Whatever he drinks
Il barman del premier rivela che andrà al Colle. Draghi lo corregge ma sul drink: Campari, non Aperol. Scontro nella Ue sui migranti: dalla Libia alla Polonia. Oggi cortei a rischio. Addio Bisteccone
La fermezza di Sergio Mattarella sull’impossibilità di un suo secondo mandato ha riacceso il dibattito sull’elezione del nuovo Capo dello Stato. Andrà Mario Draghi al suo posto? Ieri ci si è messa la trasmissione radiofonica Un giorno da pecora a suggerire una risposta non ufficiale, attraverso un’intervista al barman del premier. La moglie, ha spiegato l’uomo, pensa che sì, si dovranno trasferire presto al Colle. Draghi, rompendo un protocollo di 9 mesi, ha voluto precisare coi giornalisti. Ma lo ha fatto sul drink: non bevo Aperol, ma Campari. Bruno Vespa, stamattina fra i diversi commenti che vi proponiamo, è il più lucido: l’Italia non può liquidare colui che ci ha tirato fuori dai guai sanitari e finanziari, proprio ora. I partiti devono farsene una ragione. E anche i leader, Berlusconi e Letta (nipote) compresi, che forse stanno coltivando altri disegni.
La crisi umanitaria al confine tra Bielorussia e Polonia sta diventano la questione cruciale dell’Europa di oggi. Non solo moralmente (grande commento di Mattia Feltri stamane su questo tema) ma anche politicamente. Su input della Merkel, i popolari europei stanno mettendo in imbarazzo la Von der Leyen spendendosi a favore dei muri. Draghi ieri da Parigi si è schierato contro la deriva sovranista ed egoista della Ue su sbarchi e migranti.
Quirinale a parte, in Italia si parla ancora del virus e della minaccia dei contagi sul Natale. Oggi primo sabato con le manifestazioni no Green pass “limitate” dal Viminale. Vedremo che succede. Intanto guerra fra giornali: Libero contro Verità. Vittorio Feltri rilancia il vaccino obbligatorio. Martino Cervo propone una riedizione degli opposti estremismi sul tema sì vax contro no vax. Ma in questo caso è difficile trovare una via di mezzo. Guerra continua ancora fra Renzi e Travaglio. Ieri sera a confronto in tv dalla Gruber. Giuliano Ferrara critica il leader di Italia Viva per aver ceduto a fare la guerra agli avversari, usando i loro stessi metodi e le loro stesse armi: dossieraggi e killeraggi personalizzati. In politica, chi è senza macchina del fango scagli la prima pietra. Da Leone in poi, sotto rinnovo quirinalizio, il fango poi tende fatalmente ad aumentare.
Domani è la Giornata mondiale dei poveri, lo ha ricordato il Papa andando di persona ad Assisi e dicendo cose molte chiare di fronte alla Porziuncola. Chiudiamo la Versione con un addio commosso di Roberto Perrone a Giampiero Galeazzi: il giornalismo sportivo saluta un suo campione di generosità e di passione.
È ancora disponibile on line il quinto episodio della serie Podcast originale realizzata da me con Chora Media per Vita.it. e con il sostegno di Fondazione Cariplo, intitolata Le Vite degli altri e che racconta vicende di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri, ed è proprio dedicato a quel quartiere, a quella gente. Il titolo di questo quinto episodio è infatti “Resistere a Scampia”. Protagonista è il 41enne Ciro Corona, prof di filosofia che si dedica ai ragazzi di strada. Ha creato un’associazione e una cooperativa che (r)esistono alla Camorra nella zona diventata famosa nel mondo come Gomorra, la cittadella della malavita. Ciro Corona lavora ogni giorno per costruire un futuro con i giovani del quartiere. Una storia bellissima di amore al proprio territorio e alla propria gente. E di sfida all’illegalità e al degrado. Cercate questa cover…
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Covid, Quirinale e crisi migranti in Europa i temi di oggi. Il Corriere della Sera avverte: «Il virus cresce tra i bambini». Il Mattino prevede per Natale: Ristoranti, cinema e stadi aperti solo per i vaccinati. Il Messaggero mette fra virgolette un documento di studio del governo: «Green pass a due velocità». Derby continuo ormai fra i giornali della destra. La Verità: Se il pass funziona perché c’è emergenza? Libero: L’obbligo di vaccino è l’unica soluzione. Anche il Quotidiano Nazionale studia: Le mosse per salvare il Natale dal Covid. La Repubblica punta sulla crisi umanitaria, riportando la posizione del premier a Parigi: Migranti, Draghi sprona la Ue: “Sbarchi ormai insostenibili”. Della corsa al Quirinale si occupa il Domani: L’ipotesi estrema delle dimissioni di Draghi per rompere lo stallo. Il Giornale che spinge per mr.B al Colle: Palude Quirinale. Cosa c’è dietro il silenzio di Draghi. La Stampa celebra il Presidente uscente, ieri in visita a Torino: Mattarella: lascerò il Paese in ottime mani. Il Manifesto ci porta a Glasgow alla Cop26 sul clima: Compromesso. Avvenire ci porta invece ad Assisi, dove è andato papa Francesco: La voce dei poveri. Il Fatto pubblica ancora stralci delle carte sulla fondazione di Renzi: “Chiudiamo la Open c’è la Spazzacorrotti”. Il Sole 24 Ore sostiene che si studia di replicare in tutta Italia quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni all’urbanistica milanese, privati che investono in sviluppo ed innovazione: Modello Milano per le città del futuro.
VACCINI 1, ANCORA SU I CONTAGI DA COVID
Il monitoraggio dell’Iss parla di rischio moderato in 20 regioni. Ripartono le prime dosi, dopo settimane in calo ma Brusaferro sottolinea la diffusione del Covid fra i giovani e caldeggia il vaccino per i bambini. La cronaca di Paolo Foschi sul Corriere della Sera.
«La corsa del coronavirus prende ancora velocità. L'incidenza settimanale continua ad aumentare: 78 casi ogni 100 mila abitanti e l'Rt (l'indice di contagio) a 1,21. Cresce soprattutto nella fascia tra i 30 e i 49 anni, ma preoccupa il numero dei nuovi contagi fra i bambini sotto i 12 anni, fascia di età non ancora ammessa alla campagna vaccinale. È quanto emerge dal monitoraggio settimanale dell'Istituto Superiore di Sanità diffuso ieri e che si apre con un incipit che non lascia spazio all'ottimismo: «Aumenta complessivamente in Italia la velocità di trasmissione con un Rt elevato nella maggior parte delle regioni, ben al di sopra della soglia epidemica». L'Italia per adesso resta bianca, ma il colore giallo potrebbe presto comparire, anche se a macchia di leopardo, in varie zone del Paese. La situazione dunque peggiora. Come sottolineato da Silvio Brusaferro, presidente dell'Iss, «per la terza settimana consecutiva sta aumentando in modo generalizzato il numero di nuovi casi di Covid, dunque è importante agire in modo preciso su due azioni per contenere la circolazione del virus: vaccinare la platea che non ha iniziato ancora il ciclo vaccinale e mantenere elevata la copertura immunitaria a partire dalle categorie a cui è raccomandato. Parallelamente è importante essere prudenti, usare le mascherine e prevenire le aggregazioni». (…) Il sistema sanitario sembra comunque ancora lontano dal rischio di saturazione, ma i dati rivelano un peggioramento della situazione anche su base giornaliera: il numero dei posti letto occupati nei reparti Covid ordinari è salito in 24 ore a quota 3.525 (3.509 il giorno precedente), mentre quello dei ricoverati in terapia intensiva è passato da 422 a 445. Secondo il monitoraggio la regione che presenta il quadro più allarmante è il Friuli-Venezia Giulia, con 233 casi ogni 100 mila abitanti e soprattutto il 10,9 per cento dei posti occupati in terapia intensiva: numeri che rischiano di far scattare la zona gialla prima di Natale. Ancora più critica forse la situazione nella Provincia di Bolzano, con 316 casi ogni 100 mila abitanti e il 13,6% di posti occupati in area medica, anche se i reparti di terapia intensiva registrano un tasso di occupazione al 6,3%. Male anche le Marche e la Calabria, non tanto per il numero assoluto di nuovi casi, quanto per l'occupazione dei posti letto in terapia intensiva, arrivata al 10%. Le norme in vigore prevedono il passaggio delle regioni in zona gialla con l'incidenza settimanale oltre 50 casi ogni 100 mila abitanti, il 10% dei posti occupati in terapia intensiva e il 15% in area medica. L'ultimo report evidenzia il peggioramento di tutti e tre i parametri: il tasso medio in Italia di occupazione delle terapie intensive in una settimana è salito da 4 al 4,4%, quello delle aree mediche dal 5,3 al 6,1% e l'incidenza dei casi ogni 100 mila abitanti è balzata da 53 a 78. «Non possiamo escludere un ulteriore aumento dei casi nelle prossime settimane - ha commentato Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero della Salute - ma questo potrebbe non essere accompagnato da una crescita dei casi in terapia intensiva grazie all'effetto dei vaccini e alle misure prese. Se si dovesse alzare l'incidenza, alcune regioni bianche potrebbero diventare gialle, ma è impossibile ora dire quando ci sarà il picco dei casi». «L'efficacia del vaccino si abbassa dopo i sei mesi ed è quindi importante effettuare la terza dose booster - ha aggiunto Silvio Brusaferro -, sta crescendo il numero di persone con la terza dose e gli over 80 hanno raggiunto il 30,4% di copertura». Nell'ultima settimana sono state somministrate 115.412 prime dosi del vaccino, circa 12 mila in più della settimana scorsa, ma 68 mila in meno rispetto a 15 giorni fa».
VACCINI 2, I LIMITI AI CORTEI NO VAX DI OGGI
Oggi sabato di proteste in tutta Italia contro il Green pass, coi nuovi limiti chiesti dal Viminale. La cronaca di Rinaldo Frignani per il Corriere.
«Nel primo giorno di proteste no green pass dopo la direttiva del Viminale per contenere cortei e sit-in, scattano nelle città di tutta Italia le contromisure delle Prefetture per scongiurare iniziative a ridosso di aree sensibili e il rischio di un'ulteriore impennata di contagi in zone ad alta densità turistica e in vista delle iniziative natalizie. Il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese auspica che «non ci siano pericolose forzature e prevalga il senso civico: i manifestanti seguano le modalità concordate con le autorità di pubblica sicurezza. Ricordo agli organizzatori - conclude la responsabile del Viminale - che hanno il dovere di garantire che le iniziative si svolgano in sicurezza per i partecipanti e senza che vengano pregiudicati i legittimi interessi della cittadinanza». Ma il clima continua a non essere dei migliori: a Roma da giorni è stato visibilmente rinforzato il presidio dei carabinieri davanti all'abitazione del premier Mario Draghi ai Parioli e i movimenti di contestazione ai vaccini e al lasciapassare verde annunciano su Telegram di voler «disobbedire al divieto di manifestare». A Milano vietati dal 25 novembre al 9 gennaio sit-in e cortei in piazza Duomo e corso Vittorio Emanuele (riservati a cerimonie religiose ed eventi culturali e di intrattenimento) e comunque da oggi in tutti i giorni festivi e prefestivi. Provvedimenti simili a Trieste, Bergamo e Napoli, mentre a Padova è vietata la manifestazione no green pass in auto indetta per oggi. A Trento concessi un sit-in a piazza Dante e un corteo ma fuori dalla zona a traffico limitato. Decisione che potrebbe essere presa sempre a Milano, dove si attende l'ennesimo raduno no pass in piazza Fontana non autorizzato con ingente spiegamento di forze dell'ordine: ok a un eventuale corteo ma solo verso la periferia. A Roma in programma quattro iniziative di piazza, ma solo una no green pass, alle 15 al Circo Massimo, dopo che la Prefettura ha stilato un elenco di luoghi che possono ospitare manifestazioni in base alla fascia di rischio (alto, medio, basso): il Circo Massimo è da rischio alto, vietati a tempo indeterminato raduni davanti al Quirinale, Montecitorio, Palazzo Chigi e Palazzo Madama. Nella Capitale, così come a Milano e in altre città, gli organizzatori delle manifestazioni saranno responsabili non solo sul rispetto del numero massimo di partecipanti annunciato in Questura ma anche sul pacifico svolgimento dell'evento, altrimenti spostato altrove o proibito. Eventuali interventi per far rispettare l'uso di mascherine e il distanziamento potrebbero essere portati a termine «in differita», anche con l'utilizzo di immagini registrate dalla polizia scientifica, per evitare problemi di ordine pubblico, con identificazioni e sanzioni decise dopo la fine della protesta. E mentre a Napoli la Prefettura ha deciso di chiudere un'intera parte del centro storico, a Bologna il sindaco Matteo Lepore sottolinea come per ora non siano «previste particolari restrizioni». Per oggi annunciati cortei anche a Genova, Aosta, Gorizia, Cagliari, Pistoia. A Torino no pass a piazza Castello. E sempre a Milano, dove ieri i carabinieri hanno perquisito le abitazioni di quattro no vax accusati di aver minacciato due giornalisti (Enrico Fedocci del Tg5 e Salvatore Garzillo di Ansa e Fanpage ) che hanno seguito le manifestazioni nei giorni scorsi e di aver schedato altri cronisti usando Telegram, c'è preoccupazione per le infiltrazioni di provocatori all'evento di Robert Kennedy jr, paladino dei no vax, in programma sempre oggi alle 15 all'Arco della Pace».
VACCINI 3, LIBERO CONTRO VERITÀ
Sul tema dei vaccini, c’è una guerra fra i giornali della destra. È un paio di giorni che Libero ha ingaggiato una polemica esplicita e diretta con La Verità. Libero è il giornale che ha raccolto le firme per limitare le manifestazioni No Green pass degli ultimi 4 mesi che uccidono il commercio a Milano. La Verità pubblica da mesi un fiume di opinioni No Vax in un continuo equivoco su numeri e dati scientifici. Oggi Vittorio Feltri scrive l’editoriale sull’ obbligo di vaccino.
«So di essere sul punto di scrivere una cosa sgradevole contro quelli che non si fidano dei vaccini e fanno la guerra al Green pass. Si tratta di gente sprovveduta, che non ragiona perché preda di un pregiudizio, la quale è vittima della propria abissale ignoranza. Ecco perché bisogna andare in suo soccorso. Come? Con un po' di coraggio il governo dovrebbe introdurre legittimamente l'obbligo di vaccinarsi. Chi rifiuta l'antidoto dovrebbe essere escluso dalla vita sociale perché costituisce un pericolo per la salute pubblica. Tutti sanno che un bimbo di tre o quattro anni può entrare in un asilo solo se si è sottoposto a un determinato numero di vaccini che lo protegge da varie malattie infettive. Anche ai miei tempi lontani era obbligatorio farsi pungere allo scopo di frequentare la scuola. Bisognava difendersi dal vaiolo e da altri morbi pericolosi. Su un braccio reco ancora i segni di una o più incisioni fatte dal medico per salvarmi da quelli che al tempo erano i rischi maggiori. Quando frequentai le elementari alcuni miei compagni di classe colpiti da poliomielite si reggevano in piedi a malapena, camminavano a fatica trascinandosi. Facevano pena. Poi avvenne il miracolo: un grande medico scoprì un farmaco che impediva l'insorgenza della terribile patologia. Tutti i ragazzini subirono il trattamento salvifico e da allora non si è più vista in giro un persona colpita da poliomielite. Dirò di più. Abbastanza recentemente è stato scoperto un vaccino che contrasta il papilloma virus che produce un cancro micidiale all'utero. Va iniettato alle femmine in età giovanile e ora anche ai maschi a scopo preventivo. Ormai questo male grazie alla scienza è stato sconfitto. I risultati ottenuti dai ricercatori mi sembrano degni di rispetto. Lo stesso sta accadendo per il Covid, il quale per circa un anno ci ha massacrati, uccidendo centinaia di migliaia di individui. Poi è arrivato il liquido magico che ha ridotto i decessi al minimo. Ovviamente l'antidoto non garantisce l'immortalità, però evita conseguenze gravissime e consente a quasi tutti l'opportunità di non infettarsi. Buttalo via. Io me ne sono preso tre dosi e non mi sono beccato neanche un raffreddore, vado dove voglio, al ristorante e altrove e nessuno mi rompe le scatole, neanche mia moglie, il che è un successo notevole. Mi domando per quale arcano motivo il governo non renda obbligatoria la famosa iniezione così come ne ha rese di rigore altre che ci hanno risparmiato sofferenze micidiali. Se io desidero guidare l'automobile devo conseguire la patente, senza la quale sono e resto un pedone, al massimo un ciclista. Campare in questa società non è facile: siamo afflitti da divieti di ogni genere, non comprendo perché non venga introdotto l'obbligo vaccinale dal momento che il Covid è più rischioso di una utilitaria condotta da un deficiente incapace di maneggiare il volante. Qualcuno invoca la Costituzione per dire che non esiste un articolo che ingiunga ai cittadini di farsi bucare, ma se la salute pubblica è un valore da preservare, bisogna che tutti si assoggettino alla necessità di non infestare il prossimo. Il vaccino obbligatorio è una necessità impellente».
Martino Cervo sulla Verità cerca di ricondurre alla razionalità il dibattito fra “i due estremismi”: quello No Vax e quello Sì Vax. Ma è impresa ardua.
«Esiste uno spazio immenso tra il «vaccinatevi e non rompete i coglioni» e il «ma quale Covid?». Su queste pagine, ridicolmente accusate di fornire conferme ai pregiudizi del secondo estremismo, si tenta un'impresa che sta diventando improba. Oggi dire che il re è nudo significa indicare col ditino che si può riconoscere l'indubbia efficacia del vaccino nel ridurre effetti gravi della malattia senza chiudere gli occhi di fronte a dati che mostrano come tale efficacia sia decisamente ridotta nel bloccare il contagio. Significa, anche, che non c'è alcuna contraddizione tra considerare i preparati come lo scudo migliore a nostra disposizione in questo momento e far presente che il green pass è una vessazione tra l'inutile e il pericoloso, a maggior ragione se è vero che i sieri «coprono» per pochi mesi. Ancora: affermare l'ovvio, cioè che si contagia e ci si contagia anche in modo serio malgrado ci si sia immunizzati, consente comunque di ritenere molto ragionevole, sopra una certa soglia di età, ricorrere a questa profilassi, che statisticamente protegge da guai seri chi ne beneficia e contribuisce ad alleviare la pressione sul sistema sanitario. Se una pletora di studi, enti accreditati, comitati tecnico scientifici, perfino l'Oms, invitano alla cautela sui vaccini ai bambini, perché condividere questa precauzione dovrebbe voler dire rigettare in toto Pfizer & C.? Chiedere che sia presa in considerazione l'ipotesi di conflitti di interessi da parte di chi si affaccia al dibattito pubblico su questi temi, orientando il decisore, vuol dire per forza considerare una banda di corrotti tutti coloro che hanno disposto e realizzato la macchina degli hub per la somministrazione? Non sono domande retoriche, perché ribaltando la prospettiva l'«altra» curva, l'esercito della siringa, non ammette eccezioni, e contribuisce a sua volta a schiacciare lo spazio di uso della ragione: i vaccini sono l'unica salvezza, quindi li devono fare tutti. Fissato questo assunto, non c'è nulla che lo permei: qualunque cosa succeda, serve più green pass, servono più vaccini, servono più dosi di vaccino e servono subito. Chiunque obietti anche solo su uno degli aspetti o proponga di valutare l'efficacia delle politiche fin qui dispiegate va estromesso dal consesso civile come persona in grado di fare danni intollerabili. E qualunque cosa succeda, c'è uno spazio pronto dove collocarla per rinforzare l'assunto, mettendolo al riparo da sgradevoli attriti con la realtà».
DRAGHI CRITICA LA UE SUI MIGRANTI
Mentre il Partito popolare europeo sembra accettare l’Europa dei Muri, Mario Draghi critica la Ue proprio sull’emergenza migranti. Lo fa al vertice di Parigi sulla Libia con Macron e Merkel. La cronaca di Anais Ginori, da Parigi, e Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«La speranza è un Natale che possa regalare ai libici le prime elezioni «libere», «credibili» e «inclusive», come recita la dichiarazione finale della conferenza internazionale sulla Libia guidata da Emmanuel Macron, Mario Draghi e Angela Merkel. Un vertice decisivo per tentare di mettere in sicurezza le elezioni previste il 24 dicembre, evitando che il paese riprecipiti nel caos con un impatto diretto anche sull'immigrazione, uno dei temi che Draghi è riuscito a far inserire nell'agenda del vertice parigino. «Gli sbarchi continui sull'Italia rendono la situazione insostenibile» ha commentato il premier. «La Ue deve trovare una soluzione e noi dobbiamo investire di più sulla Libia per aiutare i libici a creare condizioni più umane». Tra defezioni, come quella della Turchia che ha mandato solo il viceministro degli Esteri, e il coinvolgimento più convinto degli americani rappresentati dalla vicepresidente Kamala Harris, il summit voluto da Macron rappresenta una tappa cruciale. Gli europei non più divisi raccolgono finalmente qualche segnale incoraggiante dai protagonisti libici, dal rispetto del cessate il fuoco che dura da un anno e mezzo, all'impegno a garantire il processo elettorale, all'iscrizione di 3 milioni di futuri cittadini sulle liste per votare. Il pressing per organizzare il voto a Natale è forte anche se l'appuntamento potrebbe slittare di qualche settimana per garantire la "simultaneità" di parlamentari e presidenziali, come ribadito ieri dal premier Abdulhamid Dbeibah (sempre ambiguo sulla sua eventuale candidatura). Dietro allo scontro sulla bozza di calendario, c'è fra la rivalità emersa di nuovo a Parigi tra Dbeibah e il presidente del Consiglio presidenziale, Mohamed Al Menfi. Il maresciallo Haftar, l'uomo forte della Cirenaica assente al vertice parigino, preme per mantenere le presidenziali il 24 dicembre in cui potrebbe presentarsi. Altri rappresentanti libici temono che far slittare le elezioni parlamentari a febbraio sia un modo per farle poi saltare del tutto. Draghi e Macron hanno prima avuto un faccia a faccia da soli per coordinarsi, ennesimo segnale della «convergenza» (parola di Macron) tra Roma e Parigi. «Se non si va d'accordo, non si aiuta la Libia», ha commentato il premier italiano. Dietro le quinte, però, la lettura della situazione libica non è perfettamente allineata. Se Macron ha voluto insistere sulla data del 24 dicembre, Draghi ha confermato "l'urgenza" del voto ma si è mostrato più sfumato su una scadenza tassativa, nella consapevolezza che una forzatura potrebbe scatenare nuove violenze. Alla fine è risultata decisiva la mediazione italiana, tradotta nella dichiarazione finale con un riferimento «all'inizio» delle elezioni presidenziali e parlamentari in Libia dal 24 dicembre e la necessità che i risultati dei due scrutini vengano annunciati insieme. Nelle sabbie mobili della politica libica, gli europei, spalleggiati finalmente dagli americani, minacciano sanzioni delle Nazioni Unite per chi proverà a boicottare le elezioni o rifiuterà di riconoscerne l'esito. «Tutti in Libia - è uno dei passaggi della dichiarazione finale - devono rispettare i risultati elettorali e non ostacolarli». Il vertice parigino accelera il processo di ritiro dei miliziani stranieri che affollano la Libia. La diplomazia italiana ha facilitato un compromesso sulla tempistica, sostituendo la richiesta di partenza «immediata» con «rapida». «Russia e Turchia devono ritirare le loro forze dalla Libia», ha ripetuto Macron citando il piano d'azione del comitato militare libico che riunisce le varie fazioni. Alla vigilia del vertice parigino, Haftar ha lanciato un segnale di buona volontà annunciando la partenza di trecento mercenari in appoggio al suo esercito. La Turchia ha invece espresso nuove riserve. Erdogan continua a sostenere che i militari inviati sono stati richiesti dal governo di Tripoli. Il percorso per stabilizzare la Libia è ancora denso di insidie ma la nuova prova di unità tra Italia, Francia e Germania avvenuta ieri a Parigi lascerà meno margini a Mosca e Ankara per soffiare sul caos».
CONFINE BIELORUSSO-POLACCO, VERGOGNA CONTINUA
Proseguono le violenze su migliaia di profughi intrappolati. L’Europa blocca i voli dei migranti per Minsk. E Mosca ferma Lukashenko sul taglio del gas all'Ue. Ma il Ppe sta mettendo in minoranza la von der Leyen e dice: "Sì ai muri", seguendo le scelte della Merkel. Giampaolo Visetti per Repubblica.
«Burhaan e la moglie Widad si sono fidati un'altra volta. Il prezzo dell'ultima speranza è inciso nei tagli che sfigurano loro la faccia. Dopo cinque giorni di fame e di gelo contro il filo spinato della frontiera bielorussa, hanno preso in braccio il figlio di 4 anni e hanno seguito chi prometteva di ospitarli al caldo in Polonia. «Tre sconosciuti - dice la coppia irachena - hanno squarciato le reti sotto gli occhi dei soldati. Nella foresta non ci aspettava un'auto per la Germania. Ci hanno pestati e rapinati di 7 mila dollari. Uno ha minacciato di spararci se non fossimo rientrati». Tra le tende dei disperati, abbandonate lungo il confine militarizzato tra Bielorussia e Polonia, batte l'ora degli sciacalli. Decine le aggressioni e le rapine contro i profughi, in balìa delle truppe che si fronteggiano all'ingresso della Ue. Varsavia conferma: sei persone in ospedale con fratture, dopo gli 8 morti di stenti. Senza la generosità dei villaggi nascosti nella foresta di Bialowieza, gli oltre 2mila migranti in ostaggio di Lukashenko sarebbero già morti. Nell'incertezza di uno scenario di guerra, minaccia di prevalere la crudeltà. Privi di protezione internazionale e di assistenza, i disperati scagliati da Minsk contro Bruxelles vegono impunemente attaccati da bande criminali e spedizioni xenofobe. Sopra il blindato check-point di Kuznica non smettono di volare gli elicotteri che sorvegliano anche bombardieri e parà inviati dalla Russia, due dei quali sono morti ieri in un incidente. Almeno in cielo però il drammatico braccio di ferro tra Europa e Bielorussia, sembra allentarsi. Minsk, Ankara e Baghdad hanno accettato di stoppare i voli della vergogna che per mesi hanno deportato i migranti verso la trappola del sogno- Ue. Le compagnie di bandiera di Turchia, Iraq e Bielorussia, minacciate di finire nella black-list da Bruxelles, hanno sospeso i decolli favoriti da Lukashenko. Minsk resta raggiungibile dal Medio Oriente solo via Istanbul e da Dubai, grazie ai voli controllati da Mosca ed Emirati. Anche il presidente russo Vladimir Putin, in stretto contatto con Berlino, invia messaggi concilianti all'Europa. Il Cremlino, spegnendo le minacce di Lukashenko, garantisce che i flussi del gas siberiano, che transitano dalla Bielorussia, non subiranno interruzioni in caso di nuove sanzioni Ue contro Minsk, previste lunedì. Troppo alte le penali da riconoscere a Gazprom, oltre al prezzo di uno scontro con l'Occidente. Con i voli- trappola sospesi grazie al pressing Ue e con lo stop energetico smentito da Mosca, Lukashenko si scopre sprovvisto di ricatti capaci di stabilire l'osceno prezzo dei "suoi" migranti-ostaggio. Gli effetti della svolta, nelle tendopoli lungo le frontiere di Polonia e Lituania, ieri pomeriggio sono stati immediati. Hiranur, giovane profugo curdo, da dietro il filo spinato alza un foglio di carta. «L'esercito di Minsk - grida - sta distribuendo moduli per il rimpatrio volontario e gratuito. Piuttosto di morire qui quest' inverno, se firmo posso tornare a Baghdad». Oltre 200 le famiglie che in serata si sono avviate verso Minsk a piedi, con tende e sacchi a pelo sulle spalle. Dietro gli eserciti, governi e diplomazie sono al lavoro. La Lettonia ha detto sì al suo "muro" anti-Minsk, sotto vigilanza Nato. Il capogruppo Ppe al parlamento europeo, il tedesco Weber, è deciso a sostenere il modello-Michel presentando una risoluzione che inviti la Commissione ad autorizzare «anche temporaneamente » il finanziamento di barriere ai confini Ue. Se popolari, conservatori, liberali e sovranisti voteranno sì, Ursula von der Leyen (oggi contraria) faticherà a reggere le pressioni. Al governo nazionalista di Varsavia e a Lukashenko rimane il problema di disinnescare la bomba-migranti. A ridosso della frontiera, poco a sud di Kuznica, è cominciata la creazione di un vasto campo d'accoglienza profughi. Ad allestirlo sono i militari bielorussi, che trasportano anche legna e cibo. È il segnale che Minsk si prepara a rinunciare ad un'azione di forza, nell'immediato. A poca distanza una decina di genieri britannici assistono invece da ieri al rafforzamento delle linee di difesa polacche. Gli attivisti di "Grupa Granica", che riunisce 14 ong polacche, hanno raccolto l'appello umanitario della Chiesa nazionale. Denunceranno il dittatore bielorusso alla Corte dell'Aja per crimini contro l'umanità, pretendendo protezione e cure per i migranti».
“Non è una questione di moralità, è il riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo”. Un Mattia Feltri da sottoscrivere sulla prima pagina della Stampa:
«Dovete immaginare i camion dell'esercito polacco, l'andirivieni di queste ore, il rumore dei motori, trasportano il filo spinato con cui i soldati erigono la barriera fra il confine orientale dell'Europa e il resto del mondo. Al di là del filo spinato ci sono circa duemila persone, ci sono genitori, vecchi, ragazzi, bambini, arrivano dalla Siria, dall'Iraq, dall'Afghanistan. Poi dovete immaginare quei villaggi di frontiera quando è notte. Gli abitanti lasciano le luci di casa accese per illuminare la strada agli spalloni che passano di giardino in giardino, raccolgono il tesoro posato dai contadini al cancello: patate, pane, cavolo, zucche, coperte, scarpe, ne riempiono gli zaini e vanno al filo spinato per dare soccorso a quei duemila. Non so se avete riflettuto sulla cifra: duemila in attesa alla soglia di un continente di 450 milioni. Bisogna impedire che questi disperati muoiano mentre i leader europei litigano, ha detto all'inviato di Repubblica uno degli organizzatori della colletta. Io amo Machiavelli e non credo all'esigenza della moralità in politica - discorso lunghissimo - ma se fossi là vorrei essere un contadino e non un soldato, perché non è nemmeno una questione di moralità, è qualcosa di precedente, è il riconoscimento dell'uomo da parte dell'uomo che in Europa fu stabilito persino con entusiastico stupore tre secoli fa, e dunque l'umanità non cessa di essere tale fuori dalla nostra tribù. Abbiamo tradito questa idea mille volte, per motivi di razza, di lotta di classe, di fanatismo nazionale e sempre siamo precipitati nel disastro. È interessante che a ricordarcelo siano dei contadini polacchi».
Leo Lancari sul Manifesto sottolinea la scelta di Mosca di spedire i paracadutisti a supporto di Lukashenko in quello che sta diventando un braccio di ferro sempre più militare.
«Almeno per ora la minaccia si è rivelata un'arma spuntata. A smentire Alexandr Lukashenko, che aveva promesso di chiudere i rubinetti del gasdotto russo Yamal-Europe e di lasciare l'Europa al freddo se l'Unione europea adotterà nuove sanzioni contro Minsk, ci ha pensato direttamente il Cremlino: la Russia «è e continuerà a essere un Paese che adempie a tutti i suoi obblighi di fornire gas ai consumatori europei», ha detto un portavoce del presidente smentendo anche che le dichiarazioni di Minsk fossero state concordate. La presa di distanze dell'alleato russo da Lukashenko non significa però che Putin stia prendendo le distanze da lui. Con il solito gioco delle parti dopo aver smentito il dittatore bielorusso Putin gli ha inviato un reparto di paracadutisti per l'ennesima esercitazione congiunta con le forze speciali bielorusse. La zona prescelta per i giochi di guerra, la regione di Grodno, è a poca distanza dal confine con la Polonia dove restano bloccati centinaia di migranti dei quali né Minsk né tanto meno Varsavia sembrano preoccuparsi. E' chiaro che l'esercitazione, preceduta nei giorni scorsi dal sorvolo dei cieli bielorussi da parte di quattro bombardieri russi, è una dimostrazione di forza nei confronti nel solo della Polonia, che lungo il confine con la Bielorussia ha schierato 15 mila soldati e mezzi blindati, ma anche dell'Unione europea. Tutte manovre che preoccupano anche gli Stati uniti, convinti sempre più che Mosca si prepari a invadere l'Ucraina, e la Nato. Proprio Stati uniti e Unione europea ieri si sono appellati alle Nazioni unite perché adotti «azioni urgenti» contro il regime di Lukashenko accusato di «orchestrare» la crisi dei migranti per «destabilizzare» l'Ue. E' di ieri, intanto, la notizia che anche la Lettonia, che ad agosto aveva proclamato lo stato d'emergenza, si prepara ora a costruire un muro al confine con la Bielorussia. Intanto Bruxelles procede nella decisione di adottare un ulteriore pacchetto di sanzioni contro la Bielorussia. La discussione sulle nuove misure è praticamente finita e manca solo da definire la cornice legale all'interno della quale potranno essere adottate. E' quanto dovrà stabilire il vertice dei ministri degli Esteri convocato per lunedì a Bruxelles nel quale verrà affrontata anche la questione delle compagnie aeree che trasportano i migranti dai Paesi di origine e di transito in Bielorussia. Ieri la Turkish Airlines ha annunciato di non prendere più a bordo dei propri vettori che collegano la Turchia con la Bielorussia i viaggiatori provenienti da Iraq, Siria e Yemen, mentre la Iraqi Airlines ha comunicato che non riprenderà i cinque voli diretti a settimana che collegano Baghdad ed Erbil a Minsk. L'Iraq si è anche detto pronto a rimpatriare i suoi cittadini che si trovano in Bielorussia e volessero rientrare volontariamente in patria. Prosegue, infine, il lavoro diplomatico nei confronti del presidente russo. Dopo la cancelliera tedesca Angela Merkel presto anche il presidente francese Emmanuel Macron e il premier italiano Mario Draghi parleranno con Putin della crisi al confine tra Polonia e Bielorussia. Ad annunciarlo è stato ieri Macron al termine del vertice di Parigi sulla Libia».
ACCELERA LA CORSA AL QUIRINALE
Il secco no di Mattarella alla sua rielezione ha provocato un’accelerazione notevole della corsa al Quirinale. Quantomeno in termini di bla bla bla (grazie Greta!). In testa a tutte le chiacchiere ci sono quelle in libertà del barman del premier che dice alla radio: “La moglie dice che sarà presidente”. Draghi puntualizza, ma solo sul drink: bevo Campari, non Aperol. Il barman però conferma. Whatever he drinks…. Il retroscena di Repubblica:
«L'uomo con l'auricolare indica a Mario Draghi l'auto blindata con la bandierina dell'Italia sul cruscotto. Il premier segue il tappeto rosso e saluta la Maison de la Chimie. La conferenza di Parigi sulla Libia è conclusa. Si torna a Roma. E però succede qualcosa. Per la prima volta da quando è a Palazzo Chigi, il capo del governo risponde a una domanda lontano dalla liturgia di una conferenza stampa. Inedito assoluto, o quasi. «Presidente, sua moglie avrebbe detto al vostro barista che andrete al Colle». «Voglio dire solo - si diverte l'ex banchiere - che non ho mai bevuto spritz all'Aperol, non mi piace proprio. Ho sempre preso quello al Campari…». E adesso che c'entra l'aperitivo con l'ambizione di salire al Quirinale? Urge fare ordine, perché la questione è seria e la sfida tra gradazioni alcoliche c'entra poco, pochissimo, quasi nulla. La storia nasce così: la signora Maria Serena Cappello - consorte del Presidente del Consiglio avrebbe confidato al barista Proietti Antonio, titolare del "PagaRoma", che Mario Draghi andrà al Quirinale. Il problema è che il signor Proietti non è riuscito a mantenere il segreto e ha svelato la svolta politica ai giornalisti di Un Giorno da Pecora, più o meno in diretta mondiale: «Ogni tanto la signora Serenella viene al nostro bar. L'ultima volta la settimana scorsa». E scusi, lei le ha chiesto se il marito vuole fare il Capo dello Stato? «Sì. E ha detto che sì, sicuramente lo farà. Me lo ha detto un po' sconsolata, perché saranno molto impegnati. Di solito stavano sempre a città della Pieve, mentre andando al Quirinale sarà molto più complicato». La confidenza del barista è accompagnata da un dettaglio decisivo: «Prima di diventare premier, Draghi veniva per colazione e per l'aperitivo, gli piace lo spritz Aperol». Anzi, gli spritz Aperol: «A volte ne beve anche un paio, insieme ai classici stuzzichini, patatine ed olive». Ed ecco che adesso, nella gelida sera parigina, mentre solca il tappeto rosso, il Presidente del Consiglio deve dire senza dire. Parla del Campari per non esporsi sul Colle. Certo, fa capire divertito che un barista che non ricorda il gusto del cliente, «Campari, l'Aperol proprio no!», non va preso troppo sul serio se rivela strategie e ambizioni per conquistare il Quirinale. Ma continua comunque a non sbilanciarsi, a sfoderare l'ironia per sorvolare sulla sostanza del problema. «Ho sempre preso lo spritz al Campari - prosegue - Per il resto, mi hanno spiegato che si tratta di una montatura del giornalista». Beh, Presidente, se lo era, non era male… «Non era male tutto qua», e via col sorriso che prova a sedare la curiosità e invece l'alimenta, altroché se l'alimenta. Nella Capitale atterra a sera. E lì troverà ad accoglierlo la domanda delle domande, ancora e di nuovo, fino a gennaio e soprattutto finché non dira una parola chiara e definitiva sul nodo dei nodi: vuole andare al Colle? Molto prima, forse già questo fine settimana, si ritroverà però faccia a faccia con il barista. Che forse è stupito dal clamore, forse no, ma che di certo al telefono si aggrappa al disincanto, che a volte nella Capitale diventa arte: «Se davvero vuole andare al Colle? Ma no, queste cose si decidono in Parlamento, mica al bar. E comunque prende l'Aperol».
Secondo Giulia Merlo del Domani, l’opzione di Draghi sono le dimissioni a fine anno.
«L'ipotesi si è fatta più plausibile da quando è arrivato il testo definitivo della legge di Bilancio, con i rinvii di dossier e riforme impopolari a ridosso della fine della legislatura, e dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiuso definitivamente all'ipotesi di un suo mandato bis. Le manovre dei partiti sulla scelta del prossimo capo dello stato hanno sempre al centro l'incertezza sul destino dell'attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel ruolo per lui inusuale di oggetto passivo delle decisioni altrui. E allora Draghi potrebbe dimettersi subito dopo l'approvazione della legge di Bilancio negli ultimi giorni di dicembre. L'ipotesi estrema sembra ora una di quelle più concrete per rompere lo stallo. Missione compiuta Draghi avrebbe una motivazione poco contestabile per le dimissioni: la missione che gli è stata affidata quasi un anno fa da Mattarella è compiuta. La pandemia è sotto controllo, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ben avviato, con buona parte delle leggi di delega al governo approvate o in approvazione a gennaio. Passata l'elezione del successore di Mattarella, in ogni caso l'azione dell'esecutivo si rivelerebbe meno efficace che nei mesi scorsi, con l'inizio di una campagna elettorale - breve per il 2022 o lunga per il 2023 - che esaspererebbe le tensioni dentro l'anomala maggioranza di governo. Le avvisaglie già si sono viste nelle settimane scorse, con partiti sempre più litigiosi e inclini a frenare le iniziative del governo invece che a sostenerle… ».
Bruno Vespa sul Quotidiano Nazionale è forse il più lucido nel razionalizzare i maldipancia dei partiti e le aspirazioni impossibili degli altri candidati.
«È sorprendente che molti politici navigati si siano sorpresi dell'ennesimo segnale di Mattarella sulla sua indisponibilità al reincarico. A parte i precedenti di Segni e Leone contrari alla proroga del settennato, per quale ragione un capo dello Stato che ha saputo ricucire negli anni la frattura che si determinò tra centrodestra e centrosinistra al momento della sua elezione dovrebbe accettare la conferma da un parlamento diviso? L'eccezione Napolitano, avvenuta in un momento di crisi della Repubblica, è appunto un'eccezione e bene farebbe il nuovo Parlamento a mettere in Costituzione l'abolizione del semestre bianco e il divieto di rielezione del capo dello Stato. Eppure la notizia è stata accolta come un fulmine a ciel sereno. E adesso? Adesso nel Palazzo non si sa come affrontare il problema Draghi. Intendiamoci: il presidente del Consiglio non si muove, come non si mosse esplicitamente nei mesi precedenti la sua chiamata a Palazzo Chigi. Ma quando Mattarella lo convocò, sapeva che Draghi avrebbe accettato. Perché certe cose si sanno. Come oggi si sa - perché lo dice il vento, che pure non parla - che andare al Quirinale gli farebbe piacere. Sarebbe il coronamento meritato di una magnifica carriera. Se fosse nato il Conte ter, non sarebbe stato corretto chiamare Draghi alla guida della Repubblica. I grandi tecnici debbono guadagnarsi il Colle sul campo. Lo fece Luigi Einaudi, vice presidente del Consiglio e ministro di Tesoro, Finanze e Bilancio nel quarto governo De Gasperi, prima di diventare governatore della Banca d'Italia. Lo fece Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio e ministro del Tesoro dopo aver guidato la Banca d'Italia. Lo ha fatto Draghi, non solo salvando l'Italia e l'Europa con il whatever it takes del 2012, ma soprattutto guidando il Paese nel momento più difficile dal dopoguerra. Ma attenzione: un governo in cui stanno insieme Lega e Pd è possibile solo se i partiti sono bastoncini dello Shangai mossi da un presidente del Consiglio attentissimo a non far cadere gli altri. Questo gioco, però, può farlo soltanto lui e - per la parte economica - può continuare a farlo dal Quirinale aiutando chi dovesse sostituirlo a Palazzo Chigi per i quindici mesi che ci separano dalle elezioni del 2023. Se al Quirinale salisse un altro, Draghi potrebbe andar via insieme con Mattarella, al quale consegnerebbe il buon lavoro fatto finora. Alla vigilia delle elezioni, infatti, i bastoncini dei partiti diventano incontrollabili. E perché mai un presidente sfiduciato dai partiti che non lo hanno voluto al Quirinale dovrebbe diventare una loro pedina? Ecco allora che si andrebbe subito alle elezioni anticipate, con grande scorno di chi avrebbero voluto Draghi fino al 2023 per dargli poi il benservito».
Francesco Verderami per il Corriere si concentra sui peones, ipotizzando che da loro possa venire la soluzione a sorpresa.
«Ridotti da anni a ratificare scelte altrui, sul Quirinale i peones puntano a fare da soli. I parlamentari sanno che per la prima volta conteranno. E siccome per moltissimi la prima volta sarà anche l'ultima, nella scelta del capo dello Stato potrebbero farsi beffe delle indicazioni dei leader e cambiare le sorti della Corsa, elevando così a regola la massima grillina: quella dell'«uno vale uno». È un sentimento collettivo che non ha vincoli di appartenenza: in Transatlantico si riconoscono tra loro con una battuta fugace. Li accomuna «il senso della rivincita», definizione del leghista Volpi, che per la sua esperienza fin qui ne ha viste tante e che nella gara per il Colle si prepara a vederne tantissime. I vietcong del voto segreto militano in tutti i gruppi, dove «nessuno controlla nessuno», come dice Quagliariello: «E quando qualcuno pensa di controllare venti colleghi, è già considerato un grande elettore». Questa è la condizione del Palazzo, «e c'è un'evidente responsabilità - secondo il capogruppo forzista - se tutto è fuori controllo». Pur militando in uno schieramento diverso, Barelli la pensa come il sottosegretario Tabacci, che viene dalla vecchia scuola diccì e interpreta il momento come «la legge del contrappasso»: dopo il taglio dei vitalizi, la riduzione del numero dei parlamentari e (per i grillini) il limite dei due mandati, «ecco come sono stati ridotti la politica e il Parlamento». Servirà uno sforzo titanico dei partiti per ricondurre i gruppi alla ragione, altrimenti nessuno sarà capace di indirizzare il risultato. È vero, mancano ancora due mesi al rendez vous, e ha ragione Letta quando spiega che «non si è mai visto un presidente della Repubblica scelto due mesi prima del voto». Ma un mese prima sì, stando al racconto che sette anni fa fece l'allora capo della segreteria del Pd Guerini per festeggiare con i deputati l'elezione di Mattarella: «Avevamo deciso un mese fa», mentre tutti andavano dietro il patto del Nazareno. Certo, dopo la decisione bisognò lavorare gli ultimi giorni. Solo che allora i partiti erano ancora solidi. Adesso è un'altra storia. Bastava sentire l'altro ieri il dem Raciti, mentre alla Camera discuteva con alcuni compagni di Quirinale: «Quando c'è un voto a scrutinio segreto, i parlamentari si convincono non si costringono». E c'è da scommettere che stavolta nessun leader potrà rendere nota la decisione all'ultimo momento con un sms. In realtà, il risultato non è scontato nemmeno se la scelta si conosce con largo anticipo. In Forza Italia, per esempio, c'è una spaccatura che la candidatura di Berlusconi al Colle non riesce fino in fondo a sanare. I franchi tiratori sono dati per scontati, e secondo l'ex ministro Costa «saranno quelli della Lega e di FdI a non votare il Cavaliere». Anche se sui divanetti azzurri regna (per ora) il buonumore e goliardicamente i deputati già immaginano il primo plenum del Csm presieduto da Berlusconi, il primo messaggio di fine anno agli italiani di Berlusconi, ma soprattutto la foto di Berlusconi esposta negli uffici di tutti i procuratori d'Italia. E giù risate. Nel Pd invece il clima è pesante, e i capigruppo avvertono «i primi segni di nervosismo». Sarà perché tornano alla luce i soliti sospetti. Da una parte c'è chi teme di rimanere «vittima del nostro peccato originale», quello cioè di esser stati renziani, nonostante siano rimasti nel partito. E dall'altra c'è chi diffida della loro lealtà quando si dovrà votare per il Colle, al punto che un esponente della segreteria arriva a denunciarlo: «Berlusconi sta provando a pescare tra i traditori che lavorano per sabotare il Pd». Ma la voglia di rivincita dei peones non può essere ridotta a un problema di posti. C'è qualcosa di più profondo. Altrimenti non si spiega la decisione di Portas, che siede nel gruppo dem è a capo dei Moderati e un seggio per la prossima legislatura ritiene di averlo già conquistato «per meriti sul campo, come ha riconosciuto Letta, ricevendomi. Solo che a Enrico gliel'ho detto. Sul Quirinale farò di testa mia: il primo voto lo darò a Bersani, perché ho grande stima di lui. Poi darò un premio alla carriera, come fosse un Oscar. E sarà per Berlusconi». Ecco...».
Augusto Minzolini, per il quale il vero candidato per il Colle resta Berlusconi, chiede a Draghi di uscire allo scoperto dopo il no deciso alla riconferma da parte di Mattarella:
«Dopo la rinuncia «urbi et orbi» di Sergio Mattarella all’ipotesi di una sua ricandidatura al Quirinale, il silenzio di Mario Draghi sul suo futuro, sul suo presunto desiderio di salire al Colle, si è fatto più assordante. E, non ce ne voglia il premier, quest’indeterminatezza è un elemento di destabilizzazione in un momento così delicato per il Paese. Anche perché lo scenario politico è reso ancor più confuso dalla condizione inedita del Pd, che dopo aver dato per una serie di circostanze fortunate le carte nell’elezione del capo dello Stato per trent’anni, oggi si ritrova orfano dell’unico nome forte che aveva a disposizione per il Quirinale, cioè proprio quello dell’attuale presidente. Così, almeno un pezzo del partito di Enrico Letta si sta riconvertendo precipitosamente sull’ipotesi Draghi compiendo però un doppio salto mortale dal punto di vista razionale, perché teorizzare che se il premier non prendesse il ruolo di Mattarella il governo andrebbe a scatafascio e con esso la legislatura, è una totale invenzione, un esercizio di ipocrisia bello e buono, dettato dall’ansia e dalla paura di ritrovarsi tra qualche mese dopo tanto tempo senza un punto di riferimento benevolo sul Colle. Semmai è vero l’esatto contrario: se Draghi salisse al Quirinale la strada per le urne sarebbe aperta, visto che senza la sua autorevolezza e il suo prestigio è inimmaginabile pensare che una maggioranza divisa e composita come l’attuale possa andare avanti. Inoltre sarebbe difficile spiegare la logica che si cela dietro la scelta di un premier di mollare Palazzo Chigi mentre i contagi risalgono, il governo si appresta a prolungare lo stato d’emergenza, l’inflazione torna a galoppare, i progetti del Pnrr stentano a decollare e in assenza di un erede che metta il Paese al riparo dal rischio di elezioni anticipate. Poi certo ogni ambizione è legittima, si possono accampare tutte le motivazioni del mondo: anche perché se Otto von Bismarck teorizzava che la politica è l’arte del possibile, i pittoreschi governi Conte ci hanno insegnato che da noi è diventata la scienza dell’impossibile. Ciò che non è lecito, però, è tenere un Paese appeso ai silenzi in un momento così complicato. Creando le premesse per cui ogni mossa, ogni compromesso al ribasso, ogni rinvio del governo venga letto come una tattica di Draghi per salire al Colle. Quest’indeterminatezza non dà sicurezza agli imprenditori che investendo (e rischiando) devono far ripartire il Paese, né aiuta a convincere quella sacca di popolazione che ancora non accetta il vaccino. Ma, soprattutto, è un atteggiamento ingiusto verso quei tanti italiani, la stragrande maggioranza, che si sono impegnati e si sono messi in gioco per ripartire. Ci vorrebbe, insomma, più chiarezza da parte di tutti e una buona dose di buonsenso. Far filtrare dall’entourage del Colle nel «day after» della rinuncia, sai per quale interesse, che Mattarella, ad esempio, sarebbe disponibile a restare se i partiti assumessero l’impegno di una riforma costituzionale che impedisse la rieleggibilità del capo dello Stato, cozza proprio con il buonsenso. Bisognerebbe trovare le parole per spiegare alla gente che il presidente sarebbe disposto ad accettare il secondo mandato in nome della non rieleggibilità: un compito arduo, paragonabile alla quadratura del cerchio. Come pure un premier che resta in silenzio quando tutti lo chiamano in ballo non contribuisce certamente, ci sia concesso, alla chiarezza».
LOTTA NEL FANGO TRA RENZI E TRAVAGLIO
Continua la diatriba fra Il Fatto di Marco Travaglio e Matteo Renzi. Ieri Lilli Gruber ha ospitato entrambi in tv per uno scontro diretto. La cosa curiosa è che nei resoconti di ieri il giornale di Travaglio aveva nascosto, della spregiudicata email di Fabrizio Rondolino, la frase con cui il giornalista suggeriva a Renzi di usare gli stessi metodi del Fatto. Frase cinica ma anche auto ironica, sulla quale concentra la sua attenzione Giuliano Ferrara sulla prima pagina del Foglio. Per dire: mai usare gli stessi metodi del nemico.
«Il garantista cinico non giura, non esprime la propria coscienza retta e la buona fede, osserva denuncia e corregge quanto gli si para di fronte con un metro diverso dalla coscienza, quello della convenzione giuridica. Ecco perché tra le carte dell'inchiesta sulla Fondazione Open si rintracciano elementi di grottesco, di ridicolo, di avventato ma non di cinismo. Le vittime designate del mai realizzato progettino di character assassination messo insieme con mezzucci ideativi da dark web e trovatine radiotelevisive e social si lamentano, certo, ma di che si lamentano? Del fatto che i loro metodi, come succede in tutte le Bestie e bestioline che si accaniscono per produrre il falso e il verosimile diffamatorio, sono emigrati nel campo degli avversari, del nemico. A un certo punto il garantismo cinico, arma difficile da maneggiare ma arma assoluta e alla fine invincibile, sembra non bastare più, e all'informazione gestita dagli aguzzini si oppone una controinformazione che li imita. Con questo si esce dalla botte del cinismo e si entra nel campo della faziosità moralistica, precisamente come ha fatto l'avversario. Così si perdono le sfumature, gli atteggiamenti mentali ironici e consapevoli, ci si inoltra nella palude fangosa. Non fa specie, ma proprio per niente, che il mondo renziano a un certo punto abbia deciso di dare una lezione ai pesci pilota dell'accozzaglia che li ha ridotti in minoranza spesso con metodi banditeschi; fa impressione la facilità con cui si slitta sul terreno scivoloso proposto da chi ti è contro. E in quella facilità si annidano i vizi capitali della vita associata, nessuno escluso. Ne risulta una lotta greco- romana di corpi avvinghiati nel fango dell'arena, spettacolo truce, parodia della lotta tra bene e male, estraneo a ogni elegante e pulito e indifferente esercizio di cinismo. L'associazione per contro informare sigillata dal corrusco memo firmato Rondolino & Ercolani e indirizzato allo stato maggiore della fondazione non aveva niente di temibile per i giustizialisti grillini o fattaioli e altri dell'accozzaglia, molto di deprimente per i garantisti che li combattevano e li combattono con il garantismo cinico, senza false indignazioni, non con i loro mezzucci appassionati e faziosi».
COP26, SI TRATTA A OLTRANZA
Come i lettori della Versione sanno da qualche giorno, si va avanti ad oltranza anche nel fine settimana per trovare un accordo sul documento finale della Cop26 di Glasgow. Sara Gandolfi per il Corriere.
«Il vertice sul clima avrebbe dovuto chiudere ieri. Ma nella notte sono continuati i negoziati a porte chiuse e il presidente Alok Sharma ha annunciato lo slittamento a oggi. Una telefonata tra il premier britannico Boris Johnson e il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, partner della presidenza di Cop26, ha cercato il punto di svolta sulla questione chiave: i soldi. «Stanno lavorando insieme per guidare i progressi nei negoziati», ha detto un portavoce di Downing Street. «I leader hanno convenuto che sono necessari progressi sulla finanza, in particolare sull'obiettivo di 100 miliardi di dollari, e impegni più ambiziosi sulla riduzione delle emissioni». In quelle che Londra ha definito «le ultime ore critiche dei negoziati», restavano ancora diversi nodi che la seconda bozza della Dichiarazione finale, uscita in mattinata, non aveva sciolto. Dal mercato della CO2 alla finanza climatica. Per ottenere un accordo tutti i 197 firmatari devono dire «sì». Sfida da fine diplomazia, e inevitabili compromessi. Si sta scrivendo la «roadmap» dell'Accordo di Parigi e qualche passo avanti, tecnico ma fondamentale, a Glasgow è stato compiuto. Ad esempio sulla Trasparenza: come conteggiare e controllare i progressi nazionali. Ora ci sono format e standard per i rapporti che i governi dovranno presentare dal 2024 (tanto ci vuole perché i funzionari imparino ad usare il software). 1,5 è il numero-chiave, ovvero il massimo aumento di temperatura che gli scienziati concedono alla Terra perché non vada in tilt. Come si fa, visto che siamo già a 1,1°C? Secondo l'Ipcc, «riducendo le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030», e questa frase c'è (per ora) nella Dichiarazione di Cop26. Anche se i piani nazionali, oltre ai vari «impegni» presi dai leader in questi giorni - dallo stop alla deforestazione al taglio delle emissioni di metano - ci porterebbero, a seconda delle stime, tra 1,8° e 2,4°. A Glasgow però s' è deciso che i piani vanno rivisti al rialzo nel 2022. Per quanto riguarda il Net Zero, l'economia a zero emissioni, nel 2015 quasi nessuno aveva un piano. Ora l'84% del mondo ce l'ha, anche se con date diverse. E dal 2022 tutti dovranno presentarne uno. E si arriva al capitolo «fossile». Appelli a smettere di sovvenzionare i combustibili fossili erano presenti già nel Protocollo di Kyoto del 1997. Non però nell'accordo di Parigi. Lo stop al carbone e ai sussidi per tutti i combustibili fossili nella Dichiarazione finale è un successo - il segretario dell'Onu e il vicepresidente dell'Ue Timmermans hanno fatto scudo - anche se annacquato dall'ostracismo di Arabia Saudita e Australia. Giovani e Paesi vulnerabili volevano una data: 2030. Impossibile. È l'abisso che separa ricchi e poveri. Mancato l'obiettivo di 100 miliardi di dollari l'anno dal 2020, la bozza di Dichiarazione «esorta i Paesi sviluppati a raddoppiare» i fondi per l'adattamento «rispetto all'attuale livello entro il 2025». Ma l'altra metà del mondo chiede ben altro: che i responsabili storici dell'inquinamento globale aumentino molto di più le cifre e che i finanziamenti siano in denaro e a titolo definitivo, non prestiti che creano ulteriore debito, oltre ad impegni adeguati per aiutarli ad affrontare i gravi danni causati dagli impatti climatici. Senza un chiaro impegno di Usa e Ue su questo fronte, la Cina potrebbe bloccare qualsiasi mossa per indurla a tagliare le emissioni più velocemente».
ANCORA UNA STRAGE IN AFGHANISTAN
Un altro venerdì di sangue in Afghanistan. Almeno 3 vittime e feriti per una bomba in moschea. La cronaca di Avvenire.
«Ancora una strage in Afghanistan. La presa del potere da parte dei taleban non ha immunizzato il Paese dall'onda delle violenze. Che, inesorabilmente, tornano a scuoterlo. L'ennesima esplosione è avvenuta ieri durante le preghiere del venerdì nella moschea del distretto di Spin Ghar, nella provincia di Nangarhar, Afghanistan orientale. Il portavoce del governo taleban per la provincia di Nangarhar, Qari Hanif, ha precisato che l'attentato è avvenuto nella località di Traili. Il bilancio è tragico: tre le vittime e almeno 15 i feriti. L'attacco non è stato rivendicato, ma il ramo afghano del Daesh, emerso per la prima volta proprio a Nangarhar nel 2015, ha "firmato" una serie di sanguinosi attentati dopo il ritorno al potere dei taleban. Il Paese continua a essere sospeso sull'orlo di un precipizio. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità 3,2 milioni di bambini soffriranno di malnutrizione acuta in Afghanistan nel corso di quest' anno, e un milione a rischio di morire a causa dell'abbassamento delle temperature. Cifre spaventose che fotografano la situazione drammatica del Paese. «Il mondo non deve e non può permettersi di voltare le spalle all'Afghanistan», ha detto la portavoce Margaret Harris. L'Oms ha inviato forniture a 47 centri di alimentazione terapeutica in 23 province e medicinali e set di alimentazione a 30 centri di alimentazione per la malnutrizione, ma resta la pressante necessità di una risposta coordinata delle Nazioni Unite con il sostegno dei donatori per affrontare la crisi. Ma non basta. Un'altra emergenza si salda alla carenza cronica di cibo. Un'epidemia di morbillo ha già causato un centinaio di morti in Afghanistan: «Per i bambini malnutriti il morbillo è una condanna a morte», ha avvertito Harris. Dal gennaio scorso ci sono stati più di 24mila casi di morbillo e 87 decessi. Infine un altro allarme è stato lanciato dall'Unicef che denuncia come sia aumentata nel Paese la pratica dei matrimoni precoci. L'Unicef stima che il 28% delle donne afghane tra i 15 e i 49 anni si sono sposate prima dei 18 anni».
IL PAPA AD ASSISI: “FATE PARLARE I POVERI”
Visita di Papa Francesco ad Assisi in occasione della Giornata Mondiale dei poveri che si celebra domani. Il suo richiamo: “Basta violenza su donne e bambini: non sono merce di scambio”. La cronaca di Gianni Cardinale per Avvenire.
«È tempo «che ai poveri sia restituita la parola, perché per troppo tempo le loro richieste sono rimaste inascoltate». È tempo «che si aprano gli occhi per vedere lo stato di disuguaglianza in cui tante famiglie vivono». È tempo «di rimboccarsi le maniche per restituire dignità creando posti di lavoro». È tempo «che si torni a scandalizzarsi davanti alla realtà di bambini affamati, ridotti in schiavitù, sballottati dalle acque in preda al naufragio, vittime innocenti di ogni sorta di violenza ». È tempo «che cessino le violenze sulle donne e queste siano rispettate e non trattate come merce di scambio ». È tempo «che si spezzi il cerchio dell'indifferenza per ritornare a scoprire la bellezza dell'incontro e del dialogo». È tempo «di incontrarsi », perché «se l'umanità, se noi uomini e donne non impariamo a incontrarci, andiamo verso una fine molto triste». Sono parole forti quelle che papa Francesco pronuncia ad Assisi. Le scandisce dopo aver ascoltato la testimonianza commovente di un gruppo di poveri. È il preludio della Giornata Mondiale dei poveri che si celebra domenica. Nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, davanti alla Porziuncola, questi ultimi tra gli ultimi raccontano le loro storie drammatiche. C'è la donna afgana fuggita dalla furia misogina dei taleban. C'è l'ex badante romena inchiodata sulla sedia a rotelle dalla malattia. Francesco ascolta assorto. E poi risponde. Elogia il «coraggio» e la «sincerità» di chi ha parlato. Ricorda l'insegnamento di san Francesco: «Saperci accontentare di quel poco che abbiamo e dividerlo con gli altri». Ricorda che il "poverello" si raccoglieva proprio nella Porziuncola «in silenzio e si metteva in ascolto del Signore, di quello che Dio voleva da lui». «Anche noi - aggiunge il Papa - siamo venuti qui per questo: vogliamo chiedere al Signore che ascolti il nostro grido, che ascolti il nostro grido!, e venga in nostro aiuto ». Il Papa osserva con amarezza che oggi «spesso la presenza dei poveri è vista con fastidio e sopportata; a volte si sente dire che i responsabili della povertà sono i poveri!, un insulto in più!». Così «pur di non compiere un serio esame di coscienza sui propri atti, sull'ingiustizia di alcune leggi e provvedimenti economici, sull'ipocrisia di chi vuole arricchirsi a dismisura, si getta la colpa sulle spalle dei più deboli». È la quinta volta di papa Francesco ad Assisi. Il programma è breve ma intenso. E c'è subito una sorpresa fuori programma. L'arrivo di Papa Francesco è previsto alle 9 alla Basilica di Santa Maria degli Angeli dove ad accoglierlo, oltre alle autorità, saranno cinquecento poveri, che formano un "abbraccio" ideale. Ma appena atterrato con l'elicottero che lo ha trasportato da Roma il Pontefice sale ad Assisi nel monastero di Santa Chiara a salutare le sorelle clarisse raccolte per accoglierlo, fermandosi a pregare con loro. Quindi scende nella Basilica di Santa Maria degli Angeli dove arriva con una mezz' ora abbondante di ritardo. Ad accoglierlo c'è il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino (e di Foligno) Domenico Sorrentino. C'è l'arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, presidente della Conferenza episcopale umbra. C'è la sindaca Stefania Proietti. C'è l'arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione che su mandato del Papa ha il compito di organizzare e promuovere la Giornata mondiale dei poveri. Ci sono poi il ministro generale dei frati minori, padre Massimo Fusarelli, e il custode della Basilica, padre Massimo Travascio. Poi ci sono i cinquecento poveri. Una sessantina di loro vengono da Roma, la diocesi del Papa. Poi le diocesi dell'Umbria sono tutte rappresentate. E infine 200 vengono da fuori Italia - da Francia, Spagna, Polonia, Germania - attraverso l'associazione francese "Fratello" che fin dall'inizio partecipa alla Giornata. Con loro il cardinale francese Philippe Barbarin, arcivescovo emerito di Lione. Parlando a braccio lo ringrazia per la testimonianza offerta nell'affrontare le accuse di copertura di abusi. Al discorso del Papa segue il momento di preghiera. Quindi la distribuzione del dono del Pontefice ai poveri. Cinquecento zaini realizzati in caucciù naturale e biodegradabile, contenenti capi di abbigliamento. Dopo i saluti conclusivi Francesco non è rientrato subito in elicottero in Vaticano, ma, ecco la seconda a sorpresa della giornata, si è recato a pranzo dalle clarisse di Vallegloria nella vicina Spello, monastero che ha già visitato nel gennaio 2019. Mentre i poveri vengono ospitati dall'arcivescovo Sorrentino per il pranzo organizzato da tutte le Caritas dell'Umbria».
ADDIO A GALEAZZI, CRONISTA TRASVERSALE
Roberto Perrone, grande penna del giornalismo sportivo, dà l’addio a Giampiero Galeazzi, giornalista tv, telecronista e anche show man della Rai, in un bell’articolo scritto per Il Foglio.
«L'ultimo messaggio: "Il tempo è sempre galantuomo grazie per i ricordi e le mangiate gp". Grazie a te, Giampiero. Che cosa rende un essere umano speciale? I ricordi che abbiamo di lui, resistenti all'oblio. Tra quelli comuni, le sue telecronache sul remo azzurro, dall'epopea degli Abbagnale ("Andiamo ragazzi, la prua è italiana", Seul ' 88) ad Antonio Rossi ("Vai Antonio, sei il più forte del mondo, andiamo a vincere", Sydney 2000). Oppure il suo amore per il tennis, da Panatta a Canè, sempre addosso al protagonista di turno. Giampiero è stato canottiere, andò all'olimpiade del Messico, nel 1968. Mentre gli eroi remavano verso il successo, la sua voce si arrochiva sempre di più, ma conservando competenza ed entusiasmo. Giampiero Galeazzi, romano, giornalista, showman in alcune parti della sua vita (da Sanremo con Pippo Baudo a Domenica in con Mara Venier) se n'è andato a 75 anni. Malato da tempo, era nato a Roma il 18 maggio del 1946 Gian Piero Daniele Galeazzi. Di origine piemontese, laureato in economia con una tesi in statistica, grande e grosso, ottenne il suo famoso soprannome da un altro giornalista storico della Rai, Gilberto Evangelisti, che quando lo vide per la prima volta, sentenziò: "Ma chi è ' sto bisteccone?". E Bisteccone, con la b maiuscola, fu. Giampiero è stato un grande cronista, trasversale. Una volta, in Islanda per una partita di calcio, travolse gli ingessati giornalisti al seguito, scaraventandosi verso Reagan e Gorbaciov, appena usciti da un summit. Esattamente come faceva con Platini o Falcao. Perché Giampiero era un uomo nella mischia. Avete presente i bordocampisti/ intervistatori di oggi, "tutti eleganti tranne me" avrebbe cantato Antonello Venditti, che, all'inizio dell'intervista con il giocatore/ allenatore/ dirigente di turno, esordiscono con "ti chiedo"? Ebbene, Giampiero avrebbe commentato: "Ao' e se stai là, stai pe' chiede', che specifichi a fa'?". Non è una critica, solo nostalgia canaglia. Giampiero ci offre lo spunto per ricordare un modo di narrare lo sport e un giornalismo che non esistono più. Certo, il mondo evolve, però io penso all'hapax di Eugenio Montale: "È scomparso l'ha - pax / l'unico esemplare di qualcosa / che si suppone esistesse al mondo / (...) Fosse stato un uccello, un cane o almeno un uomo / allo stato selvatico. Ma si sa / solo che non c'è più o non può rifarsi". Giampiero Galeazzi era nato a Roma il 18 maggio 1946. Era stato campione di canottaggio (Foto ansa) Giampiero Galeazzi era il campione di un giornalismo serio senza essere serioso. A differenza di tanti altri giornalisti che si nascondono dietro il "non tifo", non ha mai nascosto di essere della Lazio. Sapeva che l'amore per una squadra non avrebbe mai zavorrato la sua professionalità. Era il campione di un giornalismo sempre sulla notizia, ma gaudente. Una volta un telecronista dei più famosi oggi giorno spiegò che lui, nel giorno delle partite non mangia nulla per non appesantirsi. Nel 2005 eravamo a Torre del Greco per Italia- Spagna di Coppa Davis. Un cameriere con un enorme vassoio dove ci saranno stati, almeno, una decina di piatti impilati uno sull'altro, passa per la sala stampa. Facciamo finta di avventarci. "Grazie del pensiero". Lui arretra. "Non è per voi, è il pranzo del dottore Galeazzi". Altro che giornata di digiuno pre match. Giampiero era il campione di un giornalismo senza transenne, in cui i giornalisti arrivavano ovunque, pronti a farsi parte dell'evento. Avete presente gli intervistatori/ le intervistatrici di oggi, tutti con il logo e il microfono griffato, mai un ricciolo fuori posto? Noi abbiamo visto cose che voi umani neanche immaginate. Abbiamo visto Giampiero nell'antro polifemesco del San Paolo irrorato di acqua e spumante, la camicia a brandelli, ballare con Maradona intervistandolo dopo lo storico scudetto del 1987. Abbiamo visto Giampiero Galeazzi, nell'antistadio del Comunale di Torino, inzaccherato di neve e fango, farsi largo tra i membri della corte di Gianni Agnelli e piantargli il microfono in bocca, costringendolo a un commento sulla Juventus. Giampiero Galeazzi è stato un grande giornalista perché era un professionista, ma soprattutto perché aveva una grande autoironia. Era serio, ma non si prendeva sul serio. Un anti- trombone pieno di idee, come quella di un libro sui ristoranti accanto ai grandi impianti sportivi che mi propose ma che non riuscimmo mai a portare a termine. Per mia massima colpa. Chi sa ridere di sé, conosce il suo valore. Non so se sia vera, ma me la raccontò proprio Giampiero, una delle battute più famose che giravano su di lui. Galeazzi torna in Rai dopo un periodo di ferie. "Giampiè dove sei stato?". "Al centro benessere, da Messegué". "E che, te lo sei magnato?". Più che scrivere un libro sui ristoranti, avrebbe dovuto scrivere un libro di ricordi. A me e al mio amico Dario Torromeo raccontò una serie di aneddoti fulminanti, facendo le ore piccole nel bar di un hotel di Neuchatel nel cantone svizzero francese, dove ci trovavamo per la coppa Davis. Uno ve lo sintetizzo. A furia di intervistarlo, una domenica sera l'avvocato lo invita a cena nella sua villa. Con lui un po' di membri assortiti del seguito. L'Avvocato pilucca e loro pure. Galeazzi, allora, prende metà vassoio di tutto. "Cavo Galeazzi, l'appetito non le manca" commenta Gianni Agnelli che poi si ritira per andare a dormire. "E com' è uscito, se so' avventati sui vassoi, ' sti zozzoni'". Ci sarebbe anche quella della "valigetta de furore", guest star Carlo De Benedetti. E tante altre. Ma la lascio per quelli di lassù, Giampiero, così farai ridere anche loro. Buon viaggio, vecchio mio».
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