Visite al fronte
Vigilia di tensione in Ucraina. Putin e Zelensky visitano le prime linee. Macron prepara un piano di pace. Bufera sulla "sostituzione etnica" citata da Meloni: non sono solo parole, si vota il decreto
Il conflitto in Ucraina vive una fase di grande tensione. Come se fossimo alla vigilia di una svolta decisiva sul terreno bellico. Ieri Vladimir Putin ha visitato la città occupata di Kherson. Mentre Volodymyr Zelensky ha voluto andare fra i suoi soldati al fronte nel Donbass. La battaglia di Bakhmut prosegue ancora in queste ore ma non ci sono evidenze sul suo controllo militare. Si è allentata la tensione sul fronte del grano, perché è stata raggiunta un’intesa fra Kiev e Varsavia, dopo le proteste dei Paesi dell’Est europeo. La fuga di notizie del Pentagono ha provocato un cambiamento nel comportamento dell’Egitto. Sospettato di voler mandare segretamente i missili alla Russia, il regime di Al Sisi li indirizzerà invece all’Ucraina. Potere delle “talpe”... Emmanuel Macron ha incaricato intanto un gruppo di sherpa dell’Eliseo a lavorare per un piano di pace, che porti ad un cessate-il-fuoco. Ieri, dopo le indiscrezioni di Repubblica, Bloomberg ha rilanciato questa notizia. Sempre Repubblica propone integralmente in italiano il saggio dei due esperti americani, Haass e Kupchan, comparso su Foreign Affairs. In esso si suggerisce di rivedere la strategia di sostegno all’Ucraina non avendo più come unico orizzonte l’abbattimento del regime di Putin ma l’offerta di un accordo di sicurezza formale all’Ucraina. L’impressione è che il saggio a doppia firma sia in linea con alcune delle cose dette nelle scorse settimane dal capo di stato maggiore Usa Mark Milley e condivise da diversi membri dell’amministrazione americana.
In Italia la polemica è ancora tutta centrata sul tema migranti. A scatenarla due parole associate che sono state usate dal ministro Francesco Lollobrigida e dalla premier Giorgia Meloni, ieri all’inaugurazione del Salone del Mobile: “Sostituzione etnica”. L’espressione suona inquietante perché, inventata in Francia dodici anni fa, implica l’idea di un complotto internazionale contro i bianchi occidentali che sarebbero soppiantati dall’ “invasione” (altro termine discutibile) dei migranti dai Paesi poveri e in guerra. Un’espressione usata anche in alcuni episodi di volenza razzista, in giro per il mondo. È una bandiera del sovranismo populista, quella tendenza ideologica particolare che ha egemonizzato gran parte della cultura conservatrice occidentale, e che ha nel trumpismo la sua espressione più estrema ed estremista. Quando il premier inglese Sunak deporta i richiedenti asilo in Ruanda che approdano in GB mette in pratica questa tendenza, che poco a che fare con la tradizione di Churchill e della Thatcher.
Non è una questione di linguaggio politicamente corretto. L’abolizione della “protezione speciale” per 10 mila stranieri, che abbiamo accolto e fatto lavorare nel nostro Paese, così come viene proposta nell’emendamento al decreto Cutro oggi in discussione alla Camera, non è propaganda o retorica. È una misura molto concreta, di una violenza evidente. Come ricorda Marco Tarquinio nell’editoriale di Avvenire.
Sergio Mattarella (vedi Foto del giorno) è andato ad Auschwitz, nel giorno della “Marcia dei vivi”, insieme a tre scolaresche italiane e alle sorelle Bucci, fra le ultime persone viventi sopravvissute al lager nazista. Ed ha ricordato le responsabilità dei regimi fascisti che furono complici del folle sterminio del Reich nazista. In quel lager, come ricorda Primo Levi, si discriminavano i non ariani come “untermensch”. Oggi la tentazione di dividere il mondo in uomini e sotto uomini, sotto uomini che non hanno diritti, fatalmente riaffiora.
Nella Versione di oggi c’è infine un piccolo capitolo dedicato alla Cina, che comprende un lungo saggio di Thomas L. Friedman per il New York Times, davvero interessante. Come paragonarsi con Pechino? Guerra fredda o competizione commerciale? E non si tratta solo di TikTok.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Sergio Mattarella in visita al campo di Auschwitz, in Polonia. Per la “Marcia dei vivi” presenti ieri migliaia di studenti provenienti da ogni parte del mondo. C'era anche una delegazione di tre scuole superiori italiane. Il Presidente è stato accompagnato, nella sua visita, dalle sorelle Bucci, tra le poche testimoni ancora in vita dell'orrore dell'Olocausto.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La guerra e la polemica sui migranti sono in primo piano. Il Corriere della Sera apre sulla: Prova di forza di Putin. Ma il tema che prevale è quello scatenato dalle frasi della premier Giorgia Meloni e del Ministro Francesco Lollobrigida. La Repubblica sceglie: La difesa della razza. La Stampa privilegia le virgolette: «Sostituzione etnica». Bufera su Lollobrigida. Il Manifesto osserva con un gioco di parole: Che razza di governo. Avvenire invoca un: Argine all’intolleranza. Per il Quotidiano Nazionale la questione è quella delle pari opportunità: Migranti e lavoro, Meloni: prima le donne. Il Domani esalta la visita di Sergio Mattarella ad Auschwitz: «Carnefici nazisti, complici fascisti». Mattarella insegna la storia a Meloni. Il Giornale attacca la segretaria del Pd: La Schlein in fuga. Il Fatto si concentra sullo stretto di Messina: L’Anac: «Il Ponte è un favore a Salini a danno dello Stato». Il Sole 24 Ore ci aggiorna sul 110: Superbonus, per imprese e banche più facile compensare i crediti d’imposta. Il Messaggero sottolinea le richieste di Fitto a Bruxelles: Pnrr, l’Italia chiede più soldi. La Verità insiste sui temi No Vax: «Vaccino pericoloso, lo sequestro». Speranza provò a fermare il pm.
ZELENSKY E PUTIN VISITANO IL FRONTE DI GUERRA
Le ultime dalla guerra in Ucraina. Il clima è quello di una vigilia di preparativi in vista di grandi svolte del conflitto. Vladimir Putin ha visitato la città occupata di Kherson. Volodymyr Zelensky è stato dai suoi soldati nel Donbass. Intesa Varsavia-Kiev sul passaggio del grano, dopo le proteste dei contadini. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«A prima vista verrebbe naturale mettere sullo stesso piano le due visite al fronte compiute a poche ore di distanza rispettivamente da Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Se non fosse per il fatto che si sono recati in luoghi opposti, ma non speculari, dei campi di battaglia, sarebbe logico presentare l’evento come l’incarnazione nei corpi e nei gesti dei due presidenti avversari della sfida senza esclusione di colpi tra Russia e Ucraina a 14 mesi dall’inizio della guerra. Ma la realtà appare più complessa, proprio per il fatto che a questo punto le posizioni dei due non sono affatto speculari. Detta molto semplicemente: Putin oggi è sulla difensiva (la stessa data della visita non è certa), mentre Zelensky sta per contrattaccare. Il presidente russo ha perso l’iniziativa che si era arrogato lanciando l’invasione (non provocata) delle sue truppe sul suolo ucraino il 24 febbraio 2022 con il piano di eliminare l’avversario tramite la brutale forza militare. Mirava a vincere tutto entro poche settimane, ma oggi si ritrova a dover proteggere le sue conquiste: la sua offensiva dell’inverno è impantanata nei fanghi del disgelo primaverile, le sue truppe combattono una sanguinosa battaglia a Bakhmut che, se anche vincessero avanzando tra le macerie degli ultimi quartieri occidentali, cambierebbe ben poco degli equilibri militari. Così, la sua visita lunedì tra le langhe della zona orientale di Kherson (quella occidentale se l’è vista portare via dagli ucraini in novembre) e poi a Lugansk ricorda da vicino quella notturna compiuta un mese fa tra le rovine disperate di Mariupol, dove ancora i lavori di cosmesi per la ricostruzione dei palazzi del centro non riescono a nascondere lo scempio provocato dalle bombe russe. La cruda realtà resta che Putin è andato a rassicurare soldati e comandanti di fronte alla prospettiva, tutt’altro che remota, per cui i tank Nato ultimo modello, uniti al meglio dell’artiglieria, dei mortai e dei droni prodotti dalle aziende occidentali, potrebbero travolgere il suo esercito. Non a caso Kherson è la porta per la Crimea: l’anno scorso gli ucraini non l’avevano difesa perché costretti a fare barriera per impedire l’arrivo a Kiev delle colonne nemiche scese dalla Bielorussia. Ma oggi la situazione appare diversa: i russi da novembre scavano trincee, erigono bunker, minano i campi come forsennati. E lo stesso avviene a Lugansk: un anno fa era visto come la piattaforma di lancio delle truppe russe, che avrebbero dovuto unirsi a quelle in arrivo da Kharkiv e dunque irrompere nel centro del Paese verso Dnipro; ma è dalla riconquista ucraina a settembre di Izyum e Lyman che anche qui i russi stanno arroccandosi in vista del grande contrattacco nemico. Da qui, il significato della visita di Zelensky ieri ad Avdiivka. La cittadina è parte integrante del sistema difensivo ucraino costruito nel 2014 per fermare la guerriglia filorussa. Un mese e mezzo fa, logorati dalla sfida per Bakhmut, i comandi di Mosca hanno provato a conquistarla con martellanti bombardamenti. I risultati sono stati però meno che scarsi. E ieri il messaggio del presidente ai suoi soldati è stato chiaro: resistete ancora un poco, dateci il tempo di organizzare l’offensiva, presto da Avdiivka andremo a liberare tutto il Donbass. Nel frattempo una nota positiva dalla Polonia: Varsavia e Kiev hanno raggiunto un accordo sulla ripresa del transito dei cereali ucraini, sospeso da sabato dopo che le scorte di grano si sono accumulate in Polonia, facendo crollare i prezzi locali, portando alle proteste degli agricoltori e alle dimissioni del precedente ministro dell’Agricoltura polacco. «Siamo riusciti a mettere in atto meccanismi che assicureranno che le merci passino attraverso la Polonia ma che nel Paese non rimanga una sola tonnellata di grano», ha spiegato il neo ministro dell’Agricoltura polacco, Robert Telus».
MACRON LAVORA AD UN PIANO DI PACE
In Francia si sta lavorando ad un piano di pace, dopo la recente visita di Emmanuel Macron a Pechino. Lo scrive Anais Ginori su Repubblica. E ieri lo ha confermato anche Bloomberg.
«All’Eliseo non vogliono sentir parlare di “piano francese” per la pace. Ma la sostanza non cambia: Emmanuel Macron ha chiesto alla diplomazia transalpina di attivarsi per «studiare tutti i parametri» sulla base dei quali si potrebbe ritornare a colloqui tra Russia e Ucraina. Il lavoro degli sherpa, anticipato da Repubblica e ieri rilanciato da Bloomberg, è cominciato prima della visita in Cina e continua ora su basi più solide, spiegano nell’entourage del capo di Stato dove c’è sempre la convinzione che la sponda di Pechino sia essenziale per fare leva su Mosca. Era l’obiettivo non tanto nascosto del viaggio in Cina del leader francese, il sottotesto della sua intervista a Politico che ha scatenato tante polemiche per le dichiarazioni su Taiwan. L’assenza di risultati visibili, secondo l’Eliseo, non deve trarre in inganno: dietro le quinte Macron ha incaricato il suo consigliere diplomatico Emmanuel Bonne di collaborare con l’alto diplomatico cinese Wang Yi per stabilire una proposta che potrebbe essere utilizzata come base per futuri negoziati tra Mosca e Kiev. Una notizia non confermata da Pechino anche se in precedenza le autorità cinesi avevano detto di apprezzare il ruolo della Francia per trovare soluzioni alla crisi. Da Mosca invece è arrivata una comunicazione laconica: «Non siamo a conoscenza di un piano francese», ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitriy Peskov. I vari momenti bilaterali tra Macron e Xi Jinping sono serviti a consolidare «approcci comuni» ha detto il leader francese al ritorno, pur riconoscendo che nel conflitto in Ucraina ora prevale una fase militare e nessuna delle due parti ha davvero interesse a fermarsi e trattare. «Non è il momento dei negoziati » ha ammesso Macron per poi aggiungere : «Anche se li prepariamo e, se necessario, ne gettiamo le basi». L’ambizione francese prevede che i colloqui tra Russia e Ucraina si svolgano già quest’estate. L’attivismo di Macron, precisano all’Eliseo, avviene in «coordinamento» con gli alleati della Francia che - vien sottolineato- sono stati informati delle varie iniziative diplomatiche. I dettagli del dialogo in corso tra sherpa di Parigi e Pechino sono stati condivisi con gli americani. Nulla di più preciso emerge al momento sulla possibile proposta per rilanciare i negoziati. Macron continua a sostenere ufficialmente il piano presentato da Volodymyr Zelensky in dieci punti e a considerare quello presentato invece da Xi con gravi lacune, a cominciare dalla mancanza di condanna dell’aggressione russa, ma anche con possibili convergenze. Da Washington resta il sospetto che l’impegno cinese per la pace non sia così serio ma in qualche modo Macron è stato delegato per andare a scoprire l’eventuale bluff. Un primo test per confermare la buona volontà di Pechino sarebbe la telefonata di Xi a Zelensky, che il presidente cinese si sarebbe impegnato a fare durante le sue discussioni con il leader francese. «Voltare le spalle alla Cina non è nel nostro interesse », dice intanto Ursula von der Leyen, intervenendo durante la settimana di sessione plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo. La presidente della Commissione Ue, presente per una giornata durante il viaggio a Pechino di Macron, ha continuato: «Dobbiamo elaborare un nostro approccio europeo e avere un quadro chiaro nell’approccio con la Cina».
LA GRANDE TRIANGOLAZIONE DEL PETROLIO
Come si aggira il blocco del petrolio? L’Occidente ha aumentato i traffici con Paesi che però comprano dalla Russia. Stop al greggio, ma boom dei prodotti raffinati (+94%), anche verso l’Italia. L’analisi di Federico Fubini sul Corriere.
«Nell’ultimo anno, mese dopo mese, i ricavi da gas e petrolio delle aziende di Mosca sono scesi costantemente. In aprile scorso il regime di Vladimir Putin fatturava oltre 1,1 miliardi di euro al giorno da fonti fossili, oggi la metà. Eppure non tutto sta andando come immaginavano i governi occidentali, quando hanno imposto il regime di ritorsioni più vasto mai concepito contro una delle maggiori economie al mondo. Non avevano immaginato, in particolare, che proprio i Paesi democratici — Italia inclusa — sarebbero diventati protagonisti di un massiccio sistema di aggiramento delle sanzioni contro il petrolio russo. La dimensione del fenomeno emerge in un rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea) di Helsinki, un think tank che nell’ultimo anno si è dedicato allo studio dell’export di materie prime dalla Russia. Quel che sta accadendo è tecnicamente legale, non risultano in alcun punto della filiera operazioni clandestine o false fatturazioni. C’è però un reticolo di triangolazioni con i grandi Paesi emergenti, che permette a Unione europea, Gran Bretagna, Australia, Stati Uniti e Giappone di violare nella sostanza le misure sul petrolio russo. Se l’intenzione era ridurre le entrate con cui il Cremlino finanzia la guerra, i Paesi democratici stanno agendo in contraddizione con i loro stessi obiettivi. Il centro studi Crea ricostruisce la curvatura che hanno preso gli scambi dall’inizio della guerra e da quando l’Europa ha proibito l’importazione di greggio di Mosca. Dall’avvio dell’aggressione all’Ucraina, le quantità trasportate dalle petroliere prevenienti dai porti russi esplodono del 140% verso cinque Paesi che non applicano le sanzioni: Cina, India, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Singapore. In parallelo, questi cinque Paesi aumentano fortemente le spedizioni di prodotti raffinati — diesel gasolio e carburante per aerei — verso tutti i principali Paesi che, invece, tengono la Russia sotto sanzioni. Le spedizioni di derivati del petrolio dalla Cina verso i sistemi democratici crescono nell’ultimo anno del 94%; quelle dalla Turchia del 43%; quelle da Singapore del 33% e dagli Emirati Arabi Uniti del 23%. Nel complesso, nel primo anno di guerra, avviene quello che il centro studi Crea definisce un «riciclaggio» del greggio russo attraverso le potenze emergenti e verso le democrazie, con un aumento delle vendite di prodotti raffinati per 10 milioni di tonnellate e 18,7 miliardi di euro. Gran parte dell’aumento si registra dopo il 5 dicembre scorso, quando scatta l’embargo europeo e le democrazie del G7 indicano un tetto di 60 dollari al barile per l’acquisto di greggio russo per chi non applica le sanzioni. Fra il 5 dicembre e il 24 febbraio scorso le democrazie importano quasi 13 milioni di tonnellate di prodotti raffinati dai Paesi che Crea definisce «riciclatori», per 9,5 miliardi di euro. Nel primo anno di guerra l’Italia ha comprato da quelle cinque potenze emergenti 1,9 milioni di tonnellate di carburanti, in buona parte derivati da greggio russo. Ma i primi di questa classifica sono (nell’ordine) Australia, Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Olanda e Francia. L’obiettivo non è approfittare di sconti derivanti dal tetto al prezzo. Semplicemente, gli importatori delle democrazie cercano forniture in un mercato in tensione. Del resto l’intero G7 si sta muovendo in un territorio inesplorato. Non era mai accaduto nel dopoguerra che un programma di sanzioni commerciali a tappeto fosse diretto contro una grande economia così profondamente integrata negli scambi internazionali. Gli altri Paesi colpiti da sanzioni altrettanto vaste — Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Iran — sono tutti più o meno ai margini della globalizzazione. Colpire la Russia senza far emergere contraddizioni è più difficile. Ma il centro studi Crea ha un suggerimento: proibire l’import in Europa di carburanti da raffinerie che ricevono greggio russo o costringerle a documentare l’origine».
GLI ESPERTI USA: “CAMBIAMO STRATEGIA SULLA GUERRA”
Il saggio su Foreign Affairs ha già fatto il giro del mondo: in esso Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, e Charles Kupchan, Senior Fellow del Council on Foreign Relations e docente di Relazioni internazionali alla Georgetown University, sostengono che va cambiata la strategia occidentale nei confronti dell’Ucraina. Oggi lo stampa informa integrale La Repubblica.
«A poco più di un anno dallo scoppio, la guerra per l’Ucraina sembra essere andata molto meglio di quanto previsto da molti. Lo sforzo della Russia è fallito. L’Ucraina resta una democrazia indipendente e funzionante che ha mantenuto circa l’85% del territorio che controllava prima dell’invasione russa del 2014. Il risultato più probabile del conflitto sarà uno stallo sanguinoso. Ma non ci sono ancora le condizioni per un accordo negoziale. L’Occidente deve trovare un approccio che riconosca queste realtà senza sacrificare i propri principi. Il modo migliore è adottare una strategia sequenziale a due punte rivolta dapprima a potenziare le capacità militari dell’Ucraina e poi, fra qualche mese, ad accompagnare Mosca e Kiev dal campo di battaglia al tavolo negoziale. L’Occidente dovrebbe iniziare accelerando immediatamente l’invio di armi all’Ucraina. Al termine dell’offensiva ucraina, Kiev potrebbe guardare con più favore a una soluzione negoziale. La seconda punta della strategia occidentale dovrebbe consistere nello sviluppo, fra qualche mese, di un piano per ottenere un cessate il fuoco e poi un processo di pace, con l’obiettivo di mettere fine in modo permanente al conflitto. Ma questo stratagemma diplomatico potrebbe facilmente fallire. Al momento una soluzione diplomatica del conflitto è fuori portata. Il presidente russo Vladimir Putin probabilmente teme che, se smettesse ora di combattere, i russi lo accuserebbero di aver intrapreso una guerra costosa e inutile. La Nato è più grande e più forte di prima e l’Ucraina è più che mai ostile alla Russia. Putin calcola di poter sopravvivere alle sanzioni economiche, che non sono riuscite a strangolare l’economia russa, e di poter mantenere il sostegno alla guerra ancora vista, nei sondaggi del Levada Center, con favore dal 70% dei russi. Anche l’Ucraina non sembra propensa a trattare e ha buone ragioni per dubitare che Putin rispetterà un accordo di pace. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno fornito intelligence, addestramento e hardware, ma non sistemi militari di grande portata, temendo di provocare un’ escalation da parte russa. Ma allargare il conflitto non sarebbe nell’interesse della Russia. Neppure ricorrere alle armi nucleari le darebbe un vantaggio: porterebbe la Nato a entrare in guerra e potrebbe anche alienarle le simpatia di Cina e India. È quindi ora che l’Occidente inizi a dare all’Ucraina carri armati, missili a lungo raggio e le altre armi necessarie a riprendere, nei prossimi mesi, il controllo di molte parti del suo territorio. I missili a lungo raggio – il sistema Atacms, che gli Stati Uniti finora si sono rifiutati di fornire – permetterebbero all’Ucraina di colpire postazioni nel territorio occupato dai russi. L’esercito americano dovrebbe anche iniziare ad addestrare i piloti ucraini sugli F-16. È possibile che la prossima offensiva ucraina permetta al Paese di riconquistare tutti i territori occupati, determinando la sconfitta completa della Russia. Possibile ma improbabile. Inoltre, se la posizione militare di Mosca dovesse diventare precaria, è possibile che la Cina fornisca armi alla Russia, direttamente o tramite Paesi terzi. Il presidente cinese Xi Jinping ha fatto una grossa scommessa a lungo termine su Putin e il suo Paese si sta già allontanando dall’Occidente e la politica americana nei confronti della Cina sembra comunque destinata a irrigidirsi. Probabilmente nei prossimi mesi si raggiungerà uno stallo lungo una nuova linea di contatto. Anche nei panni dell’Ucraina, sarebbe poco saggio continuare a puntare ostinatamente alla completa vittoria militare. Alla fine di questa stagione di combattimenti, anche gli Stati Uniti e l’Europa avranno delle buone ragioni per voler smettere di sostenere l’Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”, come ha detto il presidente Biden. Preservare l’Ucraina è una priorità, ma non è necessario che il Paese recuperi nel breve termine il pieno controllo di Crimea e Donbass. I Paesi Nato non possono escludere la possibilità di uno scontro diretto con la Russia, e gli Stati Uniti devono tenersi pronti per possibili azioni militari in Asia (come deterrenza o in risposta a qualunque mossa cinese contro Taiwan) e nel Medio Oriente. La guerra sta imponendo alti costi anche all’economia globale. L’Ocse stima che nel 2023 la guerra produrrà una riduzione dell’output economico globale di 2.800 miliardi di dollari. Washington deve affrontare pressioni crescenti verso una riduzione della spesa. Ora che i Repubblicani hanno preso il controllo della Camera dei rappresentanti, per l’amministrazione Biden sarà più difficile assicurarsi pacchetti di aiuti sostanziosi per l’Ucraina. E nel 2024, se i Repubblicani vincessero la corsa alla Casa Bianca, l’atteggiamento verso l’Ucraina potrebbe cambiare radicalmente. È tempo di pensare a un piano B. Washington dovrebbe iniziare le consultazioni con i suoi alleati europei e con Kiev per lanciare un’iniziativa diplomatica fra qualche mese. Ucraina e Russia dovrebbero ritirare truppe e armamenti pesanti dalla nuova linea di contatto, creando una zona demilitarizzata. Un’organizzazione neutrale – Onu o Ocse – dovrebbe inviare osservatori per far rispettare il cessate il fuoco. E se la Cina dovesse rifiutare di approvarlo, i ripetuti appelli di Xi per un’offensiva diplomatica sarebbero smascherati. Dovrebbero seguire i negoziati di pace, su due binari paralleli. Il primo riguarderebbe i colloqui diretti fra Ucraina e Russia. Il secondo, il dialogo strategico fra alleati della Nato e Russia sul controllo degli armamenti e la più ampia architettura di sicurezza europea. E se la Russia dovesse rifiutare il cessate il fuoco (o accettarlo e poi violarlo) la sua intransigenza ne acuirebbe l’isolamento diplomatico e rafforzerebbe il sostegno popolare all’Ucraina in Usa ed Europa. Un altro risultato possibile è che la Russia accetti il cessate il fuoco per mettersi in tasca le rimanenti conquiste territoriali ma non abbia poi intenzione di negoziare in buona fede un accordo per una pace durevole. L’Ucraina entrerebbe nel negoziato esponendo le proprie priorità: il ripristino dei confini del 1991, risarcimenti consistenti e la responsabilità per i crimini di guerra. Ma, dato che Putin sicuramente respingerebbe queste richieste, ne scaturirebbe uno stallo prolungato che produrrebbe in pratica un nuovo conflitto congelato. In tal caso, idealmente, il cessate il fuoco dovrebbe reggere. Non un risultato ideale, ma sarebbe comunque preferibile rispetto a una guerra ad alta intensità protratta per anni. Convincere Kiev a un cessate il fuoco potrebbe essere difficile quanto convincere Mosca. Zelensky dovrebbe ridimensionare i suoi obiettivi bellici ma a Kiev non verrebbe chiesto o consigliato di abbandonare l’obiettivo di riprendersi tutti i suoi territori. Il piano prevede infatti di rimandare la definizione dello status delle terre e dei cittadini ancora soggetti all’occupazione russa. Kiev dovrebbe accettare che il recupero dell’integrità territoriale sia subordinato a una svolta diplomatica, possibile solo quando Putin non sarà più al potere. Nel frattempo, i governi occidentali potrebbero promettere di revocare completamente le sanzioni contro la Russia e di normalizzare le relazioni solo se Mosca firmasse un accordo di pace accettabile per Kiev. E gli Stati Uniti potrebbero dire chiaramente a Kiev che, se Putin dovesse violare il cessate il fuoco, incrementerebbero il flusso di armi ed eliminerebbero le restrizioni imposte alla capacità dell’Ucraina di colpire le posizioni militari in territorio russo. Se invece Putin dovesse rifiutare l’opportunità di porre fine alla guerra, i governi occidentali otterrebbero di nuovo il consenso popolare necessario per fornire ulteriore sostegno all’Ucraina. Come ulteriore incentivo all’Ucraina, l’Occidente dovrebbe offrire un accordo di sicurezza formale. Accanto a questo, l’Unione Europea dovrebbe stendere un accordo di sostegno economico a lungo termine e proporre una scala temporale per l’ammissione dell’Ucraina nell’Unione. Kiev potrebbe comunque rifiutare il cessate il fuoco, ma il supporto diventerebbe insostenibile per Stati Uniti ed Europa, specialmente nel caso in cui la Russia dovesse accettarlo. Per più di un anno l’Occidente ha permesso all’Ucraina di definire i suoi obiettivi bellici. Questa politica oggi ha fatto il suo tempo perché i costi della guerra stanno lievitando. Ma esiste una via d’uscita percorribile per sfuggire a questa impasse. L’Occidente dovrebbe fare di più ora per mettere Kiev nella migliore posizione possibile per affrontare il tavolo dei negoziati. Nel frattempo, Washington dovrebbe predisporre un percorso diplomatico che garantisca la sicurezza e la sopravvivenza dell’Ucraina all’interno dei suoi confini di fatto, pur adoperandosi per ripristinarne a lungo termine l’integrità territoriale».
L’EGITTO MANDA RAZZI A KIEV, DOPO LA FUGA DI NOTIZIE
Maurizio Stefanini su Libero nota come la fornitura di razzi egiziani sia stata dirottata da Mosca (cui era segretamente destinata) a Kiev, dopo la pubblicazione dei “leaks” del Pentagono.
«Dopo aver iniziato a produrre razzi per Mosca, adesso l’Egitto ha deciso invece di fornire munizioni a Kiev. È una situazione che sta portando a evoluzioni imprevedibili quella della guerra in Ucraina, e così assieme al caso di Paesi già simbolo del neutralismo che chiedono di entrare nella Nato con governi di sinistra tipo Svezia o Finlandia; assieme a un Brasile in cui Lula prima esordisce nella presidenza col farsi una foto con Biden e poi si schiera sempre più con la Russia; assieme all’India che fa affari con la Russia ma stringendo legami militari con l’Occidente; assieme a una Turchia che fa affari con la Russia ma arma l’Ucraina; abbiamo anche queste giravolte di al-Sisi. È vero: forse non del tutto spontanee. È infatti il Washington Post a scrivere: «L’Egitto ha sospeso un piano per fornire segretamente razzi alla Russia il mese scorso a seguito di colloqui con alti funzionari statunitensi. Ha quindi deciso di produrre munizioni di artiglieria per l’Ucraina, secondo cinque documenti di intelligence statunitensi trapelati». Ma lo stesso Washington Post una settimana fa aveva tirato fuori un altro documento che «rivelava un piano segreto del presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi, a febbraio, per fornire alla Russia fino a 40.000 razzi Sakr-45 da 122 mm, che possono essere utilizzati nei sistemi di lanciarazzi multipli», aggiungendo che «Sisi ha incaricato i suoi subordinati di mantenere segreto il progetto “per evitare problemi con l’Occidente”». Invece il segreto era saltato, così come quello sulla evoluzione successiva. I nuovi documenti, che il Washington Post ha ottenuto da materiale presumibilmente pubblicato sulla piattaforma Discord dalla talpa scoperta nei giorni scorsi, «sembrano mostrare Sisi all’inizio di marzo fare marcia indietro rispetto ai precedenti piani per rifornire Mosca, una scelta che avrebbe rappresentato uno smacco verso il più generoso alleato occidentale del Cairo, gli Stati Uniti». Spiega sempre il quotidiano che «Washington ha cercato di arruolare nuovi sostenitori e ottenere munizioni di cui aveva un disperato bisogno per la lotta di Kiev contro le forze russe». L’Egitto intendeva utilizzare la sua capacità di produrre armi per l’Ucraina come leva per ottenere articoli militari statunitensi avanzati. «Nel loro insieme, i documenti forniscono una nuova visione della diplomazia cauta, ma allo stesso tempo ad alto rischio, dell’amministrazione Biden con i paesi che hanno cercato di rimanere ai margini dell’intensificarsi della situazione di stallo di Washington con Mosca. Mostrano anche come la grande competizione per il potere abbia permesso all’Egitto di cercare nuovi vantaggi mentre il suo rapporto con gli Stati Uniti diventa meno cruciale: più meno come la Turchia». Viene dunque il dubbio su quali possano essere state le vere cause della fuga di notizie. Una cosa di battitori liberi, alla Assange? Lo spionaggio russo? Una precisa manovra Usa per bloccare un alleato sleale? Una filtrazione pilotata dallo stesso al-Sisi apposta per tirare avanti il ricatto? Nel documento reso noto una settimana fa il presidente egiziano parla con qualcuno di nome Salah al-Din. Secondo il Washington Post potrebbe essere Mohamed Salah al-Din, segretario di Stato per la produzione militare. Questo Salah al-Din suggerisce che i dipendenti faranno gli straordinari se necessario, poiché «è il minimo che potessimo fare per gli aiuti passati della Russia», senza specificare a quali aiuti si riferissero. La stessa intercettazione riportava l’affermazione dei militari che «i russi compreranno qualsiasi cosa» in termini di armi e munizioni. L'ambasciatore Ahmed Abu Zeid, portavoce del ministero degli Esteri egiziano, aveva risposto alle richieste di chiarimento del giornale sostenendo che «la posizione dell’Egitto fin dall’inizio è di non intervento (...) per mantenere una pari distanza con entrambe le parti». Da ricordare che l’Egitto, grande importatore di generi alimentari, è stato molto danneggiato per i problemi all’export ucraino provocati dalla guerra».
“PIÙ FIGLI, NO ALLA SOSTITUZIONE ETNICA”
Veniamo alle vicende italiane. “Meno migranti, più figli no alla sostituzione etnica”. Sono diventate un caso le parole usate dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro Francesco Lollobrigida. Elly Schlein osserva: “Parole da suprematista bianco”. Romano Prodi chiosa: “Livelli brutali”. Il M5S condanna: “Propaganda razzista”. Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Fare più figli, dice Giorgia Meloni davanti alla platea internazionale della fiera di Rho; farne di più per evitare la “sostituzione etnica”, sono le parole in contemporanea del cognato e ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, al congresso della Cisal. Frasi che scatenano una tempesta, mai udite da chi siede al governo. Roba da «suprematista bianco», attacca la segretaria dem Schlein, «livelli brutali per Romano Prodi. Il Movimento di Conte parla a chiare lettere di “razzismo”. Si consuma tutto nel giro di poche ore. Come se ci fosse una regia coordinata. Invece è più banalmente la ripetizione di un concetto caro alla destra tricolore, in fondo in linea con la sua storia più arcaica. Quella più nera, che i Fratelli d’Italia faticano a sbiacchetare, pur frequentando ormai le stanze di Palazzo Chigi. Si parte dal necessario aumento della natalità. «In Italia — dice la presidente del Consiglio arrivando al Salone del Mobile, circondata da una bolgia di cronisti e telecamere, ma anche dalla freddezza dei visitatori — ci sono sempre più persone da mantenere e sempre meno persone che lavorano. Questo problema si risolve in più maniere: il modo su cui lavora il governo non è solo quello dei migranti, ma anche quello della grande riserva inutilizzata che è il lavoro femminile. Portandolo alla media europea e puntando sulla demografia, con l’incentivazione da parte delle famiglie di mettere al mondo dei figli». Lollobrigida invece con la platea sindacale si spinge un po’ più in là: «Va costruito un welfare per consentire di lavorare a chiunque e avere una famiglia. Non possiamo arrenderci al tema della sostituzione etnica». Alla fine tutto si tiene: «Gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada», spiega Lollobrigida. Argomentazioni che in questi anni sono state portate avanti anche dall’altro partito sovranista della coalizione, la Lega. Nel corso della sua visita tra gli stand del Salone, Meloni non torna sul discorso. La accompagna la ministra al Turismo Daniela Santanché, mentre il sindaco Beppe Sala si è dileguato dopo i saluti istituzionali. poco dopo lo segue il presidente della Regione Attilio Fontana. La presidente del Consiglio si aggira tra gli stand scortatissima dalla security, chiedendo informazioni interessata sui prodotti, sul tipo di commercio e sui bisogni di questo pezzo di manifattura. Meloni aveva collegato il ragionamento finito sotto i riflettori alla questione migranti, ribadendo un concetto a lei caro: prima di far arrivare manodopera dall’estero è meglio affidarsi al lavoro femminile. Altro punto rivendicato dalla presidente del consiglio è la centralità dell’impresa, «l’unico soggetto capace di creare ricchezza assieme ai propri lavoratori» e che quindi deve avere «mani libere» nella sua ricerca del profitto. Insomma, una sorta di liberismo identitario. Non a caso nel corso del suo saluto istituzionale, all’ultimo punto, Meloni mette proprio il richiamo alla identità. Nel frattempo, l’altra sortita sulla famigerata “sostituzione etnica” di Lollobrigida, vecchio cavallo di battaglia proprio di Meloni, aveva di fatto scatenato un putiferio politico. «È un linguaggio da suprematista bianco. Sono parole indegne da parte di chi ricopre il ruolo di ministro, che ci riportano agli anni ‘30 e vengono dette, per altro, nel giorno in cui il presidente Mattarella è in visita ad Auschwitz», commenta la segretaria pd Elly Schlein. Anche il presidente del partito Stefano Bonaccini è duro: «Sono parole irricevibili. Spero anzi che si scusi sull’utilizzo dei termini, anche perché dovrebbe spiegare a se stesso come mai lo stesso ministro, poche settimane fa, ha detto che nei prossimi anni serve mezzo milione di immigrati, spero regolari», sottolinea a Di Martedì. «Ma di cosa parla Lollobrigida? Siamo a dei livelli brutali, questo è il mio unico commento», sentenzia Romano Prodi. Ma sono tutte le opposizioni — 5 Stelle («Propaganda razzista», per Mariolina Castellone), Alleanza verdi- sinistra, +Europa, Azione e Italia viva — a insorgere. Dopodiché lo stesso ministro non si scompone e anzi rivendica tutto, nella replica affidata alla sua pagina social: «La sinistra priva di argomenti solleva il solito polverone ». Tutta FdI lo segue compatta, nessuno alza il dito, neanche nell’area più moderata centrista. La maggioranza deraglia, finisce in fondo a destra».
CHE COSA SIGNIFICA “SOSTITUZIONE ETNICA”
Massimo Gaggi sul Corriere della Sera spiega la fortuna dell’espressione “sostituzione etnica”, che ha cominciato a diffondersi nel 2011 dalla Francia.
«La teoria della grande sostituzione è un mito neonazista secondo il quale i bianchi vengono sostituiti dai non bianchi. Spesso, come in tante altre teorie cospirative, gli ebrei vengono indicati come i veri colpevoli». Parola del sito governo.it, pagina della presidenza del Consiglio dei ministri. Fin dall’inizio del Novecento alcuni politici americani hanno cominciato ad agitare lo spettro di un capovolgimento degli equilibri etnici per effetto delle massicce ondate migratorie dall’Europa. Suggestioni riprese da alcuni romanzi distopici. Ma il primo a parlare di sostituzione come di un grande complotto è stato, nel 2011, l’accademico francese Renaud Camus. Lui si riferiva soprattutto al suo Paese che vedeva minacciato dall’onda degli immigrati delle ex colonie ma le sue tesi, oltre che nella destra europea, hanno avuto successo soprattutto negli Stati Uniti, in particolare tra i suprematisti bianchi. In Italia, a parte la sortita di ieri di Lollobrigida, a parlare di sostituzione etnica e di genocidio del popolo italiano è stato in passato soprattutto Matteo Salvini. L’espressione «grande sostituzione» è stata usata più volte, ma non negli ultimi anni, anche da Giorgia Meloni. I suoi sono apparsi soprattutto riferimenti al cosiddetto piano Kalergi: un disegno di sostituzione che sarebbe stato concepito da imprenditori per creare un grande serbatoio di lavoratori mansueti e a basso costo. Teorie cospirative che già hanno ispirato varie stragi negli Usa (da quella di Buffalo a El Paso passando per la sinagoga di Pittsburgh) nonché quella di Christchurch in Nuova Zelanda».
I MALI DELLA “RETORICA DELL’INVASIONE”
Analisi di Marco Tarquinio per Avvenire: le parole denotano paura, chiusura ed esclusione del povero e del diverso. Per questo sono “tossiche”.
«Meglio dirselo chiaro e tondo: da sostituire una volta per tutte anche nel nostro Paese, e forse soprattutto nel nostro Paese che invecchia e si fa più sospettoso, è la “retorica dell’invasione” e il persino inconsulto lessico che ne discende. Altrimenti continueranno a fiorire all’improvviso – anche sulla bocca di personalità politiche abili e attente – espressioni come quella esplosa ieri in un discorso di Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare: sostituzione etnica. Già, sostituzione etnica. Due parole che, prese separatamente, non dicono nulla di necessariamente scandaloso, ma che messe insieme e collegate senza neanche bisogno di sottolinearlo, in modo drammaticamente scontato, al tema delle migrazioni umane e del crescente meticciato nel villaggio globale del mondo, condensano tutta una serie di pensieri respingenti, xenofobi e apertamente razzisti. Sostituzione etnica, ovvero l’evocazione di un complotto o comunque di un progetto, per cancellare un popolo e la sua storia attraverso l’insediamento di invasori “alieni”, è un concetto semplicemente e duramente agli antipodi dell’umanesimo fraterno cristiano, della civiltà europea e dei valori di solidarietà e di pace sui cui da tre quarti di secolo abbiamo cercato di costruire almeno nel nostro continente, dopo l’immane tragedia bellica e gli stermini che annerirono e insanguinarono il cuore del Novecento, una società a misura d’uomo e di donna. Di ogni uomo e di ogni donna. Con un’idea di dignità e di cittadinanza che non contempla in alcun modo la possibilità di discriminare ed escludere in base al colore della pelle, al luogo di nascita, alla tradizione culturale e religiosa di riferimento, alla condizione sociale ed economica di partenza. Sostituzione etnica. Due parole innocenti che, come certi elementi chimici quando vengono mescolati, possono però diventare pericolose e rivelatrici. Sino a fare a pezzi - il ministro Lollobrigida lo ha sperimentato proprio ieri sulla sua pelle - il senso utile di altri ragionamenti e impegni declinati dopo il concetto-bomba da chi quelle parole pronuncia (con enfasi o lasciandosele scappare). E sino a illuminare, nel lampo rabbioso della detonazione, la lunga catena di altre parole inaccettabili e di conseguenti azioni e omissioni (anche di soccorso di esseri umani in difficoltà) che hanno costellato gli ultimi due decenni europei e italiani (ma anche americani e asiatici e africani) e che da queste colonne di giornale, senza sosta e senza esitazioni, continuiamo a denunciare. Non limitandoci mai alla sola denuncia, ma indicando – in ascolto dello stato di necessità delle persone profughe e migranti e con altrettanta attenzione alla realtà dei Paesi coinvolti, a cominciare dal nostro – percorsi e pratiche di inclusione, di incontro, di cooperazione e di costruzione comune di futuro. L’abbiamo fatto con politici e governi italiani (e no) di diverso colore, e continueremo a farlo. Nulla ci fa velo se non il dolore per ogni ingiusta sofferenza inflitta – a causa di pregiudizi e calcoli senza umanità e senza pudore – a uomini e donne “colpevoli” di essere poveri, un po’ diversi da noi e per differenti motivi costretti a cercare sicurezza, lavoro e pace lontano dalla terra natia. Sì, c’è da sostituire un intero lessico, e il pensiero – se si può chiamar così – che lo precede e lo rende tossico. Anche quello che si è fatto, qui da noi, ingiusta e sempre più inadeguata legge: la vecchia e sbagliata Bossi-Fini. Se si sarà capaci di questo, vorrà dire che questo Paese ha cominciato a ritrovare il senso di sé, della sua vera cultura e del suo avvenire. E magari che avremo capito che i figli si generano mettendoli al mondo con speranza, e accogliendoli con fiducia e regole umane, salde, civili».
DUE PAROLE E UN FUNERALE
Il commento alle parole del Ministro Lollobrigida di Massimo Gramellini sulla prima del Corriere della Sera.
«Avrete saputo della doppia uscita del ministro Lollobrigida: quella infelicissima sui rischi di «sostituzione etnica» e quella apprezzabile ma velleitaria sull’incentivazione delle nascite, come se il tasso di natalità dipendesse soltanto dall’economia e non anche dalla psicologia: un popolo smette di riprodursi quando smette di avere fiducia nel futuro (successe già ai tempi della Roma imperiale, e se non riuscì Augusto a invertire la tendenza, difficile che ce la faccia lui). Un tema decisivo, oscurato purtroppo da quelle due infauste parole, «sostituzione etnica», che hanno trascinato il battibecco politico da tutt’altra parte. Lasciamolo pure andare e spostiamoci in una parrocchia di Milano, la San Filippo Neri, dove la campionessa Julia Ituma aveva giocato le sue prime partite di pallavolo. Lì ieri si sono svolti i suoi funerali. Intorno alla bara sommersa di rose bianche c’erano i genitori nigeriani, le amiche d’infanzia milanesi, le compagne di squadra e della Nazionale (azzurra). Il mondo di Julia era pieno di colori, compresi l’arancione e il blu delle opinabili capigliature sfoggiate da alcuni adolescenti. Chi era dunque, Julia Ituma? Una ragazza italiana del ventunesimo secolo, afrodiscendente, con l’accento milanese e i gusti e le fragilità di una diciottenne cresciuta da queste parti. La prova certificata che non c’è nessuna sostituzione etnica in atto. Solo un mondo che si muove, e noi che con le parole e le paure facciamo un po’ fatica a stargli dietro».
OGGI IL DECRETO MIGRANTI VA IN AULA
Oggi il decreto Cutro va all'esame dell'Aula. La maggioranza prova a compattarsi ma non c’è ancora un testo “blindato”. No alla "protezione arcobaleno". L'Ue promette: aiuti a chi gestisce gli sbarchi. Federico Capurso per La Stampa.
«L'Europa annuncia una maggiore «solidarietà per chi gestisce le frontiere di sbarco» e attraverso il commissario europeo al Bilancio Johannes Hahn fa sapere che «la Commissione sta discutendo con l'Italia di eventuali altre misure di finanziamento dell'emergenza». Sarebbe una boccata d'ossigeno per il governo, che in questi giorni si trova ad affrontare il passaggio decisivo del decreto Cutro, con le opposizioni sul piede di guerra e una sintonia nella maggioranza che si fatica a trovare. Il testo del provvedimento approda oggi in Aula in Senato, ma l'accordo di governo sulle modifiche da apportare non può ancora considerarsi blindato. In una riunione di maggioranza convocata ieri a Palazzo Madama è stato stabilito il metodo sulla stretta alle protezioni speciali si è deciso che gli emendamenti da presentare saranno firmati dai capigruppo di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia. Per dare all'esterno un'immagine della sintonia che c'è nella maggioranza è stato poi deciso che ogni partito di governo presenterà non il proprio emendamento, ma uno preparato dagli alleati. Ma se si sente la necessità di trovare un modo con cui dare prova della propria compattezza, arrivando persino a uno scambio di emendamenti, forse tutta questa armonia non c'è. Al di là del metodo, infatti, nel merito si continua a trattare. Per Forza Italia andava tracciata una linea rossa intorno all'accordo trovato giorni fa sulle modifiche da apportare al sistema di protezioni speciali, ma Fratelli d'Italia preme per intervenire con un'ultima correzione. Giorgia Meloni vuole smontare la protezione speciale «arcobaleno» eliminando la protezione per chi è vittima di «discriminazioni basate sull'identità di genere» e lasciando solo la protezione in caso di «discriminazione sessuale». Per la premier il punto è che la fattispecie della discriminazione sessuale è prevista dalla convenzione di Ginevra, mentre l'identità di genere no. Forza Italia – viene fatto sapere – preferirebbe un approccio più prudente, meno ideologico, anche per evitare di riaprire un tema sul quale era stata già trovata faticosamente una quadra. Non dovrebbero esserci problemi, invece, sull'emendamento di Fratelli d'Italia che riguarda la rotta balcanica, con cui si inasprisce la lotta contro i trafficanti di essere umani rafforzando i controlli su camion e furgoni che attraversano il confine. Intesa raggiunta anche sull'emendamento della Lega che vieta a chi ha ottenuto la protezione speciale di «tornare nel proprio Paese d'origine in vacanza e poi ripresentarsi in Italia», fanno sapere dal Carroccio, così come per l'emendamento che revoca o riduce le misure di accoglienza per i richiedenti asilo che si macchiano di irregolarità o violazioni all'interno dei centri di accoglienza».
UDINE E IL TAFAZZISMO DI ENRICO LETTA
La vittoria del centro sinistra ad Udine è senza padri. Lo mette bene in luce Antonio Padellaro sul Fatto.
«Leggiamo che Pd, M5S e Terzo Polo, tutti insieme appassionatamente, hanno battuto la destra a Udine eleggendo sindaco l’ex rettore dell’Università, Alberto Felice De Toni. Qualcuno si spinge a dire che questa vittoria si deve a Elly Schlein il cui grande merito, va riconosciuto, è certamente quello di non chiamarsi Enrico Letta. Poiché Udine, nel suo piccolo, è la dimostrazione che in politica qualche volta la somma può fare il totale a condizione però che non si faccia il possibile, e l’impossibile, per sbagliare le alleanze, sottrarsi i voti e perdere inevitabilmente le elezioni. Lungi da noi accusare l’ex segretario del Pd di avere ordito consapevolmente un’operazione così autolesionistica da fare impallidire quel Tafazzi che andava in giro percuotendosi furiosamente i genitali. Anche se da un’accusa così grave il Letta minore ne uscirebbe sicuramente meglio rispetto all’idea che il disastro del 25 settembre scorso sia dovuto a una gigantesca castroneria: l’alleanza del Pd con quel Carlo Calenda “che attrae voti come un magnete” (Il Foglio) e la rottura con il M5S di Giuseppe Conte considerato alla frutta dagli strateghi del Nazareno. Come sono andate le cose lo sappiamo anche se alla luce delle comiche dei ragazzi irresistibili del Sesto Polo, Letta resta l’unico nell’orbe terraqueo a esserci cascato. Ok, ma visto come il Pd ha saputo spianare e asfaltare l’autostrada che ha portato Giorgia Meloni a Palazzo Chigi sarebbe cosa buona e giusta se almeno ci venissero risparmiate lamentazioni e gramaglie sulla destra postfascista brutta, sporca, cattiva e che non festeggia la Liberazione. Questa roba, cari dem, l’avete voluta voi e ce la dobbiamo sorbire noi. Infine, visto che a pensar male ci si azzecca, nessuno ci toglie dalla testa che oltreoceano non sia stato difficile scegliere tra un governo di centrosinistra con dentro il freno dei 5Stelle sull’invio di armi a Kiev senza se e senza ma. E un governo di destra destra più filoatlantico dello stesso Biden (e senza bisogno di mettergli il braccialetto elettronico).».
RAI, ALLENZA FUORTES-SANGIULIANO?
Carmelo Caruso aggiorna i suoi lettori sul Foglio a proposito delle seggiole e poltrone della RAI.
«Rai Borbonica. Fuori le parrucche. Ora è Carlo Fuortes, il “patriota”, compagno d’armi del ministro Sangiuliano, “el castigador” dello straniero. La scena si sposta da Milano a Napoli. Avevamo lasciato l’ad Rai a un passo dal diventare sovrintendente della Scala, ma una nuova missione, ben più alta, lo attende. Restituire l’Italia agli italiani. Dunque, dalla Rai non si schioda (domani il cda decisivo per approvare il bilancio) se prima non lo incoronano sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli (mica è fesso. In trincea promette: non lascio. Posso arrivare fino a giugno). Il real teatro napoletano è guidato dal “francioso” Stéphane Lissner. Sangiuliano, ovvero Saint-Just, non lo sopporta. Nasce un’ alleanza Fuortissima! Il rosso Fuortes e il ministro moro. Non poteva finire, e infatti non finisce. Andiamo di cronaca. Domani, i “cadetti”, i membri del cda Rai, approveranno il Bilancio, così come “ordinato” dalla regina Giorgia Meloni. Il patriota Fuortes, indomito, ha già un piano. Ce lo hanno passato le spie francesi (se il sottosegretario Fazzolari li scopre, bombarda l’Eliseo). Quindi. Ricapitoliamo. Voto favorevole del Bilancio Rai, decantazione di Fuortes, proclamazione a sovrintendente del San Carlo di Napoli e successive (sue) dimissioni. I consoli della premier: “Ma dimettiti la sera del 20 aprile. La tua nomina è questione di settimane, serve solo un decretino”. Lui, Fuortes, l’hombre de burrito: “Volete fare il decretino? Fatelo. In Rai ho i bilanci regolari. Non si è mai visto uno che lascia prima di ricevere un’altra offerta”. I consoli, ancora: “Ma Carlo, bisogna presentare i palinsesti! La Rai è ferma. L’Agcom ti insegue. I sindacati hanno indetto uno sciopero il 26 maggio. Sono stati bloccati gli straordinari. Mediaset fa il picco di ascolti con la Champions mentre tu mandi le repliche di Montalbano già ad aprile. Arrenditi”. Il patriota, lui che ha scorza di Carlo Pisacane, risponde: “I palinsesti due anni fa sono stati presentati a luglio. Questo pretesto non regge. E’ una congiura, ma io non ci casco”. Ora veniamo al “francioso”, nuovo protagonista di questa saga. A Milano, Fuortes ha ricevuto fuoco amico dal sindaco Sala. Sono entrambi di sinistra. Fuortes, dal canto suo, garantiva a Meloni: “Con Peppe, siamo compagni, mi aiuterà a coronare il mio sogno”. Ecco, col cavolo, che Peppe lo ha aiutato. Sala comunica a Meloni che non lo vuole. Meloni comunica a Fuortes: “Guarda che il tuo amico tanto compagno non lo è…”. Fuortes: “Hai capito gli amici”. FdI a Meloni: “Perdonaci, regina, ma il Pd maltratta Fuortes e noi dobbiamo farci carico di lui? Perché?”. La regina: “Dimostriamo che, noi di FdI, i migranti culturali li tuteliamo con la protezione speciale. Della Rai se ne occupa il nostro ministro della Cultura”. Sangiuliano/Saint-Just, che nel suo studiolo scruta gli astri, ne escogita un’altra. Infaticabile. Nell’ordine. Ha proposto a Fuortes il Maggio Fiorentino, ma peccato che l’ad non ami la bistecca “fiorentina”. La Scala, non ritorniamoci, kaputt. End. Fine. Resta il San Carlo. Sangiuliano/Saint-Just pensa già a quante opere di Benedetto Croce declamerà sul palco della sua natia città. Fuortes gradisce i babà e la pizza Margherita. E’ fatta. Ma come sollevare il “francioso” Lissner? L’età! Ha superato i settant’anni. Soluzione. Una leggina di poche parole che recita: “Tutti i sovrintendenti al compimento dei settant’anni vengono collocati in quiescenza”. Saint-Just capisce che l’operazione, questa volta, è rischiosa. Occorre il silenzio, quella sostanza che la mistica Elly Schlein ha ormai sparso nel Pd. Alla Camera, il dem Marco Furfaro sembra un monaco cluniacense. Ma non divaghiamo. Tra la sceneggiatura di questa epopea Rai e la sua fine, spunta il solito signor “epperò”. E’ vestito di verde, leghista, alza il dito e dice: “Scusate, prima cerchiamo di fare approvare una norma per pagare i pensionati , mentre ora scriviamo una norma per sollevare i pensionati?”. Il cortocircuito sarebbe evidente oltre alle polemiche sui giornali stranieri. E’ già incubo Le Monde. E di Meloni. Sangiuliano/Saint Just (è stato lui a dire che per Thomas Mann, “l’ironia è l’arma del conservatore”) nega una sua partecipazione attiva sulla questione Rai. Il francioso Lissner, che nella storia Rai c’entrava come i cavoli a merenda, si sente invece come il K. di Kafka: “Ma cosa ho fatto?”. I giureconsulti a Meloni: “Regina premier, la norma di Saint-Just sarebbe una norma patriottica. Ma lo sai che Pereira e Lissner lavorano in Italia e percepiscono la pensione nei loro paesi? Scandaloso”. Meloni, e questa è la malalingua di corte, “ha tutto da guadagnare da questa Rai indebolita e confusa. Mediaset macina ascolti. Il governo non tocca la Rai e la famiglia Berlusconi sorride. Del resto, Forza Italia è diventata meloniana. E’ un caso?”. L’altra lingua, di palazzo, “Meloni quando sente la parola Rai comincia a correre come Bolt”. L’indegna conclusione di questo pezzo non può che essere lasciata a Fiorello. In radio, ha offerto a Fuortes la direzione della rete immaginaria “Teleminkia”, offerta che, come si è compreso, resta la più concreta soluzione tra le impossibili».
“I REGIMI FASCISTI COMPLICI DELLO STERMINIO”
Sergio Mattarella e l’orrore di Auschwitz: «I regimi fascisti furono complici». Il Capo dello Stato in visita al lager dice: consegnarono i propri concittadini ai carnefici. Francesco Battistini per il Corriere.
«Sventolano le bandiere coi colori bianchi e azzurri dei pigiami a righe. Un ragazzo canta «The Sound of Silence», nel vento e nei boschi. Sergio Mattarella, spesso silente, l’ascolta ed è ancora più ammutolito dall’orrore che ha appena visitato. Le docce del Zyklon B, i capelli e le protesi, i vestiti e gli occhiali, le montagne di scarpe: «Già studiarlo è impressionante, ma vederlo è un’altra cosa. È un’esperienza che non si dimentica, dà la misura dell’inimmaginabile…». Non si possono zittire, queste urla del silenzio. E se è ad Auschwitz che si vede la banalità del Male Assoluto, è di questi tempi che si devono riaffermare verità che sembravano scontate, quasi banali, e che invece «gli araldi dell’oblio» tendono ad annacquare. Una, per esempio: il fascismo non fu un alleato che sbagliava, no, i fascisti furono complici. «Siamo qui oggi a fare memoria — dice il capo dello Stato — dei milioni di cittadini assassinati da un regime sanguinario come quello nazista che, con la complicità dei regimi fascisti europei, che consegnarono propri concittadini ai carnefici, si macchiò d’un crimine atroce contro l’umanità». Blocco 4, blocco 5, blocco 21. L’orrore sfila davanti agli occhi di Mattarella, mentre va per le pozzanghere di «un immenso cimitero senza tombe». Onora 42 sopravvissuti, «testimoni preziosi di verità». Gli mostrano le forche degli impiccati, il muro dei fucilati, dove si facevano le sperimentazioni ginecologiche sulle donne italiane. La figlia Laura ha gli occhi lucidi. Gli studenti di tre licei di Ancona, Latina e Pordenone s’avvicinano con le domande di tutti: come tenere viva questa memoria? «Ragazzi, avete visto questa macchina disumana? — dice il presidente — La cosa che dovete fare è trasmettere anche voi, a vostra volta, la memoria. Trasmetterla a chi verrà dopo». Alle due e mezza suona lo shofar, il corno di montone delle cerimonie ebraiche, e davanti al capo dello Stato s’incamminano diecimila giovani venuti da tutto il mondo: è la Marcia dei vivi, che da 35 anni e nell’anniversario della rivolta del Ghetto ricorda il milione di morti d’Auschwitz. Mattarella segue a distanza la coda del corteo, un gruppo di ragazzi panamensi, e intanto dice che «l’Olocausto è un monito perenne» che non consente «né oblio né perdono». È un giorno della memoria vissuto sul campo, in un campo che arrivò a incenerire più di 220 mila bambini. «Sono stata qui dall’aprile ’44 alla fine della guerra», spiega Tatiana Bucci, che aveva 6 anni, fu consegnata ai tedeschi dai repubblichini di Salò e fu risparmiata assieme alla sorellina, Andra, solo perché il dottor Mengele le scambiò per gemelle da usare come cavie: «Eravamo in otto della mia famiglia. Ora questo è il mio cimitero. Fino agli anni ’90 non ci avevo messo più piede, perché noi sopravvissuti non ce la sentivamo di raccontare. Adesso ci sono tornata 40 volte. Per ricordare e far ricordare». Non pensava di commuoversi più, mentre le s’inumidiscono gli occhi: «Con tutti i bambini che sono morti qua, vederli morire anche a casa nostra, nel Mediterraneo, è una cosa insopportabile…». Il mai più è un concetto ancora più chiaro: «Oggi più che mai — dice Mattarella —, nel riproporsi di temi e argomenti che avvelenarono la stagione degli anni ’30 del secolo scorso, con l’infuriare dell’inumana aggressione russa all’Ucraina la memoria dell’Olocausto rimane un monito perenne che non può essere evaso». E tanto per ripetere un’altra verità: «Chi aggredisce l’ordine internazionale fondato su questi principi, deve sapere che i popoli liberi sono e saranno uniti e determinati nel difenderli». La guerra di Putin è a poche ore di macchina, vicinissima».
TATIANA BUCCI: “LA MEMORIA È NECESSARIA”
Parla Tatiana Bucci, sopravvissuta, che con la sorella Andra fu cavia di Mengele: «Bene vedere qui tanti giovani, la memoria non vada persa. Oggi troppe persone muoiono in mare». Dall’inviato di Avvenire ad Auschwitz Angelo Picariello.
«Mi ritengo fortunata perché su 13 componenti della mia famiglia ci siamo salvati in 4». Il racconto, rotto a tratti dalla commozione, è quello di Tatiana Bucci che ha oggi 85 anni e ne aveva appena 8 quando fu liberato il campo di Auschwitz il 27 gennaio del 1945. E oggi è qui per ricordare, insieme alla sorella Andra, più piccola di due anni, in occasione della visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, appena giunto al campo, si è fermato a salutare le sorelle Bucci che erano ad attenderlo. Tanti i giovani, circa 10mila, provenienti da tutto il mondo, impegnati nella “Marcia dei vivi”. Presenti anche tre scolaresche italiane, del liceo Leonardo Da Vinci di Terracina, del liceo Rinaldini di Ancona e del Liceo Pujati di Sacile. «Rincuora vedere che migliaia di ragazze e ragazzi danno vita ogni anno a questa marcia. Quest’anno ci accompagnano in questa esperienza indimenticabile due sorelle italiane sopravvissute agli orrori di Birkenau, con loro giovani studenti del mio Paese - dirà poi Mattarella -. A Tatiana e Andra va il ringraziamento di noi tutti». Superstiti dell’Olocausto, testimoni attive della Shoah italiana e autrici di memorie sulla loro esperienza le sorelle Bucci sono arrivate qui da Fiume nel 1944 con 8 familiari e congiunti, fra cui il cugino Sergio, altri 5 loro congiunti sono stati catturati in seguito nel Vicentino dove si erano rifugiati. Si sarebbero salvate perché, scambiate per gemelle, servivano per fungere da cavie per gli esperimenti medici condotti dal famigerato dottor Josef Mengele. «Sarò venuta qui una quarantina di volte – racconta Tatiana Bucci – ma oggi è un’emozione particolare vedere tutti questi giovani». La prima volta negli anni Novanta, «prima non è stata coltivata la memoria, e forse non eravamo nemmeno pronti noi a ricordare». Tante le kippah di fedeli ebrei, ma qui, oggi, ricordare è compito di tutti: «Non solo chi è stato colpito nella sua famiglia deve farlo. Venire in questo luogo per me è come far visita a un cimitero, perché qui hanno perso la vita quattro miei familiari. Ma ricordare è importante perché non si ripeta. L’uomo invece continua a essere crudele, ma ci sono anche persone disposte a dare la vita per gli altri, speriamo non serva più». Tatiana Bucci evoca però anche un altro “cimitero”, «il “cimitero del mare” in cui tanti migranti perdono la vita. Ma noi non dovremmo mai più avere paura del diverso, dovremmo saper accettare e accogliere tutti». Tornando alla Shoah e al loro impegno per conservarne la memoria preso le giovani generazioni, «la speranza - dice - io non l’ho mai persa e non penso che il Novecento andrà mai dimenticato, è un secolo troppo importante». Il compito di alimentare la memoria tocca in primis, ai sopravvissuti, «anche se oramai siamo pochi, ma fa parte della vita. Ho fatto la mia parte, sono tranquilla e conto di continuare fino a quando la salute me lo permetterà».
PNRR, TIRA E MOLLA CON BRUXELLES
Vuole ancora tempo e non vuole farsi mettere in un angolo da Bruxelles Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari europei con la delega del Pnrr. Rosaria Amato per Repubblica.
«Da Bruxelles l’ennesimo invito al governo a indicare in tempi stretti quali sono i progetti del Pnrr da cambiare. Ma il ministro Raffaele Fitto replica che l’esecutivo «ha un orizzonte più ampio». Al Forum Confcommercio organizzato da Ambrosetti nell’incontro di ieri pomeriggio, moderato dal direttore di Repubblica Maurizio Molinari, è emersa ancora una volta la distanza tra Bruxelles e Palazzo Chigi sul Pnrr. «Visto che il 30 aprile era il termine per la presentazione di un nuovo capitolo sull’energia, - ha detto Marco Buti, capo di gabinetto del Commissario europeo per l’Economia - abbiamo suggerito che si faccia un cambiamento dei progetti esistenti, ove necessario, e l’inserimento dei nuovi progetti, tutto in un colpo solo». Ed ecco la replica di Fitto: «L’orizzonte e la modalità di lavorodi questo governo non può essere quello della data di scadenza della prossima milestone o target, che c’è e va mantenuta, e ci mancherebbe altro. Noi ci poniamo un obiettivo ancora più ampio che è quello che succede il 30 giugno 2026». In un lungo intervento il ministro, rivendicando «il disegno del presidente del Consiglio», che è quello di concentrare in un unico ministero le deleghe per i fondi di coesione, il Pnrr e gli Affari Europei. ha disegnato un percorso di modifica e di sviluppo dei progetti che ha un orizzonte temporale ancora più ampio, quello del 2029, termine ultimo per le opere finanziate dai fondi di coesione 2021-2027. Ha anzi fatto riferimento ad altri fondi ancora, sempre messi a disposizione da Bruxelles, «che non hanno scadenza». Tracciando dunque un piano che parte dalle risorse rimaste dai fondi di coesione 2014-2020 («almeno 20 miliardi »), quelle del periodo in corso («almeno 40»), e delineando una «strategia dei vasi comunicanti» che prevede aggiustamenti per tutto il periodo della legislatura e che non tiene conto «della scadenza di giugno o di quella di settembre ». Che pure, assicura, verranno rispettate. Così come soprattutto verrà rispettata l’ultima: è ormai chiaro al governo, ha affermato Fitto, che non ci saranno slittamenti per i progetti del Pnrr oltre il 30 giugno 2026. Proprio per questo, il governo pensa a una strategia complessa che ha almeno tre gambe. Innanzitutto individuare, insieme ai soggetti coinvolti (Fitto ha respinto le accuse di “accentramento” che sono state rivolte al governo per l’orientamento del decreto sulla governance, ricordando che già domani è prevista una cabina di regia alla quale prenderanno parte anche le organizzazioni imprenditoriali), tutti i progetti che non possono essere realizzati entro il 2026. «Serve il coraggio di togliere dalla programmazione ciò che non siamo in grado di realizzare - ha detto spostando ciò che non si fa entro giugno 2026 alle politiche di coesione che hanno scadenza a dicembre 2029». O persino oltre. Al tempo stesso, le risorse liberate dai progetti Pnrr possono essere in parte recuperate per finanziare i progetti del Repower Eu, che comunque, ha spiegato il ministro, possono contare su «2,7 miliardi a fondo perduto» e una seconda fonte di risorse in percentuale ai fondi di coesione. A questo punto l’Italia potrebbe contare su un «Repower adeguato» che da un lato potrebbe continuare a mettere in campo interventi a sostegno di famigli e imprese finché saranno necessari, ma anche puntare alla realizzazione di infrastrutture energetiche: «Ho già avviato un confronto con i principali stakehoder, Eni, Enel, Snam e Terna per investire su infrastrutture che possano dare una prospettiva al Paese». Sulla terza rata ancora in sospeso, i 55 obiettivi ancora all’esame della Commissione Europea, Fitto ha affermato di essere «ottimista», senza però dare dettagli sullo stato della valutazione dei progetti. Ma ci ha tenuto a precisare che quelli sub iudice fanno parte dei 25 portati a termine dal governo Draghi».
PALENZONA NUOVA GUIDA DELLA CRT
Fabrizio Palenzona è il nuovo presidente della Fondazione Crt: un risultato ottenuto alla prima votazione, con dieci preferenze su diciassette votanti. Dopo uno scontro di potere senza precedenti. Claudia Luise per La Stampa.
«Fabrizio Palenzona è il nuovo presidente della Fondazione Crt. Un risultato ottenuto alla prima votazione, con dieci preferenze su diciassette votanti. La maggioranza assoluta. Non sono bastati i bilanci record ottenuti in sei anni di mandato da Giovanni Quaglia alla guida di via XX Settembre, sede storica torinese dell'ente. E non sono serviti nemmeno i tentativi di mediazione per evitare di andare alla conta, come mai prima d'ora era successo nella terza Fondazione di origine bancaria italiana per entità del patrimonio. Quello che è andato in scena è stato uno scontro di potere che ha travalicato i toni felpati usuali. E, visto da fuori, non è stato un bello spettacolo. Quaglia ha provato fino all'ultimo a recuperare terreno. «Parleranno gli atti, le cose realizzate», ha detto il presidente uscente che ha chiuso il mandato con un bilancio molto positivo, approvato all'unanimità dal consiglio prima della votazione per il presidente: avanzo di esercizio 2022 pari a 127,2 milioni (+42,6% sul 2021), posizione finanziaria netta salita a quota 569 milioni (+73,4%), patrimonio investito superiore ai 3 miliardi. Poi si è passati alla conta delle preferenze e, nonostante il voto fosse segreto, non ci sono state schede bianche. In mattinata si erano schierati apertamente sei consiglieri a testa, consegnando le firme a sostegno delle candidature. Ultimo atto di una partita che si è trascinata per mesi tra colpi di scena, scorrettezze, fughe di notizie e tentativi di mediazione falliti. La missione ora è ricostruire clima positivo per evitare che le scorie si trascinino per troppo tempo, anche perché Palenzona dovrà convivere non solo con il Consiglio di indirizzo che lo ha nominato ma anche con il Cda (più vicino a Quaglia) ancora per un anno. Proprio mettere pace nel Consiglio di amministrazione, dove nomine nelle società partecipate sono state promesse o hanno scontentato altri, sarà la missione più complicata. Ma perché sia Palenzona sia Quaglia hanno deciso di non cedere e - nonostante la formazione democristiana e la conoscenza di lunga data - hanno accettato lo scontro? Sullo sfondo c'è anche la sfida per l'Acri che si potrebbe aprire l'anno prossimo, quando Francesco Profumo, attuale presidente, dovrà lasciare la guida della Compagnia di San Paolo. Un caso che si aprirà già a fine del 2023 per arrivare a concretizzarsi nella primavera del 2024. Oggi, però, quello che balza agli occhi è il tema del "rinnovamento mancato". Non c'è stato un vero ricambio generazionale, come in molti avevano auspicato. In questo si può intravedere anche un fallimento del sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, che settimane fa aveva provato a puntare sul notaio Andrea Ganelli (di una generazione più giovane), ma che poi, quando ha capito che non sarebbe riuscito a incidere, ha preferito defilarsi e lasciare che i due democristiani se la vedessero tra di loro. Aveva provato a chiedere un passo indietro e un appoggio al notaio, non è riuscito. Ora non sarebbe preoccupato del cambio al vertice, persuaso che per la Città non dovrebbero esserci scossoni nel valore delle erogazioni. Una delle prime cose che si inizierà a fare in Crt è anche accelerare sulla scrittura del nuovo statuto. Obiettivo: inserire il limite d'età per tutti gli organi, che dovrebbe oscillare tra i 65 e i 70 anni».
CINA 1. FRIEDMAN E IL RAPPORTO CON GLI USA
Fra Usa e Cina competizione o scontro? Riflessioni di un grande giornalista americano dopo un viaggio a Pechino: ecco il lungo articolo dell’editorialista del New York Times Thomas L. Friedman, tradotto e proposto ora in Italia da Repubblica.
«Sono appena rientrato da un viaggio in Cina. Il primo dalla comparsa del Covid. Trovarmi nuovamente a Pechino mi ha riportato alla mente la mia prima regola del giornalismo: se non vai, non sai. I rapporti tra i nostri due Paesi si sono deteriorati così profondamente e rapidamente e hanno ridotto i punti di contatto tra noi e loro da renderci simili a due enormi gorilla che si scrutano attraverso una piccola fessura. Una situazione da cui non potrà venire nulla di buono. La recente visita della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen negli Stati Uniti non ha fatto che confermare quanto il clima si sia ormai surriscaldato. Il minimo passo falso di una o dell’altra parte rischia di far scoppiare tra Usa e Cina una guerra al confronto della quale il conflitto in Ucraina apparirebbe una rissa condominiale. Questo è uno dei motivi principali per i quali ho ritenuto utile tornare a Pechino. L’aspetto nuovo è molto legato alla crescente importanza che la fiducia e l’assenza di fiducia giocano nei rapporti internazionali, adesso che tanti dei beni e servizi che Stati Uniti e Cina si vendono reciprocamente sono digitali, e quindi “dual use”, in grado di avere un’applicazione sia civile che militare. E adesso che la fiducia è diventata un elemento fondamentale, tra Cina e Usa essa è scesa a livelli bassissimi con un tempismo infausto. Democratici e repubblicani fanno quasi a gara a chi usa i toni più duri riguardo alla Cina. A dire il vero, entrambi i Paesi di recente hanno demonizzato l’altro, al punto da farci dimenticare quanti punti in comune uniscano invece i nostri popoli. Il viaggio mi ha anche ricordato il formidabile peso di ciò che la Cina ha costruito a partire dagli anni Settanta, quando si aprì al mondo; o dagli inizi del Covid, nel 2019. Il governo del Partito comunista esercita sulla società cinese una presa estrema, grazie a una sorveglianza da Stato di polizia e ai sistemi di tracciamento digitali. Detto questo, non bisogna farsi illusioni: la tenuta del Partito comunista è anche il prodotto del duro lavoro e dei risparmi del popolo cinese, che hanno permesso al partito e allo Stato di costruire una infrastruttura di prim’ordine e beni pubblici che migliorano la vita della gente. Pechino e Shanghai sono diventate città molto vivibili. Come ha scritto sul New York Times Keith Bradsher, nel 2021 Shanghai aveva da poco realizzato 55 nuovi parchi, portando il totale delle aree verdi a 406, e stava pianificando di realizzarne quasi seicento in più. Nel Paese i treni ad alta velocità raggiungono quasi 900 città. Negli ultimi 23 anni l’America ha costruito un’unica sorta di linea ad alta velocità, che effettua 15 fermate tra Washington e Boston. Per un americano, oggi, volare dal Kennedy di New York all’aeroporto di Pechino significa lasciarsi alle spalle un terminal affollatissimo per ritrovarsi in un luogo futuristico che ricorda Disneyland. È buffo, però: proprio quando inizi a preoccuparti delle condizioni dell’aeroporto Kennedy e di tutti i racconti secondo i quali la Cina negli ultimi anni ci stava superando nel campo dell’intelligenza artificiale, un team americano – OpenAI – ha annunciato la creazione del più importante strumento di comprensione del linguaggio naturale al mondo, tale da permettere a chiunque di intrattenere conversazioni “umane”, porre domande e riuscire a comprendersi a fondo in tutte le principali lingue. Nel campo dell’intelligenza artificiale la Cina è partita avvantaggiata grazie alla tecnologia per il riconoscimento facciale e l’accesso ai dati medici della popolazione. Ma l’intelligenza artificiale generativa, così come ChatGpt, rende possibile a chiunque di fare qualsiasi domanda, nella propria lingua. E questo per la Cina potrebbe rappresentare un problema che la costringerà a erigere all’interno dei suoi sistemi di IA generativa molte barriere per limitare le domande e le risposte che il computer può dare. Se non tutte le domande sono ammesse il sistema di intelligenza artificiale, sempre teso a capire cosa, dove e chi censurare, sarà meno efficace. Per tutti questi motivi, quello di soppesare il mutevole rapporto di poteri tra America e Cina è diventato un passatempo molto diffuso tra le élite dei due Paesi. Molti cinesi, ad esempio, hanno assistito tramite i social a parte del dibattito del 23 marzo a Capitol Hill, in cui membri del Congresso hanno interrogato (o piuttosto rimproverato, ammonito e costantemente interrotto) l’amministratore delegato di TikTok, Shou Chew, affermando che i video di TikTok danneggiano la salute mentale dei giovani americani. Ho fatto a investitori, analisti e funzionari americani, cinesi e taiwanesi una domanda che mi assillava: per che cosa stanno litigando, esattamente, Usa e Cina? Molti hanno esitato. E molti hanno risposto con una sorta di: «Non ne sono sicuro, so solo che la colpa è LORO». Sono certo del fatto che a Washington riceverei risposte analoghe. La parte migliore del viaggio è stata quella incentrata sulla ricerca di una reale risposta alla mia domanda, e sul motivo per cui essa disorienta tante persone. La risposta è ben più profonda e complessa di un semplice “Taiwan”, o di un “si tratta dello scontro tra autocrazia e democrazia”. Il deteriorarsi dei rapporti tra Usa e Cina è il risultato di qualcosa di antico e ovvio: la storica rivalità tra una grande potenza in carica (noi) e una grande potenza in ascesa (la Cina). Ma esistono anche molti nuovi elementi. Di antico e ovvio vi è il fatto che Cina e Usa duellano per assicurarsi un maggior peso economico e militare che permetta loro di definire le regole del XXI secolo nel modo più vantaggioso per i rispettivi sistemi economici e politici. E una delle regole contese riguarda la rivendicazione di Taiwan da parte di Pechino come “Una sola Cina”. Dal momento che quella “regola” rimane oggetto di disputa, noi continuiamo ad armare Taiwan per scoraggiare Pechino dall’impadronirsi dell’isola, mentre la Cina continuerà a insistere per ottenere una riunificazione. Una delle novità sta nel fatto che questa rivalità riguarda due nazioni che dal punto di vista economico sono intrecciate l’una con l’altra. Un’ulteriore novità ha a che fare con l’importanza che l’elusivo tema della fiducia e dell’assenza di fiducia hanno improvvisamente iniziato ad assumere nell’ambito degli affari internazionali. Ciò è dovuto al nuovo ecosistema tecnologico in cui apparecchi e servizi si basano su microchip e software, e sono collegati a data center collocati nel cloud e a Internet ad alta velocità. Quando un numero così elevato di prodotti e servizi è digitalizzato e connesso, molte tecnologie diventano “dual use”, ovvero tali da poter essere facilmente convertite da strumenti civili ad armi digitali, e viceversa. Per una trentina di anni a partire dal 1978-79, quando Pechino si aprì agli scambi commerciali con il mondo, la Cina ha venduto all’America molti di quelli che io chiamo beni “leggeri”, come scarpe, calzini, magliette e pannelli solari. Nel frattempo Usa e Occidente tendevano a vendere alla Cina beni “pesanti” e dual use: software, microchip, larghezza di banda, smartphone e robot. La Cina era costretta ad acquistare i nostri prodotti “pesanti” perché sino a tempi relativamente recenti non è stata quasi in grado di produrne. Sino a quando la Cina ci ha venduto soprattutto prodotti “leggeri”, il suo sistema politico non ci interessava granché. Circa otto anni fa, però, qualcuno ha bussato alla nostra porta. Era un venditore cinese, che diceva: «Salve, il mio nome è Huawei e produco componenti per la telefonia 5G migliori di quelli che voi usate. Sto iniziando a installarli in tutto il mondo, e mi piacerebbe approdare anche in America». Ciò che l’America ha risposto a questo signor Huawei, e ad altre aziende tecnologiche cinesi in ascesa, è stato: «Quando le compagnie cinesi ci vendevano solo beni leggeri a noi non importava che il vostro sistema politico fosse autoritario, libertario o vegetariano. Adesso che invece volete venderci beni pesanti e dual use non ci fidiamo abbastanza di voi da comprarle. E quindi mettiamo al bando Huawei e spendiamo di più pur di acquistare i nostri sistemi di telecomunicazioni 5G da compagnie scandinave di cui ci fidiamo: Ericsson e Nokia». Il ruolo della fiducia nei rapporti e negli scambi commerciali internazionali si è accresciuto anche per un altro motivo: mentre un numero crescente di prodotti e servizi diventavano digitali ed elettrici, i microchip sono diventati il petrolio dei nostri giorni. Il ruolo che il greggio rivestiva nelle economie del XIX e XX secolo, nel XXI è occupato dai microchip. Oggi, i Paesi che riescono a produrre i microchip più veloci, potenti ed efficienti sono in grado di realizzare i migliori computer di intelligenza artificiale e di imporsi negli affari economici e militari. C’è però un problema: poiché la tecnologia necessaria a creare chip logici avanzati è estremamente complessa, nessuna nazione e nessuna azienda possono, da soli, rifornire tutto il mercato. Occorre trovare i prodotti migliori, prendendoli ovunque li si trovi. E nella catena di approvvigionamento che si viene a creare, ogni elemento è così strettamente connesso agli altri che le aziende hanno bisogno di potersi fidare ciecamente le une delle altre. La Cina non ha bisogno di guardare molto lontano per rendersene conto. Le basta sollevare lo sguardo oltre lo Stretto di Taiwan, dove sorge la più grande ditta di produttrice di chip al mondo: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co., più nota come Tsmc. Alla morte di Mao Zedong il successore Deng Xiaoping impose alla Cina una leadership di tipo più collettivo, stabilì limiti di mandato per i dirigenti e pose il pragmatismo al di sopra dell’ideologia comunista. Nell’era di Deng e dei suoi successori Pechino strinse solidi legami economici e scolastici con gli Stati Uniti, facendo approdare la Cina nell’Omc, a patto che il Paese si impegnasse ad abbandonare gradualmente la pratica mercantilistica di finanziare le industrie statali e si aprisse un po’ alla volta agli investimenti stranieri. Xi si dimostrò invece allarmato dal fatto che l’apertura della Cina al mondo, una visione della leadership troppo legata al consenso popolare e l’avvicinarsi del Paese a uno stile di vita semi-capitalista avessero portato a una corruzione dilagante sia all’interno del Partito comunista che dell’Esercito popolare di liberazione – al punto da minare la legittimità stessa del Partito. Queste considerazioni lo spinsero ad accentrare il potere nelle proprie mani. Xi, inoltre, prese le distanze dalla liberalizzazione del settore privato messa in atto da Deng, focalizzando invece la propria attenzione sulla costruzione di “campioni” dell’economia nazionale che potessero imporsi su tutte le industrie chiave del ventunesimo secolo e volle assicurarsi che le cellule del Partito comunista fossero parte attiva nella gestione di queste imprese e ben radicate tra la forza lavoro. Oltre all’incapacità della Cina a fare chiarezza su quelle che sapeva essere le origini del Covid-19, all’opposizione alle libertà democratiche di Hong Kong e della minoranza musulmana uigura nello Xinjiang, all’aggressività con cui il Paese tenta di imporsi nel Mar cinese meridionale, al suo atteggiamento ancor più minaccioso nei confronti di Taiwan e al suo avvicinamento a Vladimir Putin, anche l’ambizione di Xi di rendersi presidente a vita, il suo sabotaggio degli imprenditori cinesi del settore tecnologico, l’inasprimento delle restrizioni alla libertà di espressione e l’occasionale sequestro di qualche importante uomo d’affari cinese hanno fatto sì che in un mondo di beni pesanti e dual use, dominato da software, connettività e microchip, la fiducia che la Cina aveva costruito in Occidente evaporasse. Mentre questo accadeva, le nazioni occidentali iniziarono a dare molta più importanza al fatto che la Cina fosse un Paese autoritario. Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui il popolo cinese prosperi accanto a tutti gli altri. Dopotutto, i cinesi rappresentano più di un sesto degli abitanti del pianeta. Non credo che siamo destinati a un conflitto. Penso che siamo piuttosto destinati a competere tra noi, a cooperare e trovare un equilibrio. Se così non fosse, ci aspetta un XXI secolo pessimo. Devo dire, però, che americani e cinesi mi ricordano per certi versi israeliani e palestinesi: entrambi sono bravissimi ad alimentare le insicurezze più profonde dell’altro. Il Partito comunista è convinto che l’America voglia eliminarlo, come alcuni politici Usa non hanno più remore a suggerire. E pur di scongiurare questa eventualità Pechino è disposta ad andare a letto con Putin, un criminale di guerra. Dal canto loro, gli americani temono che la Cina, che si è arricchita sfruttando a proprio vantaggio un mercato globale forgiato dalle regole americane, utilizzi il suo potere di mercato per modificare a proprio vantaggio quelle stesse regole. Non so cosa potrebbe bastare a invertire queste tendenze, ma credo di sapere cosa occorrerebbe per riuscirvi. Se la politica estera Usa non ha l’obiettivo di rovesciare il regime cinese, gli Stati Uniti dovrebbero manifestarlo chiaramente. Inoltre, credere che l’America potrebbe prosperare di fronte a un tracollo economico della Cina è un’illusione. Anche l’idea che gli europei continueranno in ogni caso a seguirci in questa nostra battaglia potrebbe essere priva di fondamento. Quanto alla Cina, può illudersi quanto vuole di non aver compiuto una retromarcia negli ultimi anni, ma nessuno le crederà. In un mondo iperconnesso, digitalizzato e dual use, la Cina non potrà mai realizzare il proprio potenziale a meno di non rendersi conto che il più importante vantaggio competitivo che un Paese o un’azienda possano assicurarsi è quello di costruire e mantenere rapporti basati sulla fiducia. E ad oggi Pechino non ne è capace. Nella sua splendida biografia del grande statista americano George Shultz, Philip Taubman cita una delle regole cardinali di Shultz riguardo alla diplomazia e alla vita: “La fiducia è la moneta del reame”. Una regola che non è mai stata tanto vera quanto oggi. E la Cina non ha mai avuto più bisogno di farla propria».
CINA 2. IL PIL TORNA A CRESCERE
Il Pil cinese riparte: è cresciuto del 4,5% nel primo trimestre. La fine della strategia zero Covid ha permesso all’economia di realizzare un rimbalzo superiore alle aspettative. Rita Fatiguso per Il Sole 24 Ore.
«L’agognato rimbalzo post-Covid-19 c’è stato, lo dimostra il dato sul Pil del primo trimestre 2023 diffuso ieri che segnala a gennaio-marzo una crescita del 4,5% reale contro la previsione media del mercato attesa pari al 3,4 per cento. Un salto innescato dalla brusca fine della strategia zero-Covid decisa dal Governo centrale a dicembre, ma anche dal concomitante Festival di Primavera che, a gennaio, ha giocato un ruolo importante. Il Capodanno cinese ha dato una forte scossa all’economia: ristoranti, alberghi, attrazioni turistiche sono state riaperte, il turismo di massa è ripartito anche all’interno del Paese. La crescita del Pil in termini reali, al netto delle fluttuazioni dei prezzi, ha quindi accelerato il ritmo rispetto alla crescita del 2,9% registrata nel periodo ottobre-dicembre 2022. Il tasso di crescita su base annua depurato dai fattori stagionali è stato del 2,2%, anch’esso in aumento rispetto allo 0,6% di ottobre-dicembre 2022. Il tasso di crescita annualizzato è di circa il 9,1%, e correttamente si basa sul tasso di crescita del trimestre precedente. Il Pil nominale, ancora più aderente alla realtà, è cresciuto del 5,5% su base annua, rispetto al 3,5% di ottobre-dicembre 2022. Sono le specifiche voci a destare qualche perplessità. Il valore totale al dettaglio dei beni di consumo sociale, le cosiddette vendite al dettaglio, che comprendono i grandi magazzini, le vendite dei supermercati e le vendite su Internet, sono cresciute del 5,8% da gennaio a marzo. I ricavi della ristorazione, che rappresentano il 10% del totale, sono anch’essi aumentati del 13,9 per cento. Ci sono però anche ombre nelle cifre fornite dall’Ufficio nazionale di statistica, infatti gli acquisti di beni di consumo durevoli sono stati alquanto deboli. Le automobili e le apparecchiature per le telecomunicazioni sono diminuite rispettivamente del 2,3% e del 5,1%. Il consumo interno, dunque, offre valutazioni contrastanti. Gli investimenti in immobilizzazioni, che indicano in particolare la costruzione di nuovi siti, sono cresciuti del 5,1%, come è successo per tutto il 2022. Anche gli investimenti in infrastrutture, su cui il Governo punta per sostenere l'economia, sono rimasti vivaci. Al contrario, gli investimenti nell’immobiliare, dai quali dipendono le sorti dell’economia locale, sono diminuiti del 5,8 per cento. L’area delle compravendite di nuove abitazioni è tornata positiva dell’1,4%, ma ci vorrà del tempo prima che le scorte si riducano e che aumenti il numero delle nuove costruzioni. La domanda estera, in effetti, è stata un fattore di impulso alla crescita economica di inizio anno. Il surplus commerciale di gennaio-marzo, ovvero le esportazioni meno le importazioni, è stato superiore del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le esportazioni verso i Paesi Asean sono aumentate, mentre le importazioni sono in calo a causa delle deboli vendite interne di beni di consumo. La produzione è aumentata del 3% nel periodo gennaio-marzo, non riuscendo a raggiungere la crescita dell’intero anno del 2022 (3,6%). Quella di automobili e di computer è diminuita proprio a causa del rallentamento delle vendite. Si prevede ampiamente che la crescita economica reale in aprile-giugno sarà superiore a quella di gennaio-marzo. L’intera economia nel complesso è riuscita a liberarsi dalla cappa del lockdown della primavera scorsa, quando tutta Shanghai fu costretta a rinchiudersi in casa per contenere la diffusione di nuovi focolai. I due nuovi elementi chiave sono occupazione e redditi, in grado di spazzare via l’incertezza tra le imprese e le famiglie e di accelerare la domanda interna. Inclusi investimenti e consumi, che stentano a decollare».
PROCESSO ALLE FAKE DELLA FOX
L’ammiraglia della destra televisiva americana a processo per le notizie false sulle elezioni. La notizia è dal Manifesto.
«Actual malice, effettiva premeditazione, nel linguaggio con cui la Corte suprema degli Stati uniti fissò il concetto di diffamazione. Sono le due parole più importanti nel processo Dominion contro Fox che si è aperto ieri a Wilmington, nello stato del Delaware che ha prodotto Joe Biden, norme fiscali da paradiso e ora anche i 12 giurati (sei donne, sei uomini, la maggior parte neri) che dovranno decidere se l’ammiraglia della destra televisiva americana ha mentito sapendo di mentire, accusando delle peggiori nequizie un costruttore di computer contavoti (dall’invertire le scelte degli elettori a prestarsi a manipolazioni della Cina passando per essere emanazione del Venezuela chavista e antiamericano) per inseguire i telespettatori che emigravano su canali ancora più a destra. In ballo c’è il Primo emendamento, che include la libertà di parola, nel paese che ha insegnato a tutti come si fa il giornalista. C’è l’antica domanda di Pilato, quid est veritas. E ci sono 1,6 miliardi di dollari di danni che Dominion pretende, e che farebbero forse chiudere Fox, capofila del pervasivo modello di business contemporaneo che prevede di adattare le news agli ascoltatori - la post-verità, su cui Trump ha costruito la campagna per rovesciare le elezioni culminata nel famoso assalto al Campidoglio, e su cui molti social guadagnano miliardi. L’asticella per provare la diffamazione è altissima, ed è un bene. Fox sembra averla superata, e sarebbe una catastrofe storica. E ora silenzio, entra la corte.».
NICARAGUA, LA MORTE DELLA DEMOCRAZIA
Denuncia di Amnesty International: in Nicaragua muore la democrazia. Paola Del Vecchio per Avvenire.
«La repressione è il metodo, la violazione sistematica dei diritti umani il “continuum”. A 5 anni dall’inizio delle proteste pacifiche - il 18 aprile 2018 - contro le riforme della previdenza sociale, soffocate nella violenza che lasciò sul terreno oltre 300 morti, 2mila feriti e centinaia di arresti arbitrari, il regime di Daniel Ortega e della moglie Rosario Murillo, si fa sempre più duro. «L’oppressione per silenziare le voci dissidenti e ogni tipo di critica in Nicaragua si aggrava », denuncia Amnesty International nel report presentato ieri. Uso indiscriminato della forza, criminalizzazione dell’attivismo e del dissenso, attacchi alla società civile, esilio forzato, persecuzione di difensori dei diritti umani, religiosi, giornalisti e dissidenti, condannati in processi farsa sono le tattiche impiegate dalla coppia presidenziale. Secondo i casi documentati da Amnesty, le forze di polizia sono responsabili di migliaia di arresti illegali, dell’impiego di armi letali vietate dal diritto internazionale, che hanno provocato la morte di centinaia di persone, incluso di esecuzioni extragiudiziali. Torture, sparizioni, esilio forzato e privazione della nazionalità assieme alla confisca abusiva dei beni, sono finalizzate a chiudere spazi di libertà. Fuori da ogni controllo, poiché – denuncia Amnesty – «il sistema giudiziario, assieme ad altre autorità nazionali, è stato cooptato nell’azione di repressione». L’esempio più emblematico, la condanna a 26 anni di carcere del vescovo di Metagalpa, Rolando Älverez, a sua volta spogliato della nazionalità, in carcere con altre 37 persone arbitrariamente detenute. “A cinque anni dall’inizio, la crisi dei diritti umani in Nicaragua si sostiene sulla perdita dello stato di diritto», ha rilevato Erika Guevara Rosas, direttrice di AI per le Americhe. Che ha lanciato un appello alla comunità internazionale perché «attui in maniera determinata, non solo per condannare la sistematicità delle violazioni dei diritti umani» della dittatura Ortega-Murillo, ma per «garantire i diritti di giustizia, verità e riparazione alle migliaia di vittime della loro politica repressiva».
SUDAN, TREGUA DI 24 ORE
Sudan, tregua senza troppe illusioni. Stop alle armi di 24 ore per evacuare feriti e civili. Le Rsf di Dagalo in ripresa. 200 i morti. Michele Giorgio per Il Manifesto.
«È cominciato ieri alle 18 a Khartoum il cessate il fuoco di 24 ore per soccorrere i feriti e favorire l’uscita dei civili delle aree dove si combatte più duramente. Ma i sudanesi non si fanno illusioni, la resa dei conti andrà avanti. Indiscrezioni riferiscono che a bordo di pick-up incolonnati per centinaia di metri, migliaia di uomini delle Forze di supporto rapido (Rsf) di Mohammed Hamdan Dagalo starebbero rientrando a Khartoum dalla Libia e altri paesi dove erano stati dispiegati. Il loro compito è dare più forza alle Rsf mettendole nelle condizioni di dare la spallata decisiva all’esercito agli ordini del capo della giunta militare Abdel Fattah al Burhan. Se due giorni fa l’esercito sembrava in grado di mantenere il controllo, nelle ultime ore il vento sembra soffiare nell’altra direzione. Quattro giorni di combattimenti hanno già fatto circa 200 morti e 1800 feriti. Le Rsf, secondo fonti citate da Agenzia nova, ora controllano il Palazzo presidenziale di Khartoum. Sul terreno perciò non regnerebbe più l’equilibrio dei primi due giorni di combattimenti. Sono ore decisive in cui contano armi e munizioni e la determinazione di chi combatte. Avranno un peso anche i rifornimenti di acqua e cibo a soldati e paramilitari, vitali considerando che l’estate in Sudan è già arrivata con le sue temperature elevate. Ieri diversi abitanti riferivano di miliziani delle Rsf intenti a saccheggiare case e a procurarsi acqua. In particolare nella zona di Khartoum 2, la stessa dove è stato aggredito e ferito leggermente Aidan O'Hara, l’ambasciatore dell’Ue in Sudan. Gli Usa da parte loro hanno confermato che un loro convoglio diplomatico è stato attaccato. Soffrono più di tutti i civili. A Kafouri, nella zona nord di Khartoum, l’acqua manca dall’inizio degli scontri. Si combatte intorno all'aeroporto della capitale, accanto al quartier generale militare presidiato da carri armati. Migliaia di civili che vivono nelle aree residenziali intorno all’aeroporto e i pazienti di un vicino ospedale oncologico restano intrappolati. Lunedì una paziente dell'ospedale Al-Zara ha detto che non ci sono più medicine e cibo perché la struttura ha accolto pazienti di un altro ospedale che era stato attaccato. Intervistato dalla Bbc, il dottor Nima Said Abid, rappresentante dell’Oms in Sudan, ha detto che «la maggior parte degli ospedali ha esaurito le forniture mediche, le sacche di sangue, l'ossigeno e altri importanti kit medici e chirurgici». La Croce Rossa riferisce di aver ricevuto tante richieste di aiuto ma non può fornire sostegno umanitario a causa degli attacchi aerei e dei colpi di artiglieria. La maggior parte delle vittime sono state colpite nelle loro case. Non si combatte solo a Khartoum. Le aree in cui ieri si sono si concentrati gli scontri a fuoco sono la città settentrionale di Merowe e Omdurman. Nel Darfur le città più grandi sono nelle mani delle forze regolari mentre le Rsf avrebbero il controllo delle aree rurali e desertiche. Il sottosegretario dell’Onu per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ha denunciato violenze sessuali e aggressioni contro operatori e strutture umanitarie in Sudan. Si teme che possano scendere in campo anche miliziani stranieri: ciadiani, libici e centrafricani. Una eventualità non da escludere dal momento che il Sudan condivide un confine di 1.400 chilometri con il Ciad, di quasi 400 chilometri con la Libia e di circa 170 chilometri con la Repubblica Centrafricana (RCA). Parlando alla tv saudita Al Arabiya, Dagalo ha affermato che «due Paesi vicini» non specificati stanno cercando di inviare aiuti alle Rsf. Della compagnia Wagner invece non c’è alcuna traccia nonostante la collaborazione stretta con Dagalo nella RCA dove i mercenari russi sostengono l’esercito di Bangui. Il fondatore del gruppo, Evgenij Prigozhin, ha smentito di avere miliziani attivi nel Sudan. Più parti hanno avviato tentativi di mediazione o, almeno, stanno cercando di portare Al Burhan e Dagalo ad un cessate il fuoco. Il segretario di stato Blinken ha telefonato a entrambi i leader in conflitto, chiedendo la fine immediata dei combattimenti, ma il suo appello è caduto nel vuoto».
“GLI OCCHI FISSI SU GESÙ”
32mila persone hanno partecipato, online e in presenza a Rimini, agli esercizi spirituali di Comunione e Liberazione, che si sono tenuti lo scorso fine settimana, predicati dall’abate generale dei cistercensi Mauro Lepori. È intervenuto anche Il cardinale Kevin Farrell prefetto del Dicastero laici, famiglia e vita. La cronaca è di Avvenire.
«Circa 32.000 persone, di cui 5.000 riunite in presenza a Rimini e le altre in collegamento da diverse città italiane e dall’estero, hanno svolto lo scorso fine settimana, da venerdì a domenica, gli esercizi spirituali della fraternità di Comunione e Liberazione, sul tema “Gli occhi fissi su Gesù, origine e compimento della fede”. A tenere la predicazione è stato padre Mauro Giuseppe Lepori, Abate generale dell’Ordine cistercense. A celebrare le Messe sono stati Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, il prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, il cardinale Kevin Farrell, e Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e delegato speciale del Papa per i Memores Domini. Al termine degli esercizi, Davide Prosperi, presidente della fraternità di Cl, ha inviato un telegramma al Papa nel quale ha sintetizzato così l’esperienza vissuta: «Gli esercizi sono stati l’occasione per riprendere i contenuti e il fondamento della nostra fede in Cristo, unico salvatore del mondo. La fede in Cristo ha come forma la nostra comunione nell’obbedienza a Lei e alla Chiesa, con la preoccupazione per l’unità del nostro movimento e di tutti i fedeli cristiani». «Carissimi, la comunità cristiana nella quale avete incontrato Cristo risorto ha assunto per voi il volto concreto della fraternità di Comunione e liberazione – ha detto il cardinale Farrell nell’omelia, riportata integralmente sul sito di Cl – qui forse vi è capitato di incontrare una “Maria Maddalena” che vi ha parlato di Gesù con gratitudine e trasporto. Qui vi siete imbattuti nei due discepoli “di ritorno dalla campagna” che con entusiasmo vi hanno detto di aver fatto un incontro sconvolgente». «Forse anche voi all’inizio avete reagito con “incredulità” e “durezza di cuore” – ha continuato il porporato di origine irlandese – ma poco a poco la serenità, la ragionevolezza della fede e la gioia di chi vi ha portato l’annuncio vi hanno conquistati. Quei cristiani si mostravano certi di un destino buono che sta all’origine e al culmine della nostra esistenza, un destino che ci è venuto incontro e che si è fatto conoscere. Questo vi ha affascinato. Il modo di vivere e di stare insieme di coloro che dicevano di aver incontrato Cristo, il loro coinvolgimento appassionato con la vita, che non escludeva niente dai loro interessi, tutto questo vi ha sorpreso e ha fatto nascere in voi il desiderio di vivere anche voi a quel modo. Avete pensato che se Cristo è colui che aiuta le persone a vivere in modo così pieno e felice, e così autenticamente umano, allora vale la pena accoglierlo e seguirlo. Ed effettivamente, incominciando a seguire Gesù e a vivere nella compagnia dei suoi discepoli, avete cominciato a sperimentare una grande pace, avete cominciato a scoprire con sorpresa che in Cristo c’erano le risposte alle vostre domande e ai vostri desideri più profondi, e che il vostro sguardo sulla vita, la vostra umanità, il vostro lavoro, le vostre amicizie, la vostra capacità di amare, tutto ha acquisito una nuova profondità e una maggiore “verità”. Questo, in effetti, significa incontrare Cristo risorto. È un evento di rinascita, di trasformazione, di rappacificazione interiore ed esteriore». Tra le esortazioni del cardinale, una è sembrata riferirsi al processo di rinnovamento in corso in Cl e alle tensioni vissute negli ultimi anni: «Conservate sempre gratitudine al Signore per questa immensa grazia e anche per quegli “strumenti” concreti dei quali il Signore si è servito: le persone, il carisma, la comunità. Conservate anche la lucidità e libertà di ritenerli strumenti per l’incontro vero e proprio, ossia quello con Cristo risorto».
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