La Versione di Banfi

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Vittoria Pd con pochi elettori

alessandrobanfi.substack.com

Vittoria Pd con pochi elettori

I dem riconquistano Roma e Torino. Il centro destra tiene solo a Trieste. Ma il dato dell'affluenza è un record negativo. Arcuri indagato per le mascherine farlocche. Parte un Sinodo dal basso

Alessandro Banfi
Oct 19, 2021
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Vittoria Pd con pochi elettori

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È aumentata l’astensione ma era inevitabile (43,9%, record negativo). Sono quasi del tutto spariti i 5 Stelle, anche questo era considerato fatale alla vigilia. Nei test locali dove i grillini si presentavano da soli, ci sono stati comportamenti diversi dell’elettorato: a Pinerolo hanno vinto, a Cattolica hanno perso. Ha vinto sicuramente il Pd, e in particolare ha avuto ragione Enrico Letta a ribaltare il paradigma di Zingaretti: oggi è diventato subalterno il Movimento 5 Stelle e l’alleanza è più larga. Anche se il sindaco di Roma è un “contiano” ad personam, e quello di Milano, eletto al primo turno, non è più del Pd. Conte ha dovuto allinearsi ai 5 Stelle “vecchia maniera” annunciando il Movimento all’opposizione sia a Roma che a Torino. Il centro destra è andato male, anche lì dove aveva buoni candidati. Persino l’unico sindaco vincitore, l’uscente Di Piazza a Trieste, vera istituzione in città, ha faticato molto. C’è un problema di linea strategica da quelle parti: la radicalizzazione No Vax e la contestuale presenza nel Governo di Lega e Forza Italia hanno creato una contraddizione decisiva. In più la credibilità dei leader è variamente compromessa. Il “Non scherziamo” di Berlusconi pesa come un macigno sull’affidabilità di Salvini e Meloni.

La Polizia ha sgomberato con la forza il varco 4 del porto di Trieste, bloccato da quattro giorni per la protesta contro l’obbligo del Green pass. Un agente è stato ferito e fra i manifestanti ci sono stati tre contusi. Quanti erano davvero i lavori portuali di Trieste a resistere alle forze dell’ordine? Sembra di capire molto pochi, Biloslavo scrive stamattina una trentina. La protesta ha attirato estremisti No Vax di ultradestra e dei centri sociali. Intanto sul fronte dei numeri notizie contrastanti: scaricati nelle ultime ore almeno 200 mila Green pass ottenuti con la prima dose (gli altri 250 mila sono tamponi), mentre rialza la testa il contagio del virus in alcune regioni. L’emergenza non è finita.

L’ex commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri è stato interrogato come indagato a Roma per l’inchiesta sulle mascherine. La notizia non è stata pubblicata durante la campagna elettorale, il che farebbe pensare a investigatori e giudici sereni, non politicizzati. Di per sé la notizia sarebbe stata clamorosa. Si tratta infatti del più grande sequestro di mascherine messo a segno in Italia: 800 milioni di pezzi, sospettati di essere pericolosi. Mentre la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione degli imputati nell’inchiesta per i 300 morti del Trivulzio all’inizio della pandemia. Non ci sarebbero evidenze di condotte colpose o irregolari, i familiari delle vittime sono sul piede di guerra.

L’economia cinese frena bruscamente e i mercati si preoccupano, perché sentono il rischio di una stag-flazione globale. È morto Colin Powell, il generale americano ai vertici dello stato maggiore nella prima Guerra del Golfo e poi Segretario di Stato con il presidente George W. Bush. Ferrara ne fa un ricordo commosso, Powell portò le prove fasulle all’Onu con la provetta fake. Dall’Ungheria arriva la notizia che i partiti di opposizione hanno scelto un candidato cattolico anti sovranista e moderato per contrastare Orbán.

Il Sinodo della Chiesa cattolica visto dal basso ha un altro volto, rispetto alle discussioni teoriche e politiche, messe in campo dai media. Lo si capisce oggi leggendo le cronache di Avvenire. Una frase del cardinal Zuppi pronunciata domenica a Bologna fotografa la situazione: “È finita la cristianità, non è finito il cristianesimo”. Altro che elucubrazioni sulla Chiesa di papa Francesco.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Come a volte capita è il Manifesto a fare il titolo più azzeccato, su una foto del neo-sindaco di Roma Gualtieri: Pochi ma buoni. Happy few, come fa dire Shakespeare ad Enrico V prima della battaglia di Agincourt. Avvenire gioca invece coi nomi delle favole ma il concetto è identico: Cappottino rosso. Il Corriere della Sera va dritto sul risultato delle due città più importanti: Il Pd riconquista Roma e Torino. Per il Domani: La sconfitta di Salvini e Meloni segna il successo del Pd di Letta. Il Giornale apre una discussione interna: Autogol centrodestra. Il Quotidiano Nazionale allarga il discorso alla coalizione: Il centrosinistra si prende (quasi) tutto. Così come il Mattino che però sottolinea la scomparsa dei grillini: Centrosinistra, trionfo senza M5S. Il Messaggero va sul Campidoglio: Gualtieri sindaco, sfida Capitale. Repubblica è un po’ enfatica: L’Italia del centrosinistra. La Stampa più fatalista: Il centrosinistra si riprende le città. Non c’è disattenzione per il voto ma sia La Verità: Mascherine di Arcuri pericolose ma i pm si svegliano troppo tardi, che Libero La banda degli onesti: Arcuri indagato, privilegiano l’inchiesta penale sull’ex commissario anti Covid. Anche il Fatto non tematizza il dato elettorale e si lamenta della Polizia a Trieste: I fascisti li scortano, i No Pass li caricano. Ma non è che c’erano fascisti anche ieri al porto? Il Sole 24 Ore ci riporta alla dura realtà dell’economia globale: Brusca frenata per il Pil della Cina.

VITTORIA NETTA DEL PD, MA CON POCHI VOTI

Cappotto o vittoria tennistica del centro sinistra che sia, il primo dato resta la scarsa affluenza. La cronaca di Andrea Fabozzi sul Manifesto, che calcola: a Roma Rutelli da solo prese più voti di tutti i votanti di oggi.

«Votare per scegliere il sindaco della propria città interessa ormai solo una minoranza di elettori. In media in Italia 44 elettori su 100. Ma è una media che non dice tutto, perché nei piccoli centri in generale va meglio e nelle grandi città peggio, in alcuni casi molto peggio. Nelle regioni dove si votava solo in comuni medio-piccoli, come Abruzzo, Puglia, Basilicata, Molise e Toscana, l'affluenza media riesce almeno a restare sopra il 50%. Invece è proprio Roma a registrare il calo più forte nell'affluenza tra il primo e il secondo turno (-7,86%). Quello della Capitale è anche il dato più basso tra i tre capoluoghi di regione al ballottaggio: per Gualtieri o per Michetti vota solo il 40,68 degli elettori (a Torino il 42,14, meno 5.94% e a Trieste il 42%, meno 4%). Questo significa che nella capitale - come previsto hanno scelto il sindaco meno di un milione di romani (960mila). Per trovare un precedente a questa «bassezza» bisogna tornare indietro di settanta anni, al 1952 quando però la città era grande (e abitata) la metà. Per stare a un periodo più recente, e a parità di abitanti, negli anni Novanta Francesco Rutelli ha vinto due volte le elezioni conquistando da solo lo stesso numero di elettori che nel complesso sono andati a votare tra domenica e lunedì. Un'affluenza così bassa è dunque, inevitabilmente, la prima causa dei risultati di ieri: sono stati innanzitutto gli assenti ad assegnare le vittorie nei ballottaggi e vedremo in che senso. Ballottaggi che nel complesso hanno premiato il centrosinistra, vittorioso in 32 della 65 città in palio (ma solo in otto casi in alleanza formale con il Movimento 5 Stelle). Sono state invece 14 le vittorie del centrodestra o della destra, 13 quelle dei candidati di liste civiche e cinque quelle del Movimento di Giuseppe Conte, che però ha perso gli unici capoluoghi dove aveva la sindaca (Roma, Torino e Carbonia al primo turno). Pd e alleati vincono in otto dei dieci capoluoghi di provincia che erano in corsa, conquistandone dunque cinque in più rispetto al 2016. Di queste nuove cinque, due sono città strappate al M5S (Roma e Torino) e tre città strappate al centrodestra. In questo caso due volte su tre i candidati del centrosinistra, a Cosenza e a Isernia, hanno avuto l'appoggio dei 5 Stelle, che a Savona lo hanno invece negato. In definitiva gli unici due capoluoghi di provincia dove il candidato di centrosinistra non ha vinto sono stati quelli dove è stato confermato il sindaco uscente, Trieste e Benevento. Quasi ovunque il candidato di centrodestra ha preso meno voti al secondo turno che al primo. È successo a Cosenza, a Latina , a Isernia, a Torino e a Savona. Non è successo solo a Caserta e a Varese dove però il centrodestra ha perso ugualmente, a Roma dove Michetti nei due turni ha guadagnato quasi niente (fermandosi, come vedremo, nei Municipi decisivi). Non è successo anche a Trieste, dove a Dipiazza ha mantenuto gli stessi voti del primo turno (precisi, tranne 31) ma in virtù del forte vantaggio è riuscito a prevalere di un soffio su Russo che pure ha raccolto 10mila voti in più (guarda caso esattamente la somma di quelli andati al primo turno a 5S e sinistra)».

Marco Travaglio si consola con i risultati dei sondaggi di Mentana che danno i 5 Stelle “a soli tre punti” dal Pd. Secondo lui, anche i vincitori non ci hanno capito nulla.

«La prima notizia è che vincono i candidati sindaci del Pd coi voti degli elettori giallorosa. La seconda è che perdono i candidati sindaci del centrodestra coi voti di FdI, Lega e FI . La terza è che l'astensione (targata soprattutto M5S e Lega) tocca il record del 60% e i sindaci che vincono col 60% dei voti rappresentano il 25% degli elettori. Ma la vera notizia è che né i vincitori (un Letta giustamente euforico, ma stranamente confuso) né i vinti hanno capito cos' è accaduto alle Comunali e potrebbe accadere alle Politiche. Anche perché tutti, aiutati dai sedicenti esperti, confondono le une con le altre. 1. Alle Comunali si vota su due turni e conta il candidato sindaco, alle Politiche si vota su un turno unico e conta il leader nazionale candidato premier. Se gli elettori avessero trovato sulla scheda la Meloni al posto di Michetti-chi? non ci sarebbe stata partita. Lo stesso vale per il leader più popolare, cioè Conte, che ha dalla sua due buone esperienze da premier: il suo nome in lista avrebbe effetti ben diversi da quelli di una Sganga e pure di una Raggi dopo cinque anni di massacro. 2. Alle Politiche, per poca che sia, voterà molta più gente di ieri: Letta è sicuro di essere più appetibile per chi non ha votato di una Meloni e di un Conte (magari col recupero dei movimentisti alla Di Battista e un minor appiattimento su Draghi)? Il Pd, ultimo partito d'establishment, deve sperare che le urne restino riservate alle élite delle Ztl (a Torino Lorusso ha preso meno voti di Fassino cinque anni fa nel ballottaggio rovinosamente perduto contro l'Appendino). Ma, se una parte degli attuali non votanti riprendono a votare, cambia tutto: ieri l'ultimo sondaggio di Mentana, dopo due settimane di revival "fascismo-antifascismo", dà FdI e Lega in crescita e i 5S a meno di 3 punti dal Pd. 3. L'alibi dei "candidati sbagliati" regge fino a un certo punto. Certo, Michetti era comico, infatti ha gonfiato le vele a Calenda, vero candidato della destra finanziaria e palazzinara. Ma Damilano era un buon nome e ha pagato i quattro veri handicap che tarpano le ali delle destre: la guerra civile tra Meloni, Salvini e i resti di FI ; l'impresentabilità delle classi dirigenti, che regalano al nemico i "mostri" perfetti (da Morisi a Durigon ai baroni neri alle altre fascisterie); il flirt con i No Vax (il Green pass è tutt' altra cosa) che la gente normale non segue; il dissanguamento della Lega a trazione Giorgetti ammucchiata al centrosinistra nel governo Draghi.».

Marco Iasevoli per Avvenire insiste nell’articolo di fondo sui guai del centro destra.

«Chi sa se i leader di Lega e Fratelli d'Italia dedicheranno una parte delle loro analisi - sinora tendenti all'autoassoluzione - allo strano effetto che fa, alla maggioranza silenziosa degli italiani, vederli aizzarsi ogni giorno contro gli strumenti sanitari che stanno restituendo libertà al Paese e al contempo non riuscire a dire la parola 'fascismo' senza smorfie di fastidio o di ironia (anche se Meloni, alla fine su questo è stata netta e chiara). In particolare per Salvini, dopo i ballottaggi il tempo delle scelte è davvero a un passo: altre esitazioni - ad esempio sulla legge di bilancio - potrebbero costargli caro. Allo stesso tempo, è vero che l'enorme tasso di astensionismo non può consentire a nessuno di provare euforia oltre i limiti del buon senso. Evidentemente, i tre fattori principali di questa fase politica - il governo pragmatico di Mario Draghi, l'evoluzione 'contiana' di M5s e il ballo al confine tra normalità e sovranismo delle due Leghe - hanno contribuito a riportare in 'sala d'attesa' milioni e milioni di italiani e di voti. Anche il Pd di Enrico Letta, vincitore sul campo, soprattutto dove M5s ha ceduto il passo come a Roma e Torino, segna una contrazione quantitativa dei consensi e deve osservare la crescita di eterogenee e ancora disarticolate aree di centro, capaci comunque di risucchiare voti dai dem anche, evidentemente, per la linea politica assunta da questi su alleanze e temi sensibili. In nessuna delle città vinte dal centrosinistra (con o senza M5s) si è risvegliato un vero sogno, una passione, un'ondata di partecipazione. Il rischio di 'vittorie stanche' è alto anche per il segretario dem e per l'intero campo del centrosinistra (così come, ovviamente, per le amministrazioni vinte o confermate da un centrodestra che oggi, ripetiamolo, è un destracentro). Indagare l'astensionismo è ora compito dei leader già in campo e di quelli che potrebbero candidarsi ad esserlo da qui al 2023».

LA VITTORIA DI LETTA

I critici cercano di ridimensionare le sue dichiarazioni soddisfatte, ma Enrico Letta ha vinto, soprattutto nel ribaltare i rapporti di forza con i 5 Stelle. Giovanna Vitale per Repubblica.

«La prima decisione, subito dopo la celebrazione della vittoria in favor di telecamere, è contravvenire alla stretta del tesoriere: «Per favore qualcuno può andare a comprare due bottiglie di prosecco? Sempre che a Verini non prenda un colpo», scherza con un sorriso largo così Enrico Letta, chiedendo a due ragazzi dello staff di scendere al bar di fronte per fare rifornimento. Il frigo del Nazareno langue, dentro c'è solo acqua minerale: un po' perché la sobrietà è il marchio della casa, un po' perché «nessuno si aspettava un risultato tanto netto, 6 a 1», si danno di gomito, quasi increduli, Enrico Borghi e Piero De Luca. Alle sei di sera, sul terrazzino attiguo alla stanza del segretario, i ministri Franceschini e Orlando, le capigruppo Malpezzi e Serracchiani, il vice Provenzano e il neosindaco Gualtieri, insieme a una pletora di parlamentari, si ritrovano per brindare a quello che poco prima il leader dem non ha esitato a definire «un trionfo che va oltre ogni rosea aspettativa». Così «ampio e indiscutibile » da restituire una volta per tutte al Pd «il ruolo di partito guida, di federatore del centrosinistra», rivendica Letta abbandonando ogni diplomazia, ché «se non l'avesse perderebbe la sua ragion d'essere». È questo lo schema che lui aveva in mente sin dal principio: la costruzione di una coalizione inclusiva, da Renzi a Fratoianni, alleata con il M5S di Conte «che ha saputo gestire bene la complicata fase di transizione », e il Pd a far da perno e motore. Lo stesso schema che intende riproporre alle politiche, quando sarà: «Non ho dubbi che nei prossimi giorni lavoreremo per tenere assieme tutti quelli che hanno corso con noi alle amministrative», scandisce il segretario. Pronto a un nuovo giro di incontri al vertice, facilitati dal suo ritorno (oggi) in Parlamento. Si rende conto che «non sarà una passeggiata», Letta: conosce le idiosincrasie di Renzi e Calenda nei confronti dei grillini, cordialmente ricambiate, «ma ci proveremo a portare tutto questo a livello nazionale». Un carnet di successi spalmati da Nord a Sud in modo omogeneo: «Vinciamo ovunque e comunque», rimarca l'inquilino del Nazareno citando, oltre a Roma e Torino, i «casi emblematici» di Varese e Latina: «Sia dove il centrodestra aveva azzeccato i candidati sia dove non li aveva azzeccati» e «con percentuali del 60%, in periferia come nelle metropoli», a riprova che «il Pd non è più il partito delle Ztl». Due le armi, appena sperimentate, su cui puntare: la spinta degli elettorati «che si sono saldati, vogliono unità e si sono dimostrati più avanti di noi», hanno saputo cioè superare le divisioni e i veti imposti dai vari capi e capetti di un centrosinistra ancora troppo frammentato. E l'apertura alle tante associazioni, forze civiche e reti di cittadinanza che già hanno contribuito alla conquista delle città e ora costituiranno l'ossatura delle Agorà democratiche lanciate da Letta per allargare il campo a energie fresche e realtà fin qui trascurate. Chiaro l'obiettivo: rendere meno decisivi i cespugli del Nuovo Ulivo, diluirne l'influenza al centro come a sinistra. Lo dice con la consueta franchezza il vicesegretario Provenzano: «I risultati ci affidano la responsabilità di guidare il campo progressista. Non ricadremo nell'errore esiziale dell'autosufficienza. Ma non possiamo accettare veti. La discussione va ribaltata: il tema non è cosa fa il Pd, che è il perno dell'alternativa alla destra, ma cosa fa chi si vuole alleare col Pd». Ora sta a Renzi, Calenda e Bonino scegliere: o di qua o di là».

IL MALUMORE NEL CENTRO DESTRA

Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa sostiene che “c’è un pezzo di destra a cui questa destra fa ribrezzo, e preferisce votare a sinistra o rimanersene a casa”. Augusto Minzolini sul Giornale .

«Il centrodestra ha perso per demeriti. Ha quasi dato l'impressione per usare un paradosso - che gli piaccia perdere facile. Ha messo in campo (tardi) una classe dirigente nella maggior parte dei casi modesta. I due limiti, messi insieme, si sono rivelati letali. Si è preferito a Roma un brav' uomo come Michetti ad un personaggio di statura nazionale come Guido Bertolaso. Una scelta che dimostra come nella coalizione ci sia un ritardo concettuale nel comprendere la fase politica post-Covid: se prima dell'epidemia una leadership espressione delle ali più estreme e populiste dello schieramento aveva la possibilità di vincere, ora no. Se oggi il pragmatico, concreto, moderato Draghi è il personaggio più popolare nel Paese, nella Capitale non puoi presentare Michetti. Questo limite rischia di riproporsi anche alle elezioni politiche se Salvini e Meloni insisteranno nella competizione interna che punta a strappare un voto in più dell'alleato per conquistare la premiership. Un riflesso più da legge elettorale proporzionale che non maggioritaria: in un sistema bipolare devi preoccuparti più della vittoria della coalizione che non del partito, e non per nulla devi candidare un nome che abbia una maggiore capacità di rappresentanza, che attiri elettori di confine con l'altro polo. Quindi, un candidato moderato di frontiera, come lo furono in passato Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Se, invece, persisti nella convinzione che il Paese si esaurisca tutto nel centrodestra, rischi la «sindrome Le Pen»: tanti voti, ma non abbastanza per governare. Infatti, gli unici vincenti in queste elezioni sono state - in Calabria e a Trieste - due figure moderate, espressione diretta di Forza Italia».

Michele Serra ragiona sul destracentro (copyright Avvenire) e però, come sempre, prende in giro.

«Finché a criticare la destra, a partire dalla paurosa gracilità della sua componente liberale, sono quelli di sinistra, cambierà ben poco. E anzi, la nomea di "elitarismo" che grava sulla sinistra, giusta o sbagliata che sia, ne uscirà ogni volta rafforzata, perché è impossibile tacere un sonante disprezzo per la demagogia becera che sprizza dagli attuali leader della destra italiana (emuli del Berlusconi delle origini, se non si vuole fare finta di niente). La grande sorpresa sarebbe che, a rendere trascurabili e indebite le critiche della sinistra, fosse la destra stessa, qualche suo leader inedito o qualche suo esponente pensante e stimabile (faccio il nome di Guido Crosetto), che a parte l'inevitabile seppure tardiva presa di distanze dal fascismo, tremenda zavorra soprattutto nel Paese che l'ha inventato, dica finalmente qualcosa di destra: tipo che bisogna studiare, che si rispettano le leggi e le regole, che educazione e gerarchia sono pezzi decisivi del pensiero conservatore di ogni epoca, che il mito della borghesia, nella formazione di uno spirito nazionale sobrio, laico e soprattutto non provinciale, conta almeno tanto quanto il mito del popolo, e forse, se si è davvero di destra, conta anche qualcosa di più. Non c'è nessun secondo fine nell'invocare, come controparte, una destra decente, democratica e autorevole. Sarebbe un salto di qualità per tutto il Paese. La sinistra se ne gioverebbe enormemente, costretta a litigare sui temi del lavoro, della redistribuzione dei redditi, delle tasse, non più sugli elmi cornuti e sulle turbe No Vax. Una destra seria sarebbe molto più vaccinata della sinistra».

5 STELLE, L’INCUBO DELLA FINE PROSSIMA

Preoccupazioni sul futuro del Movimento. Ma Conte frena promettendo: «Nelle città saremo all'opposizione». Il leader è pronto a nominare i vice: serve riorganizzarsi. Emanuele Buzzi per il Corriere.

«A fari spenti. I Cinque Stelle guardano i ballottaggi senza essere protagonisti nelle sfide principali. L'attenzione è rivolta soprattutto ai piccoli centri dove alcuni sindaci eletti tentano il bis. Sono i comuni dove il Movimento corre da solo (o con civiche) e cerca di misurare la propria forza. A Pinerolo (Torino), a Castelfidardo (Ancona), Noicattaro (Bari), Ginosa (Taranto) arriva la conferma. Che invece sfugge a Cattolica (Rimini) e Marino (Roma). E sfuma anche la conquista di Beinasco (Torino) che va al centrodestra per 250 voti. I risultati scatenano un misto di amarezza e ironia. C'è chi commenta con un fantozziano «tutti a Pinerolo», c'è chi teme che «l'ennesima prova della fine imminente». I parlamentari attendono che a prendere posizione sia il loro leader, Giuseppe Conte. Il neo presidente tarda a intervenire e tra loro scatta il panico: «Tutti i leader hanno commentato l'esito dei ballottaggi, è possibile che, ancora una volta, siamo gli unici a non avere una linea?», commenta un parlamentare. A stretto giro, però, arrivano le parole di Conte, che ringrazia Virginia Raggi e Chiara Appendino, annuncia che il Movimento 5 Stelle «a Roma, Torino e Trieste sarà all'opposizione» anche se «lavoreremo in modo costruttivo». Conte punta l'indice sulle urne deserte. «Il vero protagonista di questa tornata di ballottaggi è in modo drammatico l'astensionismo. Un astensionismo che sfiora il 60% è un dato che deve farci riflettere», dice. Ma è consapevole anche che l'avvio del nuovo corso M5S non possa più essere rimandato. «C'è poco da parlare e molto da fare - afferma -. A partire dalla nostra immediata riorganizzazione, dalla nostra rinnovata capacità di saper rispondere ai territori, al cuore del nostro Paese». Ora Conte dovrà cercare di vincere le resistenze di Beppe Grillo per la sostituzione del capogruppo a Montecitorio. La squadra dei vicepresidenti è pronta e un annuncio sarà fatto «a breve». I nomi circolano da tempo: Paola Taverna, Vito Crimi, Mario Turco, Alessandra Todde. Intanto nei prossimi giorni il presidente cercherà di sedare le tensioni interne: parteciperà all'incontro organizzato da Virginia Raggi con parlamentari M5S laziali e - se sarà organizzata - non è esclusa la sua presenza anche alla riunione di deputati e senatori. Anche Luigi Di Maio invoca unità: «Occorre remare, compatti, nella stessa direzione. Rimaniamo concentrati sul rilancio del Paese, c'è tanta voglia di tornare a vivere normalmente, a lavorare e a progettare il futuro». Punge invece Roberta Lombardi. E va in controtendenza rispetto a Conte. Parlando di Roma e di Roberto Gualtieri, dice all'Adnkronos : «Adesso aiuteremo il nuovo sindaco a partire da quanto di buono fatto nei 5 anni precedenti dal M5S». Il timore diffuso è che le frizioni nelle prossime settimane aumentino in modo esponenziale. L'addio di una ventina o più di deputati ormai nel gruppo viene dato per scontato («Perché dovrebbero rimanere e finanziare un progetto che non riguarda il loro futuro?»). Le restituzioni languono. Diversi parlamentari chiedono a Conte un intervento deciso soprattutto sui programmi: «Serve una svolta subito, un cambio di passo, una nuova agenda». C'è anche chi però vede il bicchiere mezzo pieno: «Se davvero non avessimo appeal non saremmo riusciti a riconfermarci in 5 comuni. Iniziamo a prendere ciò che c'è di buono. Non siamo più il M5S di una volta, ora c'è una nuova realtà». Ma lo sconforto in queste ore sembra avere la meglio».

MANOVRA DI BILANCIO E QUIRINALE

I prossimi appuntamenti della politica, dopo il voto, sono la manovra economica di fine d’anno del Governo e il rinnovo del Presidente della Repubblica. L'esito del voto non cambia l'agenda del premier ma c'è l'incognita di Reddito e Quota 100. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Come se non si fosse votato. Mario Draghi si sofferma poco, pochissimo sulle comunali. Sa che è il momento dei leader politici, delle loro analisi e delle loro valutazioni. Ed è convinto di poter sfruttare la specificità del suo ruolo - esterno ai partiti - per evitare di mettere bocca direttamente. Dopo il primo turno, temendo contraccolpi, aveva accelerato sull'agenda economica, imponendo la delega fiscale. Replicherà il copione, adesso che i sovranisti sono stati quasi cancellati dalle mappe elettorali di questi ballottaggi. Ci ha lavorato ieri, tutto il giorno, in stretto contatto con il ministro dell'Economia Daniele Franco. E così, oggi riunirà la Cabina di regia e poi il Consiglio dei ministri per approvare il documento programmatico di bilancio e impostare le linee guida della manovra. Venerdì pomeriggio, di rientro dal Consiglio europeo di Bruxelles - o al più tardi lunedì prossimo - dovrebbe arrivare il via libera definitivo al testo. Deve blindarla al più presto per sottrarla allo scontro politico delle prossime settimane. Un passo indietro. Nelle ultime 48 ore l'attenzione del premier si è concentrata attorno alle proteste della galassia anti-vaccini e anti- Green Pass. Forse, è la riflessione, è stata data troppa enfasi a questi eventi, visto che l'ordine pubblico ha tenuto, nonostante i timori della vigilia, e il voto non ha premiato chi ha cavalcato l'onda dei "no pass". Ma questa è, appunto, battaglia politica, dalla quale il presidente del Consiglio preferisce tenersi fuori. Semmai, continua a mandare segnali nella direzione dell'agenda di governo. E lo stesso deve valere per la legge sulla concorrenza, che sconta un significativo ritardo. Il premier vuole metterle al riparo dalle possibili tensioni della maggioranza. In particolare, dai posizionamenti dei leader sconfitti nelle urne: Lega e Movimento in testa. Sono proprio loro a far temere uno scontro sulla manovra. E, in particolare, sul reddito di cittadinanza e quota 100, terreno ideale per affermare un'identità uscita ammaccata dalle elezioni. Per Draghi, l'azione dell'esecutivo non può essere condizionata dalle elezioni amministrative. Certo, scavando si intuisce che a Palazzo Chigi avrebbero preferito un risultato meno squilibrato. Ma si apprende anche che si temeva uno scenario addirittura peggiore: una disfatta di Salvini accompagnata dalla vittoria di Meloni. Questo sì, sostengono, che avrebbe messo alla prova la tenuta della maggioranza. Non è finita in questo modo. E, forse non a caso, il leghista ha subito ridimensionato l'effetto della grave sconfitta. Se c'è una cosa che il premier non farà, comunque, è intaccare la formula politica che l'ha condotto alla guida del governo. Considera l'unità nazionale uno schema necessario, anzi imprescindibile, almeno fino all'elezione del nuovo presidente della Repubblica. E questo nonostante il fatto che i sovranisti siano stati duramente sconfitti, mentre i partiti "istituzionali" - quelli che si sono attestati sulla linea del premier, a partire dal Pd, e che adesso gli chiedono di continuare fino al 2023 - risultano premiati dal voto. Per Draghi questo non cambia la necessità di mantenere in maggioranza la Lega. Per almeno due ragioni. La prima è che proprio un sostegno ampio delle forze politiche gli consente di gestire i singoli dossier con flessibilità: una volta concedendo agli uni, una volta dando ragione agli altri. Preservando il suo profilo, evitandogli la condizione di dipendere soltanto da una maggioranza di centrosinistra. Questo si lega al secondo vantaggio di guidare un governo di unità nazionale: la possibilità di giocare una partita per il Colle. La strada non è in discesa, né il premier intende esporsi. Ma è chiaro che difficilmente potrebbe spuntarla, senza il sostegno della destra. Proprio il rebus del Quirinale condiziona inevitabilmente il cammino dei prossimi mesi. A ben guardare, manca pochissimo. Roberto Fico ha già deciso di rispettare alla lettera la tabella di marcia imposta dalla Costituzione. Il 3 gennaio, a un mese esatto dalla scadenza del settennato di Sergio Mattarella, indicherà la data del voto in seduta comune. Due quelle possibili: 14 o 17 gennaio. Significa che già a fine dicembre, archiviata la manovra, l'azione di Draghi sarà congelata in attesa di questo snodo decisivo. Il tempo è poco, il governo adesso deve correre».

Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere è sullo stesso nodo di calendario.

«E meno male che di Quirinale si comincerà a parlare «solo da gennaio», come dice Letta. In realtà, siccome la trattativa per il Colle è parte di un pacchetto che comprende anche la legge elettorale e la data del voto, il segretario del Pd è già impegnato nei contatti con le altre forze politiche. Infatti Calderoli l'ha cercato per conto di Salvini, per verificare la disponibilità a cambiare il Rosatellum con un sistema proporzionale che preveda un premio di maggioranza per la coalizione. Ma nel corso delle conversazione Letta si è concentrato soprattutto sulla modifica dei regolamenti parlamentari, per impedire di qui in avanti le ormai tradizionali transumanze di deputati e senatori. E al termine del colloquio il dirigente leghista ha spiegato a Salvini che «secondo me non se ne farà nulla». Prima delle Amministrative il leader dem aveva dovuto anche respingere le pressioni dei suoi compagni di partito, ai quali aveva chiesto «tempo per pensarci». La netta vittoria di ieri pare l'abbia convinto a non pensarci più. Anche se resta il problema di trovare un'intesa bipartisan su quel «pacchetto» che consegna ai partiti ancora un ruolo, dato che nel governo il ruolo ce l'ha solo il premier. Per quanto, a sentire il renziano Rosato, «se Draghi dovesse formalizzare la sua candidatura al Colle, nessuno avrebbe la forza di opporsi». In tal caso però un pezzo del Pd, da Zingaretti a Bettini, avrebbe in mente una variabile: votare Draghi al Quirinale e spingere per cercare di andare subito dopo alle elezioni, prendendo d'infilata gli avversari. In effetti le urne consegnano un centrodestra privo al momento di guida e di linea politica, logorato da una competizione per la leadership tra Salvini e Meloni, che invece di indicare un vincitore è finita con due sconfitti. Il caos emerge dall'urgenza con la quale ieri la leader di FdI ha chiesto un vertice della coalizione, ammettendo che tra alleati ci sono «posizioni diverse». Ecco perché persino esponenti della segreteria dem accarezzano (e non da oggi) l'idea di approfittarne, sfruttando l'attuale sistema di voto che - secondo i loro calcoli - permetterebbe di conquistare dei collegi al Nord, e grazie ai grillini buona parte di quelli al Sud. Conte sarebbe stuzzicato dalla prospettiva. Tanto che, dinnanzi alle richieste di quanti nel Movimento chiedono il proporzionale, l'ex premier ha fatto il pesce in barile: «Anche a me piacerebbe, ma non vorrei rompere con Letta...». Ieri il segretario del Pd ha formalmente scartato l'ipotesi del voto anticipato, citandola. Un'abile mossa, funzionale intanto a tenere uniti i gruppi parlamentari, dove c'è chi esorcizza l'eventualità delle urne, avvisando che «sarebbe il Papeete di Enrico». Se «Enrico» frena è anche per un altro motivo: vuole provare ad allargare il campo del centrosinistra, strappando agli avversari i centristi tendenza Letta (Gianni) che mostrano insofferenza verso i sovranisti. Immaginare una «coalizione Ursula» insieme a Berlusconi è irrealistico: il Cavaliere si muoverebbe solo per il Colle. Letta (Enrico) potrebbe ugualmente riuscire nell'impresa se, con Draghi al Quirinale, si formasse un nuovo governo senza la Lega. In ogni caso i centristi dell'altra sponda chiedono a garanzia una legge elettorale proporzionale. Come spiega il capogruppo di Coraggio Italia, Marin, «proprio questa legislatura, con i suoi tre diversi governi, dimostra che il maggioritario non porta al bipolarismo». Così si torna al punto di partenza. E se la trattativa sul «pacchetto» non si sblocca, è perché le variabili sono numerose e bisogna fare i conti con i numeri necessari per eleggere il capo dello Stato. I grillini come Buffagni, per esempio, sono consapevoli che sulla partita della legge elettorale e del Colle, il Movimento non solo non è in campo ma neppure in panchina. Sta in tribuna. È vero che Di Maio - come rivela una fonte autorevole del M5S - incontra riservatamente molte personalità: da ultimo anche Cantone, Severino e Veltroni. «Ma noi che siamo il gruppo di maggioranza relativa - ha detto Buffagni a un gruppo di cinquestelle - non possiamo agire di rimessa. Dobbiamo incidere sulla scelta del Quirinale, evitare le elezioni anticipate e puntare sul proporzionale per sfuggire all'abbraccio mortale che ci porterebbe ad essere residuali». E siamo appena ad ottobre...».

TRIESTE, LO SGOMBERO DEL PORTO

Giornata di tensione e di guerriglia ieri a Trieste. Dopo quattro giorni la Polizia ha sgomberato il varco 4 del porto, bloccato dalla protesta dei No Green pass. Le forze dell’ordine hanno usato idranti, fumogeni e cariche. Ma i portuali erano solo una trentina, secondo Fausto Biloslavo che ha scritto ancora per il Giornale. Al loro fianco sono comparsi anarchici ed estremisti di destra. Ecco la sua cronaca.

«I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli». Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera».

MILIONI DI MASCHERINE SOTTO SEQUESTRO, INDAGATO ARCURI

Le accuse sono di abuso d'ufficio e di peculato. La fornitura di mascherine è considerata "pericolosa per la salute" e la Finanza sta sequestrando in tutta Italia un lotto da 800 milioni di mascherine arrivate in Italia a inizio pandemia. Andrea Ossino per Repubblica.

«È il più grande sequestro di mascherine messo a segno in Italia. Praticamente quasi la metà dei dispositivi di protezione individuale arrivati nel periodo caldo dell'emergenza Covid non erano conformi alla legge, o peggio ancora, erano dannosi per la salute. Per questo motivo i finanzieri del Nucleo valutario hanno bussato alla porta della Protezione civile nazionale, di una serie di strutture locali e continuano a dare la caccia ai corrieri che ancora oggi custodiscono parte della fornitura da oltre 800 milioni di mascherine costata alle casse dello Stato più di 1,2 miliardi di euro. L'operazione è importante. E va inquadrata nell'inchiesta che vede indagati, tra gli altri, il giornalista Rai in aspettativa, Mario Benotti, Andrea Vincenzo Tommasi ed Edisson Jorge San Andres Solis. Si tratta della stessa indagine per cui l'ex capo della struttura commissariale per l'emergenza, Domenico Arcuri, sabato scorso è stato convocato in procura e ascoltato come indagato. Accusato di peculato, abuso d'ufficio e corruzione (ma su quest' ultimo reato pende la richiesta di archiviazione) per aver avvantaggiato Benotti, l'ex commissario avrebbe saputo che parte dei proventi dell'affare sarebbero finiti nelle tasche dei mediatori. Tuttavia, secondo i pm, non avrebbe stipulato i contratti necessari e avrebbe impropriamente usato i fondi pubblici. Tutte accuse che Arcuri ha respinto. A prescindere dalla natura più o meno liceità della maxi fornitura, quel che preoccupa è il risultato. «L'emergenza - secondo i magistrati - ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili». «Pur di non lasciare la popolazione sanitaria sprovvista di tutela» sono state importate mascherine fidandosi della documentazione allegata. Le mascherine sono finite negli ospedali. Ma quando sono sorti i primi sospetti e gli inquirenti hanno iniziato a fare analisi a campione è emersa una verità. Tra le 801.617.647 di mascherine c'erano anche dispositivi non conformi alle prescrizioni e, in qualche caso, i laboratori di analisi interpellati hanno mostrato una realtà allarmante: «Attenzione, dispositivo molto pericoloso». Il responso è lapidario: «I requisiti di efficacia protettiva richiesti » non erano soddisfatti e «addirittura alcune forniture sono state giudicate pericolose per la salute».

La Verità di Maurizio Belpietro ha seguito per mesi la vicenda delle mascherine pericolose, acquistate in modo sospetto dalla struttura del commissario Arcuri, anche nel disinteresse del resto della stampa italiana. Oggi Belpietro pone due domande: quante persone si sono infettate a causa di mascherine inadatte? Perché dopo un anno non sono state ancora ritirate dal mercato?

«Se ci occupiamo della vicenda non è per rivendicare una primogenitura nella pubblicazione della notizia, ma solo perché, oltre a sentire la versione di Arcuri, i pm della Capitale hanno deciso di sequestrare alcuni milioni di mascherine farlocche, che pur essendo state pagate per buone non lo sono, nel senso che non proteggono dal virus come dovrebbero. Sono mesi, anzi quasi un anno, che parliamo di forniture che non hanno i requisiti di norma. Le inchieste aperte in mezza Italia attestano che faccendieri senza scrupoli e funzionari senza competenza ci hanno inondato di dispositivi che non proteggevano dal virus. In pratica, qualcuno si è arricchito, incassando milioni, sulla pelle dei malati. A questo punto, a prescindere dalle responsabilità di Arcuri, ammesso e non concesso che ce ne siano, sono necessarie due domande. La prima è semplice: quante persone si sono infettate e hanno rischiato la vita o magari l'hanno persa grazie a una mascherina che non filtrava il coronavirus? La seconda è altrettanto semplice, ma forse rispetto alla prima non richiede neppure di fare approfonditi calcoli: perché, a distanza di un anno dalle prime segnalazioni circa la mancanza di requisiti delle forniture di mascherine, ancora non sono state ritirate dal mercato, impedendo che altri italiani si infettassero? C'è qualcuno da ringraziare per tanta lentezza o è la solita storia della nostra giustizia a due velocità?».

ECONOMIA, LA BRUSCA FRENATA CINESE

Nonostante la notizia dei risultati elettorali, il Sole 24 Ore ha scelto di aprire oggi la sua prima pagina sul calo del Pil in Cina. La crescita nel secondo trimestre è stata infatti solo del 4,9% contro il +7,9% del primo. Le cause della frenata? Crisi energetica, carenza di materie prime e di microchip assieme alla crisi immobiliari dell’ Evergrande. I mercati non l’hanno presa bene.

«La crescita cinese frena sul finire d'anno. Perde tre punti il Pil del terzo trimestre, passando dal +7,9% di aprile-giugno al 4,9% di luglio-settembre. Il rallentamento è continuo se ci si riferisce alla performance di inizio anno in rialzo rispetto all'andamento a "V" innescato dal Covid-19 nella seconda parte del 2020. Anche altri indicatori come la produzione industriale, le vendite al dettaglio e gli investimenti in costruzioni mostrano segni di frenata. Rispetto al trimestre precedente, la produzione è cresciuta di poco nel periodo luglio-settembre, espandendosi solo dello 0,2 per cento. Il valore è sceso dall'1,2% nel periodo aprile-giugno segnando uno dei trimestri più deboli dell'ultimo decennio. A settembre, la crescita della spesa al dettaglio si è indebolita scendendo al 4,4% rispetto all'anno precedente, in calo dal 16,4% dei primi nove mesi. Gli investimenti in immobili, fabbriche, abitazioni sono aumentati dello 0,17%, dal 7,3% dei primi nove mesi. Altro punto dolente, le vendite di auto nel più grande mercato mondiale sono diminuite del 16,5% a settembre sul 2020, stando ai dati della China Association of Automobile Manufacturers che ammette: la produzione è stata condizionata dalla carenza di chip per processori. Al tempo stesso - va ricordato - a settembre la Cina ha registrato un'inflazione ai massimi da 26 anni a questa parte, con un significativo +10,7% sul 2020. In contemporanea, tuttavia, la bilancia commerciale ha segnalato un surplus crescente, anche rispetto all'interscambio con gli Stati Uniti. Merito della domanda forte da Nordamerica e Europa, con l'export cinese, a settembre, in crescita a due cifre (+28%), di due punti in più su di agosto, a 305,7 miliardi di dollari, ma il surplus con gli Usa, sostenuto da una robusta domanda, galoppa fino a toccare i 42 miliardi di dollari. L'import, aumentato del 33% in agosto, a settembre scende al 17,6%, a 240 miliardi di dollari. In parallelo, salgono del 49,5% nei primi 8 mesi dell'anno gli utili industriali, poco prima dell'esplosione della crisi energetica. In questa congiuntura mista, lo spartiacque tra la prima e la seconda metà dell'anno è l'andamento disastroso del settore immobiliare che resta il fattore chiave per capire cosa succederà entro al fine dell'anno. L'edilizia occupa milioni di posti di lavoro assorbendo un quarto del Pil cinese, ma ha rallentato il passo proprio a seguito degli interventi statali per mettere un freno al credito nel settore. La produzione, aumentata in settembre solo del 3,1%, il livello più basso dal marzo 2020, rispetto al +5,1% di agosto, è stata ostacolata sul finire dell'estate, a settembre, dalle interruzioni di corrente imposte da alcune grandi province per allinearsi alle direttive per risparmiare energia e tenere a bada l'inquinamento in linea con la strategia Cina carbon free entro il 2060. Non solo. Colossi dell'immobiliare come Evergrande, oberato da 300 miliardi di debito e già con tre rate di bond scaduti e non onorati, sono purtroppo in grado di condizionare l'intero settore, innescando uno shock che potrebbe essere negativo anche per la crescita nell'ultimo trimestre, con prevedibili stress finanziari. I dati economici di quest' anno soffrono di un confronto anomalo con il 2020, l'anno dello scoppio della pandemìa. Il Fondo monetario ha confermato l'outlook positivo, limando appena le stime, l'8% sul 2021, +5,6% nel 2022. Ormai è evidente che Pechino debba rivedere le prospettive di crescita sul 2021. Realisticamente, il Governo cinese ha fissato il target oltre il +6%, il che offre notevoli margini di manovra. Almeno finora».

MORTO POWELL, NEL 2003 PORTÒ FALSE PROVE

Sul Foglio Giuliano Ferrara (lo trovate nei pdf) lo ricorda con grande rispetto: “Powell era l'opposto di un cospiratore del Deep State”, ma è indubbio che Colin Powell, scomparso ieri all’età di 84 anni, passerà alla storia per la fialetta fake mostrata al mondo per giustificare la guerra a Saddam Hussein. Giampiero Gramaglia per il Fatto.

«Chi sarà il primo presidente nero degli Stati Uniti? Se l'aveste chiesto, negli anni 90, e ancora fino al 2001, a un qualsiasi afro-americano, vi avrebbe probabilmente risposto Colin Powell. La sua era stata una carriera senza passi falsi: il primo nero capo di Stato Maggiore delle forze armate Usa all'epoca della Guerra del Golfo - presidente Bush sr -, dopo essere stato il primo consigliere per la Sicurezza nazionale nero col presidente Reagan; e, nel 2001, era divenuto il primo Segretario di Stato nero con Bush jr. Repubblicano moderato, Colin Powell, che godeva della stima e del rispetto di molti democratici, è morto ieri di Covid, all'età di 84 anni, divenendo, così, il cittadino statunitense più illustre vittima del contagio. Pienamente vaccinato, ma affetto da un tumore e con difese immunitarie molto basse, prima di spirare ha ringraziato per le cure il personale del Walter Reed National Medical Center. Powell era da tempo in pensione ed era fuori da giochi da quando apparve chiaro che si era lasciato coinvolgere - non è mai emerso in che misura consapevolmente - nei giochi di George W. Bush e dei suoi "neo-cons", dopo l'11 settembre 2001, l'attacco all'Afghanistan, l'ondata di patriottismo che obnubilò gli Stati Uniti. Il Segretario di Stato rispettato ovunque divenne il volto della campagna per convincere il mondo che l'Iraq aveva armi di distruzione di massa, che invece non c'erano, e per giustificare l'invasione del Paese e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, che non c'entrava nulla con l'attacco all'America dell'11 settembre. La mattina del 5 febbraio 2003, Powell presentò all'Onu le prove - false - della minaccia irachena: dirà poi d'avere creduto, in buona fede, ai rapporti dell'intelligence, cui avrebbe però chiesto qualcosa di più convincente di una fialetta contenente polvere bianca e di foto di camion militari. La misura del fallimento della missione fu immediata e fragorosa: le sue parole furono ascoltate, ma non furono credute, e caddero nel gelo di una riunione allargata del Consiglio di Sicurezza. Invece, il veemente discorso anti-invasione del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin suscitò un applauso travolgente. Da quel giorno, la credibilità di Powell non si risollevò più: alla fine del primo mandato di Bush jr, lasciò l'Amministrazione, sostituito al Dipartimento di Stato da Condoleezza Rice, la prima donna nera in quel ruolo; nel 2008, sostenne alle Presidenziali Barack Obama, che realizzò il sogno da lui reso possibile; e, nel 2016, contrastò l'ascesa di Trump. Ma non recuperò più il rispetto e la stima di cui prima godeva nell'opinione pubblica degli Stati Uniti. "Abbiamo perso uno straordinario marito, padre, nonno e un grande americano", scrive la famiglia sui social. Dal suo eremo texano, Bush nota: "L'America perde un grande servitore dello Stato". Il presidente Joe Biden, che nel 2003 non si oppose all'invasione dell'Iraq, gli rende omaggio: rappresentava "gli ideali più alti della diplomazia e delle forze armate statunitensi". E l'attuale capo del Pentagono, un generale nero, Lloyd Austin, dice: "Il mondo ha perso uno dei leader più grandi". Nonostante fosse figura controversa, non c'è traccia di polemica nei commenti postumi a questo "guerriero riluttante" che combatté e perse una battaglia sbagliata».

HAITI SOTTO CHOC, PAESE FANTASMA

Sciopero nell’isola dopo il rapimento di 16 cittadini Usa e un canadese della ong “Christian Aid”. Tra loro ci sono cinque bimbi: uno ha due anni. I sospetti si concentrano sulla gang “400 Mawzoo”. La cronaca di Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Haiti si è fermata. Le strade di Port-au Prince, normalmente congestionate di veicoli e di venditori di qualunque tipo di marcanzia, erano vuote ieri. Scuole e negozi sono rimasti chiusi. Una capitale fantasma di un Paese fantasma. Non per un solo giorno. L'agonia dell'isola va avanti da mesi se non da anni. Lo sciopero ha solo squarciato il logoro velo di quotidianità dietro cui si nasconde il mondo per non vedere. Stavolta, però, non può farlo. Ad essere rapiti, sabato sera, nel sobborgo di Ganthier sono stati sedici cittadini statunitensi e un canadese - sette donne, cinque uomini e cinque bimbi, di cui uno di due anni. Tutti missionari del Christian Aid, organizzazione fondata in Millersburg, in Ohio, da comunità mennonite e Amish e presente da decenni ad Haiti, dove ha avviato numerosi progetti caritativi. Il gruppo è stato sequestrato proprio mentre visitava un orfanotrofio, appena fuori da Port-au-Prince. La zona era da tempo off-limits, perché territorio della "400 Mawzoo", la più potente delle settantasei bande proliferate nella capitale a causa degli ultimi anni di paralisi politica e caos istituzionale. Insieme ai rapimenti a scopo di estorsione, diventati quotidiani. Tra gennaio e settembre, il Centro di analisi e ricerca per i diritti umani (Cadrh) ne ha contato 628. E quelli non registrati sono molti di più. Tutti sono a rischio: non solo i pochissimi benestanti ma anche autisti, ambulanti, lustrascarpe, il cui riscatto consiste in qualche spicciolo, del cibo, un tavolo o una sedia. Il rapimento di massa di sabato, però, ha implicato una logistica più complessa. Per questo, pur in mancanza di una rivendicazione ufficiale, i sospetti ricadono sulla "400 Mawzoo", guidata dal super-ricercato Wilson Joseph alias "Lanmo Sanjou" (non sai quale giorno arriverà la morte in creolo), protagonista del salto di qualità criminale, con il sequestro, lo scorso dodici aprile, dei dieci cattolici, tra laici, suore e sacerdoti, a Croixdes- Bouquets. Con quel gesto plateale, la banda ha infranto il tabù dell'inviolabilità dei missionari, che godono di grande rispetto fra la popolazione. Anzi, la gang ha iniziato a "puntare" proprio questi ultimi, la cui cattura è in grado di suscitare ancora scalpore nel mezzo dell'epidemia di sequestri nazionale. E che può garantire un pagamento sostanzioso. Stavolta, inoltre, i malviventi hanno alzato ulteriormente il tiro, accanendosi sugli statunitensi, a pochi giorno dalla promessa Usa di un aiuto da 15 milioni di dollari per addestrare la polizia nella lotta ant-gang. Washington ha subito inviato il Fbi per collaborare alle ricerche con quel che resta delle autorità locali. Già da anni in emergenza economica e politica, il Paese più povero dell'emisfero occidentale ha subito un tracollo in seguito all'omicidio del presidente Jovenel Moïse a luglio e il caos della successione. A questo si è sommato il sisma del 14 agosto che devastato l'area sud-occidentale dell'isola. Il risultato è l'attuale anarchia, in cui l'unico potere effettivo - grazie ad armi e violenza - lo esercitano le bande. Lo sciopero di ieri è nato da questo mix di disperazione e rabbia. Una muta richiesta di aiuto al mondo per riuscire a sopravvivere».

L’ANTI ORBAN È UN CATTOLICO MODERATO

L’opposizione ad Orbán ha scelto, con elezioni primarie, colui che dovrà sfidarlo: si chiama Péter Márki-Zay. È europeista, cattolico conservatore con sette figli, anti sovranista, capace di dialogo. Irene Soave per il Corriere.

«Conservatore ma non sovranista; cattolico ma disposto al dialogo; antiabortista e padre di sette figli, outsider della grande politica, sindaco di un centro rurale al confine con la Romania, ma europeista convinto. Péter Márki-Zay è l'uomo che le primarie dell'opposizione ungherese, domenica, hanno investito del compito arduo di sfidare il premier-padrone Viktor Orbán alle politiche di aprile. Ci riuscirà? La sfida al Golia Orbán, che in undici anni di governo ha trasformato l'Ungheria in una «democrazia illiberale» a sua immagine, sembra quella di un Davide dalla periferia dell'impero. Il partito di governo, Fidesz, ha un controllo ampio sui media, grande influenza nella funzione pubblica, il supporto di molte grandi aziende controllate da amici del presidente. Che gli si prepari un finale come quello di Andrej Babis, l'uomo forte della Repubblica Ceca che è stato messo in minoranza alle politiche del 9 ottobre proprio da una coalizione europeista e di centro-destra, non è detto. Ma all'arco di Márki-Zay ci sono parecchie frecce. Non è, per cominciare, un candidato espresso dalle élite liberali della capitale. Non è il colto ecologista Gergely Karácsony, sindaco di Budapest, esperto di scienze politiche: era tra i tre candidati alle primarie dell'opposizione, si è ritirato dopo il primo turno (a metà settembre). Non è un volto noto della politica europea come l'altra contendente Klára Dobrev, vicepresidente progressista del Parlamento Europeo, che al ballottaggio di domenica si è ritirata a due terzi delle schede contate. Márki-Zay, che ha il compito di rigirare contro Fidesz il favore di quel terzo di ungheresi che non va a votare, è il sindaco di Hódmezovásárhely, 44 mila abitanti, nota in Ungheria come «la Parigi dei bifolchi»; ha votato Fidesz una volta, ma è rimasto deluso da corruzione e tendenze autoritarie. Il mandato di scalzare Orbán è stato messo nelle sue mani da 600 mila ungheresi: in tanti hanno votato alle primarie dell'opposizione, le prime della storia ungherese, indette dai sei partiti non di governo. Il programma comune: entrata nell'euro, revisione delle modifiche costituzionali introdotte da Orbán, annullamento dei progetti - concordati con la Russia - di una centrale nucleare a Paks, sul Danubio. Soprattutto lotta alla corruzione: proprio a Hódmezovásárhely, dove la politica nazionale non arriva, è arrivata invece un'azienda del genero di Orbán ad aggiudicarsi a man bassa un lucroso appalto di illuminazione pubblica. Gli abitanti, in maggioranza conservatori come il loro sindaco, non l'hanno digerito. I due sconfitti delle primarie hanno dato a Márki-Zay piena fiducia. Ad aprile sono chiamati a farlo anche gli ungheresi».

VIAGGIO DI ERDOGAN IN AFRICA

Il presidente turco Erdogan inizia un nuovo viaggio nel Continente africano a caccia di un rilancio. In competizione con Cina e Francia. Gabriella Colarusso per Repubblica.

«Alla prese con il crollo della lira e l'inflazione che continua a crescere, Recep Tayyip Erdogan vola in Africa - tappa in Niger, Angola e Togo per rafforzare i rapporti politici e commerciali nel continente, una strategia su cui il presidente turco ha investito fin dal 2005, con risultati importanti. In 16 anni, 15 viaggi di Stato, circa 30 Paesi visitati, il volume degli scambi commerciali turco- africani che è passato da 5,4 miliardi di dollari del 2003 a 25,3 miliardi di dollari del 2020. La Turkish airlines oggi vola su 39 Stati dell'Africa. L'Agenzia turca per la cooperazione ha più di 30 centri di coordinamento. La spinta agli affari l'hanno data in parte anche i competitor: i prodotti turchi costano meno di quelli europei e sono di qualità superiore rispetto a quelli cinesi. Ma gli accordi commerciali si sono retti anche su altre reti di relazione. Nel 2009 la Turchia aveva 12 ambasciate in Africa, oggi ne ha 43. Sono aumentate le scuole gestite da fondazioni come la Maarif, che ha più di 17mila studenti in 25 Paesi africani; sono cresciuti gli aiuti umanitari. L'idea sociale della brotherhood , la fratellanza come spirito di solidarietà, e la sua declinazione politica - il movimento dei Fratelli Musulmani - hanno avvicinato diversi Paesi africani a maggioranza musulmana. Al soft power di fondazioni e fede, poi, Erdogan ha unito il peso dell'industria militare turca. Nel tour di questi giorni, in vista del terzo summit Turchia-Africa che si terrà a dicembre, il presidente viaggia con una nutrita delegazione della Savunma Sanayii Baskan-lg, l'agenzia che guida l'industria della Difesa. Per diversi governi africani, dalla Tunisia al Marocco, dalla Libia all'Etiopia, i droni turchi sono diventati l'alternativa efficiente e meno costosa ai droni americani, difficili da acquistare se non dentro un quadro di regole e parametri da rispettare molto rigido. Finora, oltreché in Libia, la presenza di Ankara è stata visibile soprattutto nell'Africa orientale. In Somalia i turchi hanno la loro principale base militare fuori dai confini nazionali. In Etiopia sono il secondo partner commerciale, dopo i cinesi. Dal 2014, la Turchia si è concentrata sul corno d'Africa «perché era un'area di competizione con emiratini e sauditi, negli ultimi due anni ha dovuto giocare in difesa tagliando le risorse», ci dice l'analista Federico Donelli, autore di The Ankara Consensus: the significance of Turkey' s engagement in sub-saharan Africa. «Il viaggio di questi giorni di Erdogan rientra in una strategia di allargamento nell'Africa subsahariana». Il presidente vede nel parziale ritiro dei francesi dal Sahel un possibile spazio di manovra. A Luanda è tornato ad attaccare Parigi definendo «crudele» il colonialismo francese in Africa. Per Erdogan l'Africa è una "storia di successo" da spendere su un mercato politico interno agitato dalla crisi economica. Ma la Turchia ha i mezzi per sostenere le proprie ambizioni africane e quanto giovano davvero ai suoi cittadini? Tra Ankara e Istanbul cominciano ad alzarsi voci critiche. «Da un punto di vista commerciale dei ritorni ci sono stati», osserva Donelli. Che poi «la Turchia abbia le risorse per giocare una partita su un tavolo non suo in competizione con francesi e cinesi è da vedere».

IL SINODO ENTRA NEL VIVO. ANCHE SUL WEB

I vescovi italiani hanno lanciato un portale Internet che accompagnerà il percorso del Sinodo della Chiesa italiana. È online il sito www.camminosinodale.net che accompagnerà l'intero percorso. Al via il cammino anche nelle chiese locali. Avvenire propone oggi diverse riflessioni dalle diocesi. Ecco da Bologna il resoconto su quanto detto dal cardinal Matteo Zuppi: “Se è finita la cristianità, non è finito il cristianesimo”.

«Il Sinodo è un dono di comunione. Vogliamo camminare tra tanti soggetti diversi, per affrontare le tante sfide. Tutti siamo coinvolti, perché siamo tutti affidati alla stessa madre, ricordando che questa è affidata a ciascuno di noi». È l'esortazione che il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha rivolto alla sua Chiesa, nella Messa con cui domenica nella Cattedrale di San Pietro ha aperto il cammino sinodale. «Se è finita la cristianità - ha sottolineato - certo non è finito il cristianesimo. Camminiamo assieme perché non vogliamo restare fermi, nell'immobilismo impaurito e vuoto, nel formalismo dell'accontentarsi della facciata, nell'intellettualismo delle classificazioni ideologiche e partitiche e staccandoci dalla realtà del popolo santo di Dio». E, richiamandosi al primato dell'ascolto, primo passo di ogni evangelizzazione, ha spiegato che «ascoltare significa prendere sul serio» e ha invitato ad ascoltare «per crescere nella fraternità tra di noi e verso tutti, per capire il tesoro nei nostri vasi di creta e la grande sofferenza della folla che cerca proprio quel tesoro che portiamo con noi». Nella Messa si pregava anche per il cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna dal 1952 al 1968, nel 45° della morte. «Lercaro andava nelle periferie per costruire le chiese: occorre andar lì per trovare futuro», ha detto Zuppi concludendo con un monito: «Chiediamo perdono per i tanti tradimenti dell'amore che il Signore ci ha affidato, per le resistenze e gli atteggiamenti da grandi secondo il mondo e non da servi come richiesto. Ci siamo indignati tra di noi invece di indignarci per tanta sofferenza e per i frutti del male».

Messaggio non banale anche quello dell’arcivescovo di Milano Delpini.

«Questo è il tempo di Barnaba», tempo «per vedere la grazia di Dio, esortare alla perseveranza e chiamare Saulo perché la missione della Chiesa deve percorrere vie antiche e nuove, conservare la tradizione veneranda e affrontare, con azioni pastorali inedite, sfide inedite». Ed è «tempo di grazia» perché «camminiamo sulla strada di Gesù che incontra, ascolta, discerne e chiama alla sequela». Invitati a costruire restando attaccati «al fondamento già posto, che è Gesù Cristo». Lo ha detto l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, presiedendo domenica - nella festa della Dedicazione della Cattedrale - la Messa che ha aperto la fase diocesana del Sinodo dei vescovi. Il presule ha consegnato il mandato ai "Gruppi Barnaba", ai quali è affidato il compito di guidare il cammino che porterà alla costituzione delle Assemblee sinodali decanali nei 63 decanati della diocesi. I gruppi prendono il nome dall'apostolo inviato da Gerusalemme ad Antiochia e, per tradizione, considerato il primo vescovo di Milano. A ciascuno dei moderatori dei gruppi, Delpini ha consegnato il Libro delle buone notizie , un quaderno bianco nel quale raccogliere esperienze e testimonianze promettenti per il tempo del cammino sinodale - che avrà, quale referente diocesano, don Walter Magni. Altro gesto emblematico: a fine Messa Delpini è andato sul sagrato del Duomo per salutare i fedeli. «In questa città così attiva e inquieta, in questo spettacolo di germogli e di insidie, invito tutti a inaugurare i tempi di Barnaba», aveva affermato il presule aprendo l'omelia. «Questo è tempo di uomini e donne di fede». Tempo «di una Chiesa che sia incoraggiamento per il futuro dell'umanità».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 19 ottobre:

https://www.dropbox.com/s/etlzo9w9ulzgyjz/Articoli%20la%20Versione%20del%2019%20ottobre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/per gli aggiornamenti della sera.

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