto che bersaglio diventino dei sacerdoti significa che è cambiato qualcosa? Non sono più intoccabili?
Prima i preti venivano toccati soltanto quando si schieravano apertamente contro le organizzazioni criminali, i preti antimafia. Adesso accade anche quando diventano scomodi per cose forse più banali. Non c’è più quel rispetto che c’era una volta verso le istituzioni religiose. Questo si percepisce.
Basta fare bene il prete? Farlo dà fastidio?
Ci sono realtà in cui fare bene il prete, portare a termine la propria missione, in modo limpido, trasparente, nel rispetto della legalità, è scomodo. Questa è l’amara conclusione e l’esperienza ci sta dicendo questo. Non sono legati a iniziative direttamente antimafia. Paradossalmente gli attacchi don Felice non li ha subiti dopo l’iniziativa di due anni fa, ma per altre ragioni e anche questo è significativo».
L’AUTO CINESE IN ITALIA
La cinese Byd potrebbe insediare uno stabilimento in Italia, sarebbe il secondo impianto Ue dopo quello in Ungheria. Il governo studia l’opzione anche per fare pressing su Stellantis. Spunta anche Omoda. Pierluigi Bonora per Il Giornale.
«Byd? Tesla? Omoda? Toyota? Più che di novità, tra l’altro poche, a un Salone di Ginevra ripartito, ma molto sottotono, a tenere banco è il «toto» secondo costruttore disposto a produrre in Italia. Ed ecco rispuntare il big cinese Byd, presente al Palexpo. L’ad europeo Michael Shu, intervistato da Bloomberg, ha infatti confermato «alcuni contatti, per discuterne, con il governo italiano». E anche se l’affermazione del manager si riferiva al momento in cui Byd stava cercando di capire dove costruire il primo impianto in Europa, scelta poi caduta sull’Ungheria, si è scatenato il finimondo. Del resto, non c’è giorno che il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, torni sull’argomento. «Ci sono contatti con diverse Case auto - ha ribadito ieri -; abbiamo lavorato sin dall’inizio della legislatura per migliorare l’attrattività del sistema Paese. L’Italia, poi, è l’unico Stato europeo che produce veicoli ad avere un unico costruttore. Contatti con Byd? Non posso fare nomi, ma dobbiamo accogliere nel migliore dei modi tutti coloro che vogliono realizzare un investimento qui. Abbiamo infatti cambiato, in tal senso, la normativa per chi torna a produrre in Italia. Stiamo favorendo anche il reshoring di imprese che avevano lasciato questo Paese: oggi si può avere un vantaggio fiscale pari al 50% nei primi sei anni. Incentiviamo il reshoring, ma attenzione: chi lascia la Penisola dopo aver ricevuto gli incentivi, dovrà restituire quelli ottenuti negli ultimi dieci anni. Regole chiare che valgono per tutti», l’avvertimento di Urso che, senza farne cenno, è diretto in particolare a Stellantis e alle crescenti tentazioni verso i Paesi a basso costo. La notizia, comunque, riguarda l’uscita allo scoperto ufficiale di uno degli interlocutori del ministero, appunto Byd. Il gruppo cinese, che ha superato Tesla nella classifica dei produttori di auto elettriche, è concentrato ora sull’avvio dell’impianto ungherese. Sulla necessità di realizzare un secondo sito in Europa, Shu ha risposto che «dipende dalle nostre vendite, che al momento vanno molto bene, ma è comunque ancora troppo presto per dire se e quando sarà presa una decisione su un altro stabilimento». Per favorire l’investimento di Byd, a Szeged, il governo ungherese ha potenziato l’intero sistema delle infrastrutture del territorio. Il colosso cinese, che punta a contare per il 10% in Europa entro il 2030, nel 2023 ha venduto 3 milioni di vetture (+61,9%), oltre 1,5 milioni quelli elettrici (+75%) e ha visto l’export aumentare del 34%. Urso ha parlato di più contatti. Quali gli altri avviati? Si suppone Tesla, alle prese con il contrastato ampliamento del sito tedesco, ma anche Toyota, dopo la recente missione a Tokyo di Giorgia Meloni. Intanto, si affaccia un altro big cinese, Omoda (Chery). Sbarcherà in Europa con un Suv termico, per poi offrire la versione elettrica. Spagna e Italia saranno i primi due mercati. E riparte il «toto» secondo costruttore».
LIBERA LA FAMIGLIA RAPITA IN MALI
I Langone sono rientrati ieri a Roma. Raccontano i due anni con i sequestratori. “Nel deserto è stata molto dura”. Fabrizio Caccia per il Corriere.
«Appena toccato il suolo italiano dopo due anni di assenza forzata, causa rapimento in Mali, Rocco Langone, 66 anni, sua moglie Maria Donata Caivano di 63 e il figlio Giovanni di 44, Testimoni di Geova, si siedono su un divanetto insieme con Antonio Tajani, il ministro degli Esteri, che è andato ad accoglierli all’aeroporto di Ciampino. Sono le 4 di ieri pomeriggio e all’interno della base militare la signora Maria Donata, che malgrado due anni di prigionia ha conservato tutto lo spirito della sua Lucania, rompe il ghiaccio a suo modo con Tajani: «Lo sa ministro, cosa vorrei tanto? Un bel caffè...». Ed ecco che con la tazzina in mano Maria Donata, finalmente libera, comincia a raccontare una storia pazzesca: «Qualche volta, durante il sequestro, ho provato a fare anche la pasta. Su un vassoietto d’acciaio preparavo i cavatielli nel nostro accampamento in pieno deserto. Loro, però, i nostri rapitori, non prendevano cibo da noi, perché ci consideravano infedeli, erano molto religiosi». I cavatielli sono un tipo di pasta fresca fatta a mano caratteristici della cucina meridionale e ieri la signora Maria Donata li ha proposti pure al ministro Tajani, invitandolo a pranzo. Giornata faticosa, per i Langone: fuori dall’aeroporto li attendevano i Ros per portarli in Procura perché un fascicolo sul rapimento è già stato aperto. Anche il diario della prigionia del figlio Giovanni ha dell’incredibile: «Avevo a disposizione una radiolina e con quella riuscivo ad ascoltare le partite del campionato. Io sono molto tifoso e il calcio mi ha tenuto compagnia. Quella radiolina oggi è qui, l’ho portata con me». Interviene la mamma: «La notte, nel deserto, fa freddissimo. E noi eravamo vestiti con abiti leggeri, sintetici. Avevamo delle coperte, ma è stata davvero dura». «Probabilmente all’inizio eravamo in mano a dei criminali, poi siamo stati passati a un gruppo militante islamico», prosegue Giovanni. I tre italiani vennero sequestrati il 19 maggio 2022 nella loro abitazione di Sincina, alla periferia di Koutiala, città a sud est della capitale del Mali, Bamako. Quella mattina 4 uomini armati fecero irruzione e li portarono via su un pickup insieme a un loro amico del Togo. La banda jihadista a cui furono ceduti è riconducibile al Jnim, Gruppo di supporto per l’Islam e i musulmani, legato ad Al Qaeda, che spesso rapisce cittadini stranieri per ottenere un riscatto o per chiedere il rilascio di suoi miliziani. Rocco e Maria Donata, da Ruoti, in Basilicata, hanno sempre seguito Giovanni: prima in Brianza, a Triuggio, nel 2013. E poi in Mali, in mezzo alla savana, dopo la fine del suo matrimonio. Non erano neanche registrati all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), i Langone. Per integrarsi il più possibile con la popolazione avevano pure cambiato cognome: a Sincina, erano la famiglia Coulibaly. «Ma non sono stati sequestrati dai musulmani perché volevano aprire laggiù un Tempio dei Testimoni di Geova — si indigna all’aeroporto l’altro figlio, Daniele, il fratello di Giovanni —. La verità è una sola: lo Stato italiano li ha liberati perché ha degli uomini speciali che lavorano nell’ombra. Ringrazio loro e ringrazio il governo». La premier Giorgia Meloni ha già espresso le sue «più sentite felicitazioni», mentre Palazzo Chigi sottolinea che il rilascio si deve «all’intensa attività avviata dall’Aise (il servizio segreto per l’estero, ndr), di concerto con la Farnesina, grazie ai contatti con personalità tribali e con i servizi di intelligence locali». «Tutto è bene quel che finisce bene», conclude Tajani».
NUOVI GUAI PER FEDEZ. “DILLO ALLA MAMA, DILLO ALL’AVVOCATO”
Il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso dello youtuber Luis Sal (quello di “Dillo alla mamma, dillo all’avvocato”) autorizzando il sequestro del 50% delle quote della srl che edita «Muschio selvaggio», il podcast del rapper. Francesco Bonazzi per La Verità.
«Ci sono dei giorni in cui essere Federico Lucia, in arte Fedez, è particolarmente difficile. Ieri è stato uno di quelli, tra beghe giudiziarie con un ex socio, proclami pubblici sulla propria salute mentale (vecchi propositi di suicidio compresi) e i giornalisti che vogliono sapere della sua separazione con quella macchina da guerra di Chiara Ferragni. In mezzo a questo circo, al di là dei milioni di euro delle sponsorizzazioni e delle campagne per i diritti civili condotte negli anni dalle due stelline dei social, ci sono due incolpevoli minorenni, Leone (2018) e Vittoria (2021), abbondantemente esposti su Instagram e Facebook da mamma e papà. Due pupi che un giorno non lontano rintracceranno le gesta dei genitori su Youtube, mentre Leone già oggi può vantare un’imitazione di Crozza. Per dire la cosa più innocua. Fedez è in lite dalla scorsa estate con Luis Sal, uno youtuber bolognese di 27 anni che vanta due milioni di seguaci, con il quale aveva fondato il podcast di chiacchiere online Muschio selvaggio. Il primo episodio è stato messo online il 13 gennaio del 2020 e vedeva due ospiti di una certa caratura: il rapper ghanese Bello Figo (famoso per il brano Non pago l’affitto) e la nonna di Fedez (famosa per essere la nonna di Fedez). A oggi, quella prima puntata ha fatto più di tre milioni di visualizzazioni ed è una goccia che va ad aggiungersi a quel mare che Oswald Spengler aveva già intuito un secolo fa, ovvero Il declino dell’Occidente. I due soci, al 50%, si sono mandati al diavolo l’estate scorsa per il controllo della società e ora si parlano per avvocati e comunicati stampa manco fossero gli eredi di Gianni e Marella Agnelli. Ieri mattina, una nota dell’ufficio stampa di Sal sbandierava all’attenzione della business community un (presunto) provvedimento del tribunale di Milano: «Il provvedimento ha decretato che la società di Sal ha il diritto di rilevare le quote della società di Fedez, esautorando così quest’ultimo nella gestione del podcast». Esautorare. Roba forte di questi tempi per il povero Fedez, che già dovrà pensare agli avvocati della mogliettina. Il giudice Amina Simonetti, con ordinanza del 23 febbraio, secondo Fedez in realtà avrebbe deciso qualcosa di diverso. Una contro-nota dello staff del rapper spiega: «Il tribunale di Milano non ha “decretato” che le quote appartenenti a Doom (società dei Lucia) debbano essere vendute alla società di Sal. L’ordinanza emessa è di natura cautelare e prevede la nomina di un custode per le quote della società Muschio selvaggio srl, di proprietà di Doom». In sostanza, nulla sarebbe stato ancora deciso e la causa di merito non è ancora iniziata, ma il giudice si sarebbe occupato di «mettere in freezer» le quote di Fedez affidandole non al suo ex amico, ma a un custode. In attesa che si risolva la contesa sull’esercizio dei diritti di opzione incrociati. La battaglia tra Fedez e Sal è iniziata a giugno, dopo che il secondo sparì dalle dirette e il primo lo accusò di volersi mettere in proprio. Sal rispose con un video di un certo successo, dal titolo azzeccatissimo: «Dillo alla mamma, dillo all’avvocato». E avvocato è stato. Nella Muschio selvaggio c’è una clausola detta «roulette russa» con la quale, in caso di stallo, uno dei due soci ha facoltà di fare per primo l’offerta per rilevare le quote dell’altro. E se questo rifiuta, ha però il dovere di vendere per primo il suo pacchetto azionario. Luis Sal ha rifiutato e ora dovrebbe comprare il 50% di Mister Ferragni, che però ha rifiutato e la faccenda è finita in tribunale».
SPESA MILITARE ALLE STELLE: UTILI RECORD PER LEONARDO
La spesa militare mondiale nel 2023 è aumentata per il nono anno consecutivo in termini reali, a una somma che si avvicina a 2.500 miliardi di dollari. In Europa l’anno scorso il business armi è arrivato ai 345 miliardi di dollari. Le guerre in corso fanno schizzare il portafoglio ordini dei grandi player, fra cui l’italiana Leonardo. Gianni Dragoni per Il Sole 24 Ore.
«La spesa militare mondiale nel 2023 è aumentata per il nono anno consecutivo in termini reali, a una somma che si avvicina a 2.500 miliardi di dollari. Sono le stime anticipate da Dan Smith, direttore del Sipri, l’istituto di Stoccolma che fa accurate analisi internazionali sul settore delle armi e dell’industria della difesa. I dati definitivi saranno pubblicati in aprile, ma già si sa che «la spesa l’anno scorso è aumentata a un ritmo sostenuto nel 2023 e - osserva Smith - aumenterà anche quest’anno e per i prossimi anni, ma non per sempre». A due anni dall’avvio della guerra della Russia contro l’Ucraina e nel pieno della guerra di Israele contro Hamas a Gaza, l’industria della difesa è in piena espansione, soprattutto in Europa. Le spese militari in Europa l’anno scorso sono arrivate intorno a 345 miliardi di dollari, secondo il Sipri, rispetto ai 230 miliardi del 2014, l’anno in cui nel vertice Nato di Newport fu stabilito il controverso obiettivo politico di elevare la spesa militare degli «alleati» degli Stati Uniti almeno al 2% del Pil. Le due guerre in corso hanno dilatato il portafoglio ordini dei grandi produttori del settore e della catena dei fornitori. Gli impegni di aumentare la spesa annunciati dai governi europei hanno incrementato l’interesse degli investitori. I nuovi ordini hanno trasformato le sorti degli appaltatori europei della difesa, con il portafoglio ordini aggregato delle prime sette aziende _ tra cui Bae Systems, Leonardo e Saab _ che è salito a livelli quasi record di oltre 300 miliardi di dollari, ha sottolineato il Financial Times. Tra il 2020 e il 2022 i principali 15 gruppi industriali della difesa mondiali hanno aumentato il portafoglio ordini complessivo di 76,4 miliardi di dollari: il carnet di ordini è passato dai 701,2 miliardi di dollari di fine 2020 a 777,6 miliardi a fine 2022. La guerra in Ucraina ha portato all’esaurimento delle scorte nazionali di munizioni e altra artiglieria, ne hanno beneficiato soprattutto la tedesca Rheinmetall e la finnico-norvegese Nammo, insieme agli altri produttori di munizioni, la francese Nexter e la britannica Bae Systems. Circa un anno fa la Commissione Ue si è impegnata a consegnare un milione di proiettili di artiglieria all’Ucraina entro la fine di marzo, finora ne sono stati consegnati circa 300mila. La produzione nelle fabbriche militari è al massimo e gli investimenti per potenziare la capacità produttiva richiederanno ancora un paio d’anni per essere completati. Anche i fornitori di esplosivi e propellenti, tra cui la britannica Chemring e la francese Eurenco, sono stati i vincitori. L’italiana Avio Spa, che produce il lanciatore spoaziale Vega, ha visto triplicare a circa il 12% dei ricavi il peso della produzione militare, per i motori dei missili di Mbda. Missili Mbda Mbda è l’azienda missilistica europea partecipata da Bae, Airbus (37,5% ciascuna) e da Leonardo (25%). Dopo essersi assicurato ordini per un valore di 9 miliardi di euro nel 2022, il più grande produttore di missili europeo MBDA, l’anno scorso ha ottenuto contratti per 6 miliardi di sterline per attrezzature di difesa aerea con la Polonia, nonché contratti con Germania e Francia per aumentare la produzione di missili. «Stiamo assistendo a una rapida evoluzione delle minacce sul campo di battaglia che l’industria deve adattarsi ad affrontare. Le attrezzature per la difesa aerea sono molto richieste», ha dichiarato Éric Béranger, amministratore delegato del gruppo. Anche Mbda, che in Italia è guidata da Giovanni Soccodato dopo la nomina di Lorenzo Mariani a condirettore generale di Leonardo, ha avuto una forte espansione degli ordini e del giro d’affari (circa 4,5 miliardi nel 2023). Negli ultimi due anni gli ordini ricevuti sono stati più del doppio dei ricavi e c’è una forte crescita dell’occupazione. Tra i principali produttori, Rheinmetall ha goduto del più grande cambiamento nelle sue fortune. È passata dall’essere trascurata da molti investitori per considerazioni etiche a «star della nuova era della difesa del paese», ha scritto il Financial Times. «Alcuni mesi fa, la gente voleva vietarci, per dire che questa industria è un’industria molto cattiva, è un’industria dannosa», ha dichiarato l’amministratore delegato di Rheinmetall, Armin Papperger, al quotidiano britannico poco dopo l’annuncio del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, nel febbraio 2022 che la Germania avrebbe incrementato con un fondo straordinario di 100 miliardi le spese militari, in risposta all’invasione russa dell’Ucraina. «Ora è un mondo completamente diverso». Quest’anno la Germania dovrebbe per la prima volta raggiungere una spesa di almeno il 2% del Pil. L’Italia ha speso l’1,46% del Pil nel 2023 e ha l’obiettivo di arrivare al 2% entro il 2028. In Borsa le azioni aumentate di più sono quelle di Rheinmetall, azienda che produce cannoni, munizioni, blindati e partecipa alla costruzione del carro armato Leopard, di cui è capofila la Kmw (Krauss-Maffei Wegmann). Le azioni sono salite da 83,06 euro del 2 gennaio 2022 agli attuali 411 euro, con un incremento del 494%, quasi quantuplicate. Rheinmetall si è impegnata ad aumentare la produzione di proiettili di artiglieria, ha acquisito la società spagnola Expal Systems e prevede che le vendite totali raddoppieranno entro il 2026 rispetto all’anno scorso. La svedese Saab, che è una sorta di piccola Leonardo, produce dai caccia (Gripen) ai missili, è stata la seconda per incremento di valore in Borsa, +339% da inizio 2022 al 26 febbraio. La crescita di Leonardo Al terzo posto in questa graduatoria l’ex Finmeccanica, il cui titolo è stato a lungo depresso negli ultimi anni, è decollato quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. A fine 2021 le azioni Leonardo valevano 6,30 euro, il 26 febbraio 19,98 euro, più che triplicate (+217%). «Ha fatto più Putin per il nostro settore che gli amministratori delegati delle aziende degli ultimi 20 anni», osserva in via confidenziale l’a.d. di un’azienda italiana che ha fatto acquisizioni nel Nord America e in Gran Bretagna. Europei meglio degli Usa Seguono per l’andamento in Borsa la britannica Rolls-Royce (+189%), la norvegese Kongsber (+149%), la britannica Bae (+113%), la principale azienda europea del settore. In Borsa le società europee hanno avuto un andamento ampiamente migliore rispetto alle grandi aziende degli Stati Uniti, come Lockheed Martin (+20%), General Dynamics (+29%), Huntington Ingalls (+54%), produttrice di navi militari. La francese Nexter, nel frattempo, ha aumentato la produzione dell’obice Caesar, un cannone a lungo raggio, molto usato dall’esercito dell’Ucraina. L’altra faccia della medaglia dell’andamento così positivo delle aziende europee che producono armi e apparati di difesa è che la spesa europea è frammentata in tanti rivoli nazionali ed è poco efficiente rispetto agli Stati Uniti. In altre parole, in Europa si spende moltoi di più ma con minor efficienza. In particolare negli armamenti terrestri in Europa ci sono 17 sistemi d’arma diversi, negli Stati Uniti sono 4. Si segnala il recente accordo preliminare di Leonardo con Knds, la joint venture che unisce Nexter con Kmw, per collaborare nella produzione di nuovi carri armati, sia i Leopard 2 per sostituire gli Ariete dell’Esercito italiano sia un progetto di collaborazione per nuovi mezzi per l’export. Le parti stanno negoziando per arrivare a chiudere un’intesa finale entro quest’anno. I vertici di Leonardo, l’a.d. Roberto Cingolani e il condirettore generale Lorenzo Mariani, esplorano anche un possibile accordo con Rheinmetall per i blindati. L’obiettivo è sostituire i vecchi Dardo dell’Esercito, il mezzo candidato è il Lynx tedesco (già comprato dall’Ungheria), che verrebbe italianizzato con forniture dell’Oto Melara. Attenta alla partita è anche Iveco Defence (gruppo Iveco-Exor), che collabora con Leonardo nel consorzio Cio per gli armamenti terrestri. Susanne Wiegand, a.d. della bavarese Renk, che produce ingranaggi e trasmissioni per carri armati e fregate, ha affermato che la velocità con cui i governi europei stanno cercando di aumentare le proprie capacità militari incoraggerebbe una maggiore standardizzazione. Ciò contribuirebbe ad affrontare i colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento della difesa e consentirebbe alle aziende di espandersi, ha affermato. La guerra tra Israele e Hamas è stata un “campanello d’allarme” per gli investitori tedeschi, secondo l’a.d. di Renk. La società è stata quotata a Francoforte questo mese, dopo che la società è stata costretta a cancellare l’Offerta pubblica iniziale pianificata lo scorso anno a causa delle condizioni di mercato. A migliorare le prospettive e a riaprire la strada della quotazione sono stati gli effetti dell'attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre scorso e la successiva guerra scatenata da Israele a Gaza».
IL G20 IN BRASILE. LULA: TASSIAMO I RICCHI
Oggi e domani a San Paolo del Brasile riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali del G20. Roberto Ciccarelli per Il Manifesto.
«Il ministro delle finanze brasiliano Fernando Haddad proporrà la tassazione dei grandi patrimoni durante la prima riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali del G20 in programma oggi e domani a San Paolo. «Metteremo sul tavolo una proposta per la tassazione dei super-ricchi basata sulle migliori ricerche disponibili - ha detto il ministro che nel frattempo è risultato positivo al Covid - L’agenda della tassazione della ricchezza e della progressività del reddito è essenziale per affrontare gli ostacoli economici della disuguaglianza». Per l’Italia ci saranno il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e il governatore di Bankitalia Panetta. Una proposta di riforma del sistema internazionale della tassazione era stata già annunciata dal presidente brasiliano Ignacio Lula l’anno scorso, durante la presidenza indiana del G20. «Imposte più elevate sulla ricchezza e sul reddito dei più facoltosi potrebbero generare cospicue risorse, indispensabili - sostiene Misha Maslennikov, policy advisor sulla giustizia fiscale di Oxfam Italia - Negli ultimi decenni la progressività e il potenziale redistributivo del sistema di imposte e trasferimenti si sono notevolmente ridotti. Contestualmente si è ridimensionato il prelievo in capo alle persone più facoltose. Su questo oggi abbiamo bisogno di un’inversione di tendenza. L’iniziativa della presidenza brasiliana del G20 va in questa direzione. I dati mostrano come nel 2022 l’1% più ricco, in termini reddituali, nei paesi del G20 ha percepito 18.000 miliardi di dollari. Un ammontare superiore al pil della Cina. Nei G20, in media, per ogni dollaro di gettito fiscale, meno di 8 centesimi provengono oggi dalle imposte sul patrimonio, mentre più di 32 centesimi (oltre quattro volte tanto) arrivano dalle imposte su beni e servizi che gravano in modo sproporzionato sulle famiglie a basso reddito». In occasione della riunione a San Paolo Oxfam rilancerà la raccolta firme #lagrandericchezza a supporto dell’iniziativa dei cittadini europei per l’istituzione di un’imposta sui grandi patrimoni. «Un’imposta progressiva sui patrimoni netti superiori a 5 milioni di dollari potrebbe generare quasi 1500 miliardi di dollari all’anno per i paesi del G20» sostiene. Il Brasile di Lula si propone anche di proporre misure a sostegno della lotta alla fame, alla povertà e alle diseguaglianze. A tale proposito è stata formalizzata un'«Alleanza globale contro la fame e la povertà», un fondo da 79 miliardi di dollari l'anno a cui si aggiunge il cosiddetto «debt swap» che prevede uno scambio del debito con investimenti e migliori condizioni di accesso al credito e ai finanziamenti. Le ambizioni del G20 brasiliano si incastrano in un’agenda politica ambiziosa. L’anno prossimo Lula presiederà il gruppo BRICS+ (esteso Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti e Iran) e la trentesima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30). In questo quadro il paese che aspira ad essere il capofila del cosiddetto «Sud globale» e a proporre la rinegoziazione del debito estero per i «paesi in via di sviluppo» e una difficile riforma delle istituzioni multilaterali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ambizioni difficili da realizzare, in realtà, considerato il contesto di guerra, di frammentazione e di concorrenza globale tra entità imperiali. Senza contare la debolezza dei BRICS+ non certo omogenei come ha dimostrato l’abbandono dell’Argentina dell’ultraliberista reazionario Milei. I risultati del progetto sono modesti, fino ad oggi. Lula ha mostrato un certo pragmatismo incassando il sostegno della segretaria Usa al Tesoro Janet Yellen che ha sostenuto sia la sua riforma tributaria che ha semplificato il sistema dei prelievi sul consumo, ridotti da cinque a due, sia il progetto di aiutare la transizione energetica di altri paesi con la produzione brasiliana di «idrogeno verde». Il Brasile pensa inoltre di aumentare il fondo per il clima da 10 a 20 miliardi di dollari. Yellen ha detto di sostenere l’ipotesi, avanzata da alcuni Paesi europei, di usare 300 miliardi di beni russi «congelati» per sostenere l’Ucraina. Secondo la Yellen questa azione convincerebbe Putin a «sedersi al tavolo per negoziare una pace giusta con l'Ucraina».
IL PAPA E IL PRIMATO DELLA PACE
Commento di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio, sul Corriere della Sera a proposito dei due anni dall’invasione russa all’Ucraina.
«Due anni di guerra, dall’invasione russa all’Ucraina, hanno messo alla prova la collocazione della Santa Sede, criticata all’inizio dagli ucraini, la parte aggredita. Posizione difficile, anche per la presenza in Ucraina d’una Chiesa cattolica orientale con cinque milioni di fedeli, soppressa violentemente in epoca sovietica. Francesco ha detto più volte la sua vicinanza al dramma ucraino e ha inviato in missione umanitaria i cardinali Kraejwski e Czerny. I cattolici ucraini hanno talvolta accusato il Papa di poca sensibilità verso la loro situazione. Nemmeno con Mosca i rapporti sono stati facili, per il distacco vaticano dalla narrativa bellica russa. Un colloquio via zoom tra il patriarca Kirill e il Papa non è andato bene. L’ha detto al «Corriere». Il contatto è però restato aperto, seppure ora è prevedibile una risposta ortodossa severa alla decisione vaticana a favore della benedizione alle coppie «irregolari» (un intreccio tra religioso e politico). Roma ha una Chiesa di 350.000 fedeli in Russia, astenutasi da discorsi nazionalisti, praticati invece dalle altre comunità religiose. Un’eccezione: il rabbino capo di Mosca, Goldschmidt, che ha lasciato la Russia, per non sostenere l’impegno bellico russo. La posizione di Francesco sul conflitto esprime quella di lungo periodo dei Papi: da Benedetto XV che, nel 1917, definì la guerra «inutile strage», a Pio XII e a papa Wojtyla. La guerra è «una sconfitta di fronte alle forze del male» (Bergoglio): la Santa Sede non ragiona come un tribunale internazionale, ma cerca la via della pace. Tale posizione sempre ha suscitato critiche (a Wojtyla per la contrarietà alle guerre del Golfo), ma costituisce una presenza originale e costruttiva sullo scenario del mondo. Corrisponde alla natura del cattolicesimo, un’internazionale con fedeli in quasi ogni Paese del mondo. Anche da questa strutturazione, oltre che da motivi morali e dall’esperienza secolare, proviene questo «primato della pace». Nel caso ucraino, Francesco mostra che tale posizione non è impassibilità verso un popolo che chiama «martoriato». Ha preso l’iniziativa, inviando il card. Zuppi, guida di una grande conferenza episcopale europea, nelle capitali ucraina e russa, per un contatto diretto e per vicinanza al dramma del conflitto. A Kiev, il cardinale ha incontrato il presidente Zelensky nel giugno 2023. Poi a Mosca ha parlato con il consigliere presidente russo per la politica estera Ushakov e Kirill. Quella che Francesco ha chiamato «offensiva di pace» si è allargata a Washington, dove Zuppi ha incontrato il presidente Biden, e a Pechino, dove ha discusso con le autorità cinesi (i contatti sino-vaticani erano invece fino allora per lo più orientati allo stato della Chiesa in Cina). Non è mancata l’attenzione umanitaria. Si è approntato un meccanismo, che ha dato i primi risultati, per identificare e far rientrare i minori ucraini portati in Russia. Ma, al di là dell’aspetto umanitario, cui la Santa Sede ha lavorato anche con lo scambio di prigionieri, la missione Zuppi ha aperto un canale di contatto, che solo la Turchia o i Paesi del Golfo avevano. Attraverso tale canale è passato il messaggio che, malgrado l’infuriare della guerra, non si rinuncia alla speranza del dialogo. Del resto, c’è oggi un positivo apprezzamento ucraino dell’azione della Chiesa, come mostrano recenti riconoscimenti del governo ai cardinali Parolin e Zuppi. Lo scetticismo di qualche settore occidentale o ecclesiastico verso il Papa o la missione di Zuppi nasce dalla fatica a capire chi non canta con il coro o contro di esso. Manifesta un’incomprensione di fondo sul Vaticano che, anche come realtà in Europa, da sempre rappresenta una terzietà o un’alternativa alla guerra. Ha valore sul lungo periodo, creando spazi e opportunità. È un valore che, durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti di Roosevelt compresero pienamente. Forse lo scetticismo è anche prodotto di una cultura, per cui si fa fatica ad immaginare un futuro diverso dalla guerra. Ma allora vorrà dire una guerra più larga? L’aggressione russa, nella sua gravità, ha eroso la fiducia nel dialogo; ma proprio per questo, l’azione di soggetti, come il Vaticano, può rivelarsi rilevante perché il futuro non sia il tragico abbandono dell’Ucraina (la «dottrina» Trump) o una guerra più grande».
LA CITTÀ IDEALE DI PAPA FRANCESCO
Letture. Padre Antonio Spadaro analizza e commenta sul Fatto un’intervista di papa Francesco a La Carcova News, in cui Bergoglio descrive la sua città ideale. E critica quella “conformazione urbana” in cui migliaia di individui sono messi in condizione di poter vivere il proprio spazio, “ma senza alcun disegno condiviso, senza visione di comunità”.
«Jorge Mario Bergoglio è il primo papa urbano, cioè nato in città, dopo Pio XII, il quale però era nato in una Roma che nel 1876 non era certo una megalopoli. Quando parla e scrive da arcivescovo di Buenos Aires afferma che intende condividere lo sguardo “di uomo che crede che ‘Dio vive nella sua città’ ”. Anzi, precisa, “lo sguardo di fede scopre e crea città”. Le immagini del Vangelo che gli piacciono di più sono quelle che mostrano che cosa Gesù suscita nella gente quando la incontra per la strada. Afferma ancora che “la Buona notizia che il Signore è entrato nella città ci infonde energie e ci fa uscire per strada”. Le immagini della Chiesa che usa di frequente è quella della strada urbana nella quale si inciampa. Dice pure che non si deve vivere rimanendo a balconear la vida, “a guardare dal balcone la vita”. La strada diventa uno spazio religiosamente connotato perché Dio “vive nella città”. Bergoglio parla di “sentirsi ‘incalzati’ da un Dio che già vive nella città, vitalmente mescolato con tutti e con tutto”. Dunque – ha scritto Bergoglio da arcivescovo – passiamo “da un soggetto cristiano che guardava ‘dal di sopra’ la città, modellandola, a un soggetto che è immerso nello shaker dell ’ibridazione culturale e ne subisce le influenze e l’impatto”. Immersione e interazione sono le due chiavi fondamentali dell’immaginario religioso cristiano che forse non è più definibile come “sacro” in quanto non più “separato” dal “profano”, ma immerso e interattivo. Quel che chiede Bergoglio è di “riconnetterci allo ‘specifico cristiano’” per riuscire a dialogare non solamente con “una cultura pagana, di cui si possono discernere i valori con una certa chiarezza”, ma anche “con una cultura ibrida e molteplice come quella che oggi è in gestazione, che richiede più discernimento”. La città è il luogo dei processi dove si vive un intreccio singolare di superiorità del tempo nei confronti dello stesso spazio. La città non è solo spazio/luogo ma soprattutto dinamica di eventi: è il luogo del tempo, non solo dello spazio. E dunque bisogna pensarla non solamente in termini di manipolazione dello spazio, ma anche in quelli di effetti nel tempo. La città dell’uo mo è il luogo dei processi e delle opposizioni polari e viventi. Nel dicembre del 2016, in un suo discorso alle Pontificie Accademie, Francesco ha citato Italo Calvino, che affermava: “Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”. Forse – ha quindi commentato – tante città del nostro tempo, con i loro sobborghi desolanti, hanno lasciato molto più spazio alle paure che ai desideri e ai sogni più belli delle persone, soprattutto dei più giovani. La città può provocare vincolo, coinvolgimento e inclusione, ma può essere luogo che rischia di generare l’anonimato, che è il contrario della appartenenza. Effettivamente Bergoglio parla di città, ma anche di “anti-città” che sono Babele e Babilonia: la prima, “sogno interrotto”, “città autosufficiente che tocca il cielo”, e la seconda “l’anti-città consolidata che si estende sulla terra”. Proprio esse “esprimono le paure e le angosce dell’uomo che sente di partecipare alla costruzione dell’anti-città che lo divora”. Come cresce l’anti-città? Cresce con il “non sguardo”, col nemmeno “vedere l’escluso” per cui alla fine “chi dorme per strada non viene visto come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, della spazzatura”. Nell ’anti-città si perdono le opportunità di incontro e scambio sociale. La “città umana” invece “cresce con lo sguardo che ‘vede’ l’altro come concittadino. In questo senso lo sguardo di fede è fermento per uno sguardo cittadino”. Essere sulla strada permette di riconoscere il volto dell’altro strappandolo spazio al buco dei “non luoghi” e della noia dell’architettura seriale. Nella sua Laudato si’ Francesco parla della sensazione di soffocamento prodotta dalle agglomerazioni residenziali e dagli spazi ad alta densità abitativa privi di armonia. L’affollamento e l’anonimato sociale che si vivono nelle grandi città possono provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza. L’anti-città è una conformazione urbana in cui migliaia di individui, famiglie e gruppi sono messi in condizione di poter costruire il loro spazio di vita, ma senza alcun disegno condiviso, senza disporre di un progetto di una visione di città, né di comunità. Questa sensazione viene contrastata se si sviluppano relazioni umane di vicinanza e calore, se si creano comunità, legami di radicamento, di appartenenza, di convivenza. I limiti ambientali, caratterizzati da disordine e precarietà, dove le facciate degli edifici sono molto deteriorate, possono essere compensati grazie a una vita sociale positiva e benefica degli abitanti che costruiscono una rete di comunione e di appartenenza, la quale “diffonde luce in un ambiente a prima vista invivibile”. In tal modo, qualsiasi luogo smette di essere un inferno e diventa il contesto di una vita degna. Uno degli aspetti più importanti della critica di Bergoglio alla realtà riguarda il dramma dello svuotamento dei rapportie dei legami. Questo per lui è il vero dramma di un popolo, oggi favorito dallo sradicamento spaziale delle grandi città. I quartieri “esplodono” dall ’interno, mentre essere popolo significa anche “abitare insieme lo spazio”, aprire insieme gli occhi su ciò che ci circonda nell’ambito del quotidiano. La città deve essere “casa comune”, ed è necessario stabilire un rapporto tra la comunità e la forma dello spazio che la comunità abita e che deve sentire la città come orizzonte comune della vita quotidiana. La geometria dello spazio urbano si compone di “centro” e “periferia”. Sono concetti astratti che però fanno riferimento a una concretezza locale/spaziale relativa. Si definiscono reciprocamente: non c’è centro senza periferia, non c’è periferia senza centro. Ma non c’è solamente un significato spaziale. Centro e periferia sviluppano due campi semantici: il centro richiama l’importanza, la visione a 360 gradi, il riferimento spaziale; la periferia richiama la marginalità, la distanza, la parzialità, il riferimento a qualcosa che non è sé stessa. Ha detto il Papa in una intervista a La Carcova News: “Quando parlo di periferia parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, danuoviposti, daqueste periferie, vediamo che la realtà è diversa”. E prosegue: “La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; comincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce”. Bergoglio, dunque, lavora su entrambi i livelli: il livello spaziale e il livello simbolico e semantico. Bisogna lavorare su questi due livelli insieme. Per lui, dunque, la periferia è un punto di vista, una visione del mondo accurata e precisa. Francesco ne è convinto: “Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. Per capire, ci dobbiamo ‘scollocare’”».
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