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Zelensky: il Papa garante della pace

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Zelensky: il Papa garante della pace

Abilissimo discorso del presidente ucraino a Montecitorio, che annuncia di aver parlato con Papa Francesco. Le serie speranze per una trattativa. Biden bellicoso, Mosca minaccia e condanna Navalny

Alessandro Banfi
Mar 23, 2022
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Zelensky: il Papa garante della pace

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Sarà anche stato per calcolo, per andare incontro ai sentimenti di solidarietà e di pace del popolo italiano, ma ieri Volodymyr Zelensky, collegato da Kiev con Montecitorio, ha fatto un discorso molto incisivo e convincente. Non per niente è stato preceduto da una telefonata con Papa Francesco, che ha riacceso in modo serio le speranze di una trattativa di pace. Una trattativa seria che non sia condotta, come scrive giustamente oggi Piero Ignazi nell’editoriale del Domani, dal “dittatore turco Erdogan, che mette in galera per dieci anni una oppositrice come Canan Kaftancioglu”. O dalla Cina. Ma dalla diplomazia vaticana.

È una grande speranza che oggi percorre titoli di prima pagina e commenti di molti quotidiani: da Repubblica alla Verità. Avvenire sintetizza per tutti così le parole del presidente ucraino: «Il Papa ci aiuti a far pace» e Il Fatto titola: La mossa di Zelensky: avere Papa Francesco come garante. A qualche commentatore con l’elmetto il discorso del presidente ucraino è sembrato troppo “sentimentale”. Nessun riferimento alla no fly zone, nessuna forzatura, nessun appello alle armi. Ed è da notare che lo stesso Mario Draghi è sembrato andare sopra tono nel citare nella sua replica immediata quegli “aiuti anche militari”, di cui Zelensky non ha invece parlato.  

Molto importante però è stata la solenne promessa del nostro Presidente del Consiglio a far entrare l’Ucraina nell’Unione Europea. È questa la strada giusta, diplomatica e politica, che dà spessore all’amicizia e alla solidarietà degli italiani verso gli ucraini. Su questa idea si deve concentrare ogni sforzo delle prossime ore, segnate dalle riunioni europee, presente Biden. L’Ucraina nell’Europa, che non è un’alleanza militare, significa portare il grande sacrificio della Resistenza ucraina ad un obiettivo politico e strategico di ampio respiro.   

Le notizie dal campo bellico sono contrastanti: vicino a Kiev c’è stata una controffensiva dell’esercito ucraino. Mentre da Mariupol e Odessa arrivano notizie di pesanti bombardamenti. Drammatica la condizione dei profughi: ammassati fra Leopoli, centro di raccolta all’interno dell’Ucraina, e Varsavia, vero hub per chi scappa dalla guerra. Ieri con un ponte aereo sono arrivati in Italia centinaia di ucraini fragili e malati. Lo stesso Zelensky ha voluto ringraziare il nostro Paese per la solidarietà dimostrata e ha ricordato come sia nata in Italia la prima bambina figlia di ucraini scappati dal conflitto.

Le notizie dalla Russia sono sempre più preoccupanti. Ieri l’oppositore Alexey Navalny, che si consegnò alle autorità del suo Paese pur sapendo di andare in galera, è stato condannato a 9 anni di carcere duro e il regime cerca di impedirgli ogni comunicazione dalla prigione, attraverso familiari e avvocati. L’escalation militare esterna corrisponde ad un inasprimento del regime interno: la poetessa Olga Sedakova dice a Marta Ottaviani su Avvenire che la Russia di Putin è in preda ad una forma di nuovo stalinismo.   

E tuttavia la domanda vera è quella rilanciata da Massimo Borghesi su Vita.it: come possiamo porre fine alla guerra? Sulla Stampa Domenico Quirico, partendo della considerazione del “nemico” russo parla dell’odio che il clima bellico eccita ed esalta in tutto il mondo e cita l’Antigone di Sofocle, quando dice: «Non sono fatta per vivere con il tuo odio». Quirico non lo aggiunge ma la protagonista della tragedia greca subito dopo dice: «Sono fatta per condividere l’amore». Chi può dire che non sia così?

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae un padre che tiene in braccio una bambina, che si è addormentata. Siamo a Leopoli, nella parte occidentale dell’Ucraina, in un centro di raccolta dei profughi nella stazione ferroviaria. L’uomo dovrà lasciare, nelle ore successive a questo scatto, la moglie e le figlie che sono in fuga verso la salvezza, verso l’Europa. La legge marziale lo obbliga a stare nel Paese, dove si combatte contro l’invasore russo.   

Foto di Yuriy Dyachyshyn per France Presse.

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Oggi cominciamo dal già citato titolo di Avvenire che mette fra virgolette una frase di Zelensky al Parlamento italiano: «Il Papa ci aiuti a far pace». La Verità riassume così: Il Papa adesso fa sul serio e Zelensky cambia registro. Il Fatto mette in contrasto il presidente ucraino con i toni usati dal governo: Zelensky fa la colomba e Draghi diventa falco. Il Corriere della Sera è quasi generico: Zelensky all’Italia: aiutateci. Stessa linea del Messaggero: Mano tesa all’Ucraina. Mentre Repubblica sottolinea la promessa di Draghi per far entare il Paese nella Ue: “L’Ucraina è Europa”. Stessa scelta del Domani che, ieri proprio alla vigilia, aveva battuto su questo stesso punto: Draghi promette a Zelensky l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. Il Foglio estremizza: I partigiani dell’europeismo. Il Giornale esaspera: Schiaffo di Draghi a Putin. Quotidiano Nazionale enfatizza i dubbi di Salvini: Le armi a Kiev spaccano la maggioranza. Così come Il Mattino: Draghi: altre armi a Kiev. Invece Libero attribuisce al presidente ucraino le divisioni: Zelensky ci parla. La politica si spacca. La Stampa sceglie una frase del discorso di Zelensky che ha creato immedesimazione negli italiani: “Immaginate se Genova fosse Mariupol”. Il Manifesto va sulla frase del portavoce di Putin a proposito della bomba atomica, che può essere usata in caso di attacco: La sottile linea russa. Il Sole 24 Ore si concentra sui nuovi incentivi per le vetture ecologiche: Auto, ecco come avere i nuovi bonus.

ZELENSKY INVITA IL PAPA A KIEV E AD UNA MEDIAZIONE

Telefonata ieri tra il Papa e Zelensky, resa nota ieri dal presidente ucraino. Una mediazione vaticana sarebbe accolta con favore. La Sala stampa della Santa Sede ha confermato la chiamata ma senza rivelare nulla sui contenuti della conversazione. Mimmo Muolo per Avvenire.

«Seconda telefonata ieri tra il Papa e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. La notizia è stata diffusa dallo stesso presidente durante il collegamento video con il Parlamento italiano. E confermata poi dall'ambasciatore in pectore dell'Ucraina presso la Santa Sede, che in un tweet ha aggiunto il particolare (non confermato dalle fonti ufficiali vaticane) secondo cui sarebbe stato il Pontefice a chiamare Zelensky. Anche sui contenuti della telefonata la Sala Stampa della Santa Sede non ha fornito elementi, limitandosi a confermare la telefonata. Zelensky ha proprio aperto con questa notizia il suo collegamento con Montecitorio. «Caro popolo italiano, oggi ho parlato con sua Santità Papa Francesco e lui ha detto parole molto importanti», ha annunciato. Per poi aggiungere: «Io ho risposto che il nostro popolo è diventato l'esercito» quando l'Ucraina ha visto il «male che porta il nemico, quanta devastazione lascia e quanto spargimento di sangue». In un successivo tweet il capo dello Stato ucraino ha rivelato di aver «raccontato a Sua Santità la difficile situazione umanitaria e il blocco dei corridoi di soccorso da parte delle truppe russe». Inoltre, ha twittato il presidente, «il ruolo di mediazione della Santa Sede nel porre fine alla sofferenza umana sarebbe accolto con favore». E infine Zelensky ha «ringraziato per le preghiere per l'Ucraina e la pace». In precedenza, sempre con tweet, l'ambasciatore Andrii Yurash aveva commentato la telefonata come un «nuovo visibile gesto di sostegno da parte di papa Francesco». E aveva spiegato: «Il Papa ha detto di star pregando e facendo tutto il possibile per la fine della guerra». Zelensky, secondo il diplomatico, gli ha risposto che Sua Santità «è l'ospite più atteso in Ucraina », ripetendo così l'invito che era stato rivolto a Francesco con una lettera del sindaco di Kiev, Vitalij Klycko giunta in Vaticano lo scorso 14 marzo. In quella occasione il direttore della Sala Stampa della Sede, Matteo Bruni, confermò la ricezione dell'invito e disse: «Il Santo Padre è vicino alle sofferenze della città, alla sua gente, a chi ne è dovuto fuggire e a chi è chiamato ad amministrarla. Prega il Signore che siano protetti dalla violenza». Francesco chiamò il presidente ucraino per la prima volta il 26 febbraio scorso, esprimendogli «il suo più profondo dolore per i tragici eventi». Lo stesso Zelensky poco dopo riferì di aver «ringraziato papa Francesco per aver pregato per la pace in Ucraina e per una tregua. Il popolo ucraino sottolineò - sente il sostegno spirituale di Sua Santità». A tal proposito, molti osservatori hanno notato ieri che i toni usati dal capo dello Stato ucraino nel collegamento con Montecitorio sono stati diversi da quelli di analoghi appuntamenti tenuti in precedenza con altri Parlamenti. Un frutto del colloquio con il Pontefice, si è ipotizzato. Una cosa è certa. Il Papa non smette un attimo di pregare per la pace. I suoi collaboratori più stretti, a partire dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, hanno dichiarato più volte la disponibilità a mediare per una soluzione pacifica. E le stesse parole pubbliche del Vescovo di Roma, come pure i suoi gesti, fanno capire che non si voglia spezzare il sia pur sottile filo diretto tra il Vaticano e Mosca. Lo si ricava mettendo in fila la più volte ribadita condanna della guerra («ripugnante e sacrilega», ha detto domenica scorsa), la definizione di «inaccettabile » per l'«aggressione armata » (Angelus del 13 marzo), ma anche la visita all'ambasciata russa presso la Santa Sede del 25 febbraio e il colloquio in video con il patriarca di Mosca Kirill del 16 marzo. E non è un caso che in quell'occasione Francesco abbia ricordato: «Le guerre sono sempre ingiuste. Perché chi paga è il popolo di Dio». Parole che sembrano anche una risposta a quanto lo stesso Patriarca aveva detto il 6 marzo, di fatto giustificando l'offensiva scatenata da Putin. E che certo non escludono quanto affermato domenica scorsa dal cardinale Parolin in un'intervista a Vida Nueva: «Il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi». Anche se, concludeva il porporato, «la ricerca di una soluzione negoziata resta una priorità».

Anche Paolo Rodari su Repubblica analizza le importanti mosse e le parole di Volodymyr Zelensky e di Papa Francesco.

«Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky cerca di arruolare il Papa fra i suoi: «Mi ha detto parole molto importanti: "Capisco che desiderate la pace e dovete difendervi"», ha riferito riportando in Parlamento un colloquio telefonico avvenuto fra i due ieri mattina. Francesco aveva già sentito Zelensky lo scorso 26 febbraio. Ieri ha ribadito la sua vicinanza a chi soffre, ha ascoltato Zelensky invitarlo a Kiev e chiedergli di mettere in campo una mediazione. Ma, spiegano Oltretevere, sulla mediazione non ci sono novità: sarà possibile solo se la chiedono le due parti, per adesso no. Mentre un viaggio del Papa a Kiev è possibile? Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, non conferma ma nemmeno esclude che la cosa possa avvenire: «Non ho ancora elementi sulla telefonata », spiega. E ancora: «Non sono in grado di dire, loro dicono di poter garantire la sicurezza e so che anche il presidente Macron andrà... forse anche Johnson...», ha aggiunto non chiudendo la porta all'eventualità di una trasvolata che sarebbe storica. La legittima difesa, spiega il Catechismo, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere. Per questo in Vaticano segnalano come in linea un tweet del cardinale Gianfranco Ravasi che cita una frase del teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer: «Se un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di seppellire i morti, cantare in gregoriano e consolare i parenti. Io devo afferrare il conducente al suo volante e bloccarlo». Fino a oggi Francesco ha cercato di non schierarsi politicamente nel conflitto. Anche al patriarca ortodosso di Mosca Kirill dieci giorni fa aveva detto: «La Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù ». Lo stesso concetto ribadito ancora ieri a Zelenski. Francesco ha mandato in Ucraina i cardinali Konrad Krajewski, elemosiniere della Santa Sede, e Michael Czerny, prefetto ad interim del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale proprio per portare la sua vicinanza a chi soffre. «Altre azioni non spettano né a loro né alla Chiesa», dicono Oltretevere. Sull'invio di armi in Ucraina la Chiesa resta comunque divisa. «Inaccettabile che l'Italia invii aiuti militari», ha detto ieri il presidente nazionale del movimento pacifista cattolico "Pax Christi", monsignor Giovanni Ricchiuti. E ancora: «Il Parlamento, che oggi comunque non era al completo, ha visto, ha sentito i cori, gli slogan, le invocazioni alla pace che sono salite dalle piazze, dalle scuole, dai bambini in marcia con le bandiere arcobaleno?». Francesco è sempre in contatto con il mondo ortodosso. Più volte ha sentito l'arcivescovo maggiore di Kiev-Haly della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk, chiedendo informazioni sulla situazione a Kiev e esprimendo la volontà di fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per la pace. «C'è sempre la possibilità di trovare una soluzione e una soluzione che sia onorevole per tutti, basta avere la buona volontà di farlo, io credo che in questo caso c'è bisogno di tanta buona volontà», ha confermato Parolin».

Sul Fatto Giampiero Gramaglia spiega come la mediazione vaticana possa avere una chance seria.  

«Per innescare una dinamica di pace nel conflitto in Ucraina scende in campo la diplomazia vaticana: Papa Francesco ha chiamato al telefono il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che l'ha invitato in Ucraina. Non si sa ancora se e quando la visita avverrà. Dice il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin: "Il Papa a Kiev? Non sono in grado di dire, loro dicono di poter garantire la sicurezza e so che anche il presidente Macron andrà". Poi aggiunge: "Non ci sono alternative al negoziato l'alternativa è la guerra, l'alternativa è la violenza, l'alternativa sono i morti". A complicare la mediazione vaticana, c'è il fatto che questo conflitto vede pure contrapposte le chiese ortodosse ucraina e russa. Nel darne notizia con un tweet, l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede Andryi Yurash descrive una conversazione "molto promettente" e giudica la telefonata un "nuovo visibile gesto di sostegno all'Ucraina da parte di Francesco": Il Papa ha detto che la Santa Sede "sta pregando e facendo tutto il possibile per la fine della guerra; il presidente ha ribadito che Sua Santità è l'ospite più atteso in Ucraina". L'ambasciatore Yurash spinge da giorni per una visita a Kiev di Papa Francesco. E la Russia presta attenzione al ruolo del Vaticano: l'Adn Kronos scrive che Alexei Paramonov, direttore per l'Europa del Ministero degli Esteri russo, il funzionario che aveva minacciato l'Italia e attaccato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, è stato designato prossimo ambasciatore presso la Santa Sede. In passato, il Vaticano non ha avuto molto successo quando ha cercato di prevenire un conflitto. Ma è vero che si rivolgeva all'Occidente protestante, mentre ora ha a che fare con la Russia, un Paese e un regime intrisi di religiosità ortodossa. Nel 1991, Giovanni Paolo II era contro la Guerra del Golfo - pur avallata dall'Onu -, scrisse a Bush padre e a Saddam Hussein, appoggiò Mikhail Gorbaciov che provò ad evitare che dall'offensiva aerea si passasse a quella terrestre: non servì a nulla. Ricevendo in Vaticano Lech Walesa, all'epoca presidente polacco, Karol Wojtyla gli raccontò che la guerra non lo faceva dormire. Dodici anni dopo, lo stesso Papa non ottenne di più con Bush figlio, che, contro il parere dell'Onu, invase l'Iraq. Wojtyla mandò a Washington il cardinale Pio Laghi, che il 5 marzo 2003 fu ricevuto alla Casa Bianca, senza esito alcuno. Due settimane dopo, scattava l'attacco all'Iraq e l'impressionante operazione Shock and Awe, un inferno in diretta televisiva. Le prospettive di successo in Ucraina non sono molte, al di là dell'entusiasmo dell'ambasciatore. Successivamente Zelensky ha riferito che il Papa gli "ha detto parole molto importanti" e che lui gli ha raccontato "la difficile situazione umanitaria e il blocco dei corridoi da parte dei russe": "Il ruolo di mediazione della Santa Sede nel porre fine alla sofferenza umana sarebbe accolto con favore", ha aggiunto, dopo aver ringraziato il pontefice "per le preghiere per l'Ucraina e la pace". Per il momento, papa Francesco in un tweet diffuso anche in russo e in ucraino, invita "ogni comunità e ogni fedele" a unirsi a lui in preghiera venerdì, il giorno dell'Annunciazione, per la pace nel Mondo, quindi pure in Ucraina. Zelensky è anche tornato a proporre un incontro con il presidente russo Vladimir Putin, dicendosi pronto a discutere dello statuto delle autoproclamate Repubbliche russofone ucraine e della Crimea. Ma per farlo, sostiene, è necessario un cessate-il-fuoco: "Una volta rimosso quell'ostacolo, parliamo". Da parte russa, si rovescia la medaglia: prima l'intesa, poi il cessate-il-fuoco. Chi non collabora a creare il clima per un negoziato sono gli Stati Uniti di Joe Biden. Il presidente, che domani sarà a Bruxelles per i Vertici dell'Ue e della Nato e poi andrà in Polonia, resta rigido, con la Russia e anche con la Cina. Biden vede "un Occidente più unito che mai" e paventa il ricorso alle armi chimiche da parte russa; Putin torna ad agitare l'incubo dell'atomica. Alla vigilia della partenza per l'Europa, il segretario di Stato Antony Blinken annuncia una raffica di sanzioni contro dirigenti cinesi responsabili della repressione di minoranze etniche e religiose nello Xinjiang».

ZELENSKY PIACE AI DEPUTATI: “GRAZIE ITALIA”

Zelensky parla alla Camera per 12 minuti, molti applausi. "Immaginate Genova distrutta come Mariupol". Poi ringrazia l'Italia, dove è nata la prima bambina di una mamma ucraina in fuga dalla guerra. Disertano la seduta soprattutto leghisti e grillini, 300 gli assenti. La cronaca di Concetto Vecchio per Repubblica.

«E poi tutti si alzano in piedi e lo applaudono, anche Matteo Salvini. Laggiù, sullo schermo, Volodymyr Zelensky, 44 anni, sembra un ragazzo, il capello corto, le maniche della camicia verde militare arrotolate, lo sguardo stanco di chi da ventisette giorni vive asserragliato nel bunker della storia. Dice che Mariupol è grande come Genova, e ora non c'è più. «Immaginate Genova, quindi. La conosco, ci sono stato». Nell'aula cala un silenzio spesso. A sera il sindaco Bucci lo inviterà a visitare la città, quando tutto questo orrore sarà finito. L'emiciclo di Montecitorio è pieno, ma non come ci sarebbe aspettati. Gli assenti sono almeno trecento, un terzo dei 945 parlamentari quindi ha disertato. Mancano all'appello soprattutto grillini e leghisti, tra cui Simone Pillon (a Londra) e Vito Comencini (che è stato in Russia). E non ci sono gli ex M5S Gianluigi Paragone, Mario Giarrusso, Elio Lannutti, Laura Granato, che per scelta è in treno anziché sugli scranni: «Zelensky non è un messo di pace». Fuori l'intero gruppo di Alternativa (tutti ex M5S). Alcuni tra i presenti, come l'altoatesina Julia Unterberger e Isabella Rauti (Fratelli d'Italia), si sono vestite di gialloblu, il renziano Luciano Nobili indossa una mascherina con i colori della bandiera ucraina, un deputato di Forza Italia ha dispiegato il vessillo sul banco. Sulle tribune fa discutere l'uscita del presidente filo russo della Commissione esteri, Vito Petrocelli, che ha chiesto al M5S di abbandonare il governo. I banchi di destra e di sinistra sono i più caldi nell'accoglienza, quando Zelensky appare sul monitor. Mario Draghi batte le mani con emozione. Solo nello spicchio M5S si notano parlamentari concentrati sul proprio cellulare o intenti a riprendere la scena. L'ex sottosegretario grillino, Alessio Villarosa, che ha lasciato un anno fa il Movimento, ostentatamente tiene le braccia incrociate. Il presidente ucraino parla per dodici minuti e paragona i russi ai nazisti. Spiega che lo ha chiamato il Papa. Zelensky lo ha invitato ad andare a Kiev. Da che luogo nascosto sta parlando viene da domandarsi mentre ricorda che «il nostro popolo è diventato l'esercito». Cita il numero dei bambini uccisi nel conflitto: 117. «E non sarà il numero finale, purtroppo». Non menziona invece mai Putin per nome. Non accenna nemmeno ai nostri partigiani, come ci si aspettava da più parti. In collegamento col Parlamento tedesco aveva evocato il Muro, con quello inglese Amleto, con gli americani l'11 settembre. Con noi italiani fa un discorso più sentimentale che politico: «Conosco la vostra ospitalità, il rapporto che avete con i vostri figli, so cosa significa la vita per voi». È come se Zelensky ci apprezzasse di più per quel che noi siamo nel mondo - cultura, umanità, mare («non accogliete i russi in vacanza») - più per quello che gli possiamo offrire nella lotta al nemico. Non a caso dice: «Qui è nato il primo figlio ucraino da una madre scappata dalla guerra ». Mario Draghi segue il discorso da un tablet. È in corso una lotta tra il bene e il male, ci ricorda. «Il loro obiettivo è l'Europa: l'Ucraina è il cancello per l'esercito russo, ma la barbarie non deve entrare». Insiste per le sanzioni, invita a congelare gli yacht degli oligarchi. «Vi siamo grati per tutto quello che fate, la vostra forza deve fermare una sola persona affinché possano sopravvivere in milioni». Quando finisce, alle 11,20, standing ovation di un minuto. Zelensky assiste ai battimani in silenzio, come assorto in cupi pensieri. Draghi usa parole come patriottismo, eroismo, inciviltà. Ringrazia l'opposizione per il sostegno ai provvedimenti pro Ucraina. Giorgia Meloni annuisce. L'aula lo interrompe dieci volte con moti di approvazione, specie quando ricorda che l'Italia vuole l'Ucraina nella Ue e rivendica gli aiuti militari offerti alla resistenza di Kiev. In questo secondo passaggio scoppia l'entusiasmo a sinistra, con deputati che freneticamente battono le mani sui banchi. Dopo mezz' ora il monitor si spegne, l'aula si svuota, tutti corrono alla buvette. Roma splende nel sole e noi ce ne torneremo nelle nostre comode case mentre i missili piovono su Kiev, Mariupol, Odessa. «Gloria all'Ucraina» sono state le ultime parole di Zelensky».

KIEV, CONTROFFENSIVA UCRAINA INTONO ALLA CAPITALE

A proposito della situazione sul campo, ecco il reportage di Francesco Semprini da Kiev per La Stampa che racconta una controffensiva ucraina vicino alla capitale. Le forze di Zelensky attaccano e mettono a segno la prima vittoria riconquistando la città di Makariv.

«A un mese dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe di Vladimir Putin, l'unica certezza è che la guerra lampo non c'è stata. E non è neanche detto che nella mente di Putin, ormai quasi del tutto imprevedibile, ci fosse realmente l'idea di condurre un'operazione fulminea. E così quella tra il 23 e il 24 febbraio è diventata la notte più lunga della storia contemporanea, non solo per l'Ucraina ma anche per l'Europa e l'Occidente che il mattino dopo si sono risvegliati in una quasi guerra dopo 77 anni, ovvero dalla fine del Secondo conflitto mondiale. L'armata di Mosca, dopo mesi di minacce e prove muscolari con Washington, ha varcato la linea rossa dell'invasione di terra partendo dal Donbass, in particolare dalle province di Donetsk e Luhansk dove l'obiettivo era «mettere in sicurezza» la popolazione russofona. Sin dalle prime battute del conflitto è apparso chiaro che nelle mire del Cremlino vi fosse altro, e che l'operazione «speciale» di tipo militare si sarebbe trasformata in una guerra totale nel cortile di casa della Nato. Una campagna che però si è dimostrata ben più ostica del previsto per le stesse forze armate russe, tale che dopo quattro settimane di ostilità, sullo scacchiere ucraino si registra un generale stallo, mentre sull'armata di Putin pesano le 10 mila perdite tra i suoi militari in campo seppur smentite da Mosca. Bilanci, e propaganda, sono del resto parte della «infowar» che costituisce la quarta dimensione bellica di questo conflitto e pertanto, ad ogni dato, deve essere dato il giusto peso. È però evidente una certa impasse dove le forze russe, dopo l'avanzata veloce dei primi giorni, specie sulle direttrici che hanno origine in Bielorussia e ad Est, sono ancora arginate fuori dal perimetro urbano. La guerra sul terreno interessa i sobborghi occidentali di Irpin, Bucha, Hostomel o a nord Liutizh, ma le periferie rimangono ancora sotto il controllo ucraino sebbene interessate da intensi bombardamenti. La macchina da guerra di Putin bersaglia postazioni che ritiene funzionali alla resistenza ucraina che, grazie alla determinazione del popolo e alla conoscenza del terreno, all'aiuto dell'intelligente americana e alle armi dell'occidente, sta mettendo a segno risultati rilevanti. Secondo il comando militare di Kiev le truppe russe soffrono di pesanti problemi di approvvigionamento logistico e «hanno scorte di munizioni e cibo per non più di tre giorni». E così Mosca è stata costretta ad avviare una riorganizzazione delle truppe alle porte della capitale in vista di un nuovo tentativo di penetrazione, intensificando nel frattempo la pressione di fuoco. Una tattica funzionale all'assedio con cui tenta di atrofizzare la città, svuotandola e affamando la popolazione, per sottrarre linfa vitale alla resistenza di Kiev. L'obiettivo è avere mano libera quando i russi attaccheranno di nuovo, presumibilmente attorno a una settimana, secondo fonti di intelligence. Occorre dire che sulla capitale la pressione della macchina da guerra di Putin è limitata (il 30-40% circa) rispetto alla piena potenzialità e per replicare i successi messi a segno in questi ultimi giorni, Kiev deve poter contare su un sostegno molto robusto da parte dell'Occidente. È plausibile pensare tuttavia che, prima di un nuovo affondo, la Russia voglia incassare vittorie in alcune città chiave dell'Ucraina, magari con l'obiettivo di stabilire una sorta di controllo su quella mezzaluna immaginaria che da Karkhiv arriva a Odessa. E dove il primo vero risultato è stato messo a segno a Mariupol, la «Genova ucraina» come è stata definita dal presidente Volodymyr Zelensky nel suo intervento in Parlamento. Svuotata e massacrata, oggi è una città praticamente rasa al suolo. Anche a Kherson, la prima città dove i russi hanno preso il controllo e dove 300 mila persone sono a corto di cibo e medicinali, la resistenza non è affatto rassegnata. Così come altrove sta mettendo a segno alcuni significativi risultati: la bandiera ucraina è stata issata di nuovo sulla città di Makariv, a 60 km a ovest di Kiev. Le forze russe sono state respinte a nord-est di Mykolaiv, altra città interessata da intensi combattimenti. Mentre sul fronte orientale si combatte aspramente a Kharkiv, bombardata dall'artiglieria di Putin 84 volte nella notte tra lunedì e martedì. Tra le vittime c'è anche una famiglia di tre persone (tra cui una bambina), centrata in auto da un carrarmato, mentre più di 600 case sono state distrutte. E ora incombe lo spettro di una nuova offensiva di Mosca per penetrare la città dove gli ucraini si stanno organizzando per la resa dei conti».

FUGA DALL’INFERNO DI MARIUPOL

L’inferno di Mariupol, la testimonianza di chi è riuscito a scappare. Parla il direttore della Caritas, che racconta come i russi abbiano colpito anche il loro centro. Francesca Ghirardelli per Avvenire da Ivano Frankivsk (Ucraina).

«Non c'è niente di sacro a Mariupol per gli occupanti russi, niente di proibito dalla morale, niente che non si possa fare». Le sue parole sono essenziali, pesanti, controllate. Si sforza di metterle a fuoco, poi le pronuncia lente, con tono basso. Ma non è per il volume che si è fatto silenzio assoluto nella stanza. È per il suo aspetto, le spalle, le braccia, il petto offesi da qualcosa che nessuno dei presenti vede, ma che si intuisce spaventoso. E per lo sguardo, difficile da sostenere a lungo senza sentirsi ascoltatori inadeguati. Rostyslav Spryniuk, un pastore della chiesa ucraina greco-cattolica, è riuscito a lasciare la sua città, Mariupol. Si è rifugiato qui a Ivano-Frankivsk, nell'ovest dell'Ucraina, più sicura rispetto all'est del Paese, malgrado le frequenti sirene anti-aereo che solo ieri sono scattate quattro volte, per quasi cinque ore, senza tuttavia eventi bellici nella regione. Padre Rostylav è il direttore della Caritas di Mariupol, buco nero di questa guerra, la più tormentata fra le città ucraine, dove manca tutto, elettricità, acqua, riscaldamento, e dove si vedono i cadaveri dei suoi abitanti fuori dalle case. «Mi alzavo presto la mattina, e uscivo per cercare pezzi di legno da ardere. La popolazione cucina all'aperto. Prendi due mattoni e li appoggi così», spiega facendo segno con le mani parallele. «Poi rientravo con la legna a casa da mia moglie e dai miei due figli, prima di correre al centro che in città riuniva tutte le organizzazioni di aiuto presenti». Descrive uno sforzo congiunto, anche tra fedi religiose. «Al centro avevamo persino volontari musulmani, erano turchi, preparavano il pane. Io mi occupavo dei pacchi da consegnare ai cittadini più in difficoltà, bloccati senza mobilità nei rifugi sotterranei». I beni da distribuire venivano recuperati con la supervisione dell'esercito ucraino e della polizia locale «che aprivano magazzini, negozi, dove era probabile fossero rimaste scorte da requisire». La distribuzione degli aiuti era la fase più rischiosa. «Avveniva in auto. E quando le forze russe vedono un mezzo in movimento, cercano di colpirlo. Così eravamo un target mobile per ogni velivolo russo». Utilizza il tempo passato per raccontare delle attività che svolgeva, perché proprio mentre se ne andava, il centro di aiuto è stato colpito. «Non sono in grado di dire cosa sia accaduto, ma il centro è stato bombardato, mentre andavo via». Lo stesso è successo al suo quartiere: «Accanto al mio palazzo sono caduti sei razzi e una bomba». Quando gli chiediamo come abbia lasciato la città usa la parola «miracolo » «Avevano organizzato corridoi umanitari per le auto, una fila di chilometri. Mi trovavo lì in mezzo. Per due volte la coda è stata colpita, con i mortai e con i grad. I civili dentro cinque auto sono rimasti uccisi». Poi la sua espressione prende, se possibile, un profilo ancora più cupo, quando fa riferimento a chi è rimasto indietro. «Molta gente è ancora dentro la città. Si deve capire che (le truppe russe) non hanno bisogno della gente che ci vive. Se a loro resta la popolazione, devono sfamarla. Mariupol è una città russofona, e Putin sostiene di proteggere chi parla russo. Una completa menzogna ». Gli chiediamo cosa prevede accadrà. Risponde come tutti gli ucraini con cui capita di parlare, saldi in una convinzione irremovibile. «Non so cosa aspettarmi nel breve periodo, ma alla fine, quando vinceremo, so che Mariupol sarà ucraina».

ANCHE ODESSA MALEDICE LO ZAR

Otto abitanti di Odessa su dieci parlano la lingua russa, ma con la guerra il vento è cambiato. Marta Serafini per il Corriere.

«Non ci parliamo dal 24 di febbraio. Siete il nemico, mi ha detto, nell'ultimo messaggio». Soffre Odessa e non solo per i colpi che arrivano dal mare. «Che qui sorga una città e un porto», recita la scritta sotto la statua della zarina Caterina II che indica con la mano sinistra verso lo specchio blu del Mar Nero, ora ricoperta dai sacchi di sabbia. Correva l'anno 1794 e i russi avanzavano verso occidente. Embrione di quella «grande Russia» che sarebbe stata l'Unione Sovietica. Pochi passi più in là celebre scalinata immortalata da Ejzenstejn ne La corazzata Potemkin è deserta mentre suonano le sirene. Ha sempre parlato russo Odessa, otto abitanti su dieci. «Oggi però vorrei strapparmi i denti dalla bocca per non doverlo più fare», dice Sergej, davanti all'edicola. Ora è Odesa, con una «s» sola, come la chiamano gli ucraini. Tatiana e Piotr camminano vicino all'Opera. Pensionati, si tengono per mano mentre il sole del mattino scalda il metallo dei cavalli di Frisia. «Mia cugina vive a Rostov. Dopo che Putin ci ha invaso ha deciso di interrompere ogni rapporto con noi. Ma non importa. Che siano maledetti tutti quanti loro». Strappi, odi. La casa dei Sindacati Ora è tutto tranquillo vicino a quella che fu la Casa dei Sindacati, data alle fiamme nel maggio 2014 dai nazionalisti ucraini. Ma quelle mura che rimasero lì annerite a ricordare il massacro sono una ferita che ancora sanguina in una città solitamente pacifica e dove, fino ad allora, avevano convissuto tutti: russi, ucraini, ebrei, armeni, bulgari, italiani. Poi, quando il governo filorusso venne sostituito con uno filoeuropeo, militanti comunisti, filo Putin, e separatisti vari si accamparono nell'edificio per protesta: in 48 trovarono la morte, carbonizzati mentre i gruppi neo-nazisti impedivano l'arrivo dei soccorsi. Il vento che cambia Cambia il vento a Odessa. Il sindaco Gennadiy Trukhanov fino al 2017 aveva un passaporto russo ed era visto con sospetto dai filo-ucraini. Nelle scorse settimane i suoi video su Facebook hanno espresso lo sgomento di una città intera. «Odessa è sempre stata una città di pace. Un porto dove fare affari, non un luogo in cui morire». Barats, 73 anni, è uno dei custodi dell'Odessa World Wide Club. Un circolo culturale fondato nel 1990 che riunisce gli abitanti della città sparsi in tutto il mondo: Mosca, San Pietroburgo, New York, Parigi e giù fino all'Australia, come indica la cartina appesa nella sala conferenze del centro. «Mio figlio vive in Russia, è un attore famoso. E in un discorso pubblico ha supplicato i russi, non ammazzate la mia gente. Quando si è trasferito all'estero per studiare ero felice ma chissà ora, forse non potrò vederlo ma più». Si spegne il sorriso degli occhi azzurri di Barats mentre racconta. Famiglie divise, dilaniate da una guerra che qui nessuno si aspettava. La tv ora trasmette per lo più in ucraino. Un affronto per i russofoni di Odessa. «Volete entrare nell'Unione Europea e non tutelate noi che siamo la minoranza più forte?», dicevano fino a qualche settimana fa. Ma ora per le strade della regina del Mar Nero nessuno osa più affrontare l'argomento. Ora è maledetta Russia. «I russi sono sempre venuti a Odessa. Hanno sempre sentito solo calore a Odessa. Solo sincerità. E adesso? Bombe contro Odessa? Artiglieria contro Odessa? Missili contro Odessa?». La contraerea romba in cielo mentre dalle navi russe salpate da Sebastopoli partono i colpi. «Lo senti questo rumore? È Putin che si vuole vendicare, dice che ci vuole denazificare, è a noi che si riferisce. Ma sta commettendo un crimine. Qui i russi ci sono sempre venuti. Ma in vacanza». Le mine in spiaggia In realtà per lo Zar prendere Odessa vorrebbe dire garantire la contiguità territoriale con la Crimea. Ma il tempo è dalla parte della perla del Mar Nero: in questo mese la resistenza di Mariupol e Mykolayiv, a est, ha permesso alla città di mettere da parte armi, cibo, medicine e di diventare «una fortezza inespugnabile» . Giù alla spiaggia il vento soffia forte e solleva la sabbia delle trincee. Ivan, tenente di Marina, si avvicina alle fortificazioni. Poco più in là, le cabine di legno di quello che era uno stabilimento balneare. «Ora qui ci sono le mine, state attenti dove mettete i piedi». La settimana scorsa proprio vicino alle fortificazioni hanno arrestato 12 sabotatori filo russi. «Gente che vive qua, due erano ubriachi, uno lo abbiamo ammazzato perché non aveva risposto all'altolà. Ma gli altri li abbiamo portati al fresco», racconta. Poi tira fuori il telefono. Mostra delle vecchie foto. «Ho combattuto in Cecenia, io. Ho visto l'orrore. Non dimenticherò. E non servirò mai più al loro fianco. Ora li aspetto qui sulla spiaggia».

PESKOV: USEREMO LA BOMBA ATOMICA SE MINACCIATI

Da Mosca ieri nuova minaccia sull’uso delle armi nucleari. Il portavoce di Putin Dmitrij Peskov ne ha parlato con la Cnn. La cronaca del Corriere della Sera.

«Spinto insistentemente da Christiane Amanpour della Cnn , alla fine Dmitrij Peskov, il portavoce del Cremlino, ha ammesso che se fosse attaccata direttamente la Russia potrebbe ricorrere per prima a una risposta atomica: «Di fronte a una minaccia alla stessa esistenza del nostro Paese, l'arma nucleare potrebbe essere utilizzata». Non una novità visto che era ben nota la decisione di Vladimir Putin di cambiare nel 2020 la dottrina militare russa, ammettendo, appunto «il primo colpo». Ma certamente, nel bel mezzo dell'Operazione militare speciale, come la chiamano loro, il sentire ripetere questo concetto da uno degli uomini più vicini al Capo fa accapponare la pelle. Anche perché studiosi occidentali da tempo affermano che Mosca sta pensando seriamente anche a un uso limitato o «tattico», come dicono i tecnici, di piccoli ordigni. Durante l'intervista che ha concesso alla Cnn , Peskov ha ripetuto quello che i russi vanno sostenendo da tempo: le cose procedono esattamente come previsto, non è vero che il Cremlino pensava di risolvere la questione ucraina in due giorni. Poi le solite interpretazioni «fantasiose» di ciò che accade sul terreno: A Mariupol l'esercito ripulisce la città dalle unità nazionaliste «che usano i civili come scudi umani e uccidono quelli che vogliono andarsene». Poi, di fronte alla ripetuta domanda di Christiane Amanpour, l'affermazione sull'atomica. «Abbiamo un concetto molto chiaro della sicurezza nazionale». La nuova Russia nata dopo lo scioglimento dell'Urss nel 1991 prevedeva il ricorso al nucleare solo come risposta a un'aggressione condotta con la stessa arma. Ma poi Putin ha cambiato tutto, visto che la vecchia superiorità convenzionale delle forze del Patto di Varsavia oggi non c'è più: sul terreno la Nato sbaraglierebbe la Russia. Ultimamente gli strateghi russi hanno anche iniziato a pensare che il Paese, se messo alle strette, potrebbe ricorrere al lancio di un singolo dispositivo «per mostrare l'intenzione, a scopo di de-escalation», come ha spiegato Evgenij Buzhinskij, ex ufficiale dello Stato maggiore. Ma ci sono anche indicazioni che Mosca possa pensare di vincere uno scontro atomico limitato al teatro europeo. Per questo avrebbe accumulato un migliaio di ordigni non strategici da lanciare magari con razzi ipersonici che non verrebbero fermati dalle difese europee. E la possibilità di un inizio «per errore» non è oggi così remota, secondo esperti americani. Con gran parte del suo esercito bloccata in Ucraina, la Russia potrebbe leggere come una minaccia il rafforzamento Nato di questi giorni nei Paesi che facevano parte dell'impero sovietico».

LA MISSIONE DI BIDEN IN EUROPA

Si preannuncia bellicoso il viaggio del presidente Usa Joe Biden in Europa. Annunciata una linea dura su tutti i fronti, economico e militare. Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera.

«Non si può più aspettare. Gli Stati Uniti e gli alleati europei stanno moltiplicando gli sforzi per reagire ai feroci bombardamenti ordinati da Vladimir Putin. L'Occidente si muove su diversi fronti. Il consigliere per la Sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, ha comunicato che domani verrà annunciato «un altro pacchetto di sanzioni» e «un accordo transatlantico su gas ed energia». Nel mirino anche misure contro centinaia di membri della Duma. Ma in questa fase l'urgenza più immediata è decidere se la Nato deve alzare il livello di risposta militare. Biden si presenta a Bruxelles con due indicazioni fisse: gli Stati Uniti e l'Alleanza atlantica non invieranno soldati in Ucraina; «la compattezza» e la «solidarietà» tra gli alleati sono condizioni necessarie per fiaccare Putin. Negli ultimi dieci giorni, però, lo scenario della guerra è cambiato. Su questo tutti i partner occidentali sono sostanzialmente d'accordo. I russi saranno pure in difficoltà, come fanno notare i generali del Pentagono, ma non hanno alcuna intenzione di mollare la presa. Nell'Alleanza atlantica si è formato un blocco di Paesi che preme per uno scatto di iniziativa che, di fatto, rimetta in discussione la «dottrina Biden». Ne fanno parte il Regno Unito, la Polonia, l'Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Repubblica Ceca, la Slovenia, l'Olanda, la Danimarca, la Norvegia. Che cosa propongono in concreto? Ci ha risposto l'ambasciatore polacco presso la Nato, Tomasz Szatkowski: «Noi suggeriamo di rivedere la strategia seguita fin qui. La Nato è stata troppo netta a escludere qualsiasi tipo di intervento. La situazione sta cambiando drammaticamente. Putin non si ferma. E allora dobbiamo mandargli un segnale diverso. Direi che la nostra condotta dovrebbe fondarsi sul concetto di "ambiguità". Non posso andare oltre. Vorrei solo aggiungere che la Polonia naturalmente si adeguerà alle decisioni che matureranno nel vertice». Nuova strategia «Ambiguità» è la formula che rimbalza, stavolta in via informale, anche in altri ambienti diplomatici. I trenta capi di Stato e di governo, dunque, per prima cosa «riesamineranno la strategia», come oggi dirà il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, nella conferenza stampa della vigilia. Nessuno, neanche il governo di Varsavia, vuole un intervento diretto dei militari occidentali in Ucraina. E anche la questione dell'invio dei Mig29 polacchi, dopo la bocciatura del Pentagono, è ormai archiviata. Ma il gruppo guidato da Regno Unito e Polonia chiede che nel comunicato finale la Nato mantenga aperta la possibilità di «una qualche forma di azione» in caso di escalation devastante. Putin potrebbe ricorrere alle armi chimiche e biologiche, se non addirittura alle bombe nucleari a raggio ridotto. C'è, poi, un altro sentiero più coperto. Un diplomatico cita l'esempio della Turchia, più o meno con queste parole: Putin sa benissimo che i turchi stanno consegnando un gran numero di droni, i micidiali Tb2, all'Ucraina, eppure non ha dato ordine di attaccare il territorio turco, anzi ha mandato il suo ministro degli Esteri ad Antalya per incontrare la delegazione ucraina. La Turchia fa parte della Nato, perché allora non potrebbe essere un modello anche per i grandi Paesi europei? Si può continuare a trattare, ma nello stesso tempo è necessario osare di più, per esempio, cominciando a fornire agli uomini di Zelensky armi anche offensive, come i carri armati, l'artiglieria pesante. Oppure sistemi di difesa aerea che sono già dislocati negli Stati dell'ex Unione Sovietica e che gli ucraini non avrebbero difficoltà a utilizzare. La divisione interna E qui veniamo all'altro schieramento. La Germania, l'Italia e l'Ungheria, sia pure per motivi diversi, non vogliono fughe in avanti. La Francia oscilla. Probabilmente toccherà a Biden trovare una sintesi. Anche a Washington è in pieno sviluppo un acceso confronto. Le parti sono insolitamente rovesciate: il segretario di Stato, Antony Blinken, spinge per iniziative «più forti», mentre il Pentagono frena. Biden sta completando le ultime consultazioni. L'ipotesi più quotata è che, almeno per il momento, proverà a contenere i propositi più bellicosi, proponendo, però, un ulteriore rafforzamento del fianco est della Nato e assicurando più fondi alla Polonia per gestire l'emergenza profughi».

PROFUGHI, I VOLI UMANITARI DALLA POLONIA

Ponte aereo da Varsavia per portare i profughi in Italia. Paolo Lambruschi per Avvenire racconta i voli umanitari dalla Polonia.

«Quattrocento profughi ucraini vulnerabili portati in Italia da Caritas e Open Arms, con due voli umanitari, in una grande operazione superiore per numero anche ai corridoi umanitari. L'attesa inizia la mattina presto all'Expo di Varsavia, dove nel capannone vengono accolte 7mila persone a notte, in attesa di partenza verso Estonia, Svezia, Spagna, Regno Unito e Italia. Ai banchi dell'improvvisata agenzia viaggi, tra i bambini che giocano e piangono, si sta in fila verso la destinazione finale indicata alle autorità polacche, di un viaggio iniziato per molti due settimane fa in un Paese devastato dalla guerra. I due voli umanitari organizzato da Caritas italiana in questa prima tornata insieme ad Open Arms e attraverso la compagnia aerea privata Solidair hanno portato i profughi da questo hub della speranza di Varsavia all'aeroporto di Fiumicino. Da lì sono stati redistribuiti in 20 diocesi italiane, dove resteranno fino alla fine della guerra. I passeggeri sono persone vulnerabili, soprattutto donne sole con minori, la tipologia che costituisce la maggioranza dei tre milioni di profughi che in quattro settimane di guerra sono fuggiti per l'invasione russa. Sul volo, accompagnato dalla madre, viaggia disteso un ragazzo di 24 anni affetto da Sla. Lo aveva incontrato 10 giorni fa nel centro di accoglienza Caritas a Medyka, sulla frontiera tra Polonia e Ucraina, il direttore della Caritas italiana, don Marco Pagniello, che aveva promesso alla donna disperata cure adeguate in tempi rapidi. A Roma è andato direttamente al Gemelli. Sul volo viaggiano anche 17 mamme con bambini. Erano a Kiev, hanno patito la guerra nei rifugi sotterranei, perlopiù scantinati. Sono fuggite quattro giorni fa dalla recrudescenza dei bombardamenti sulla capitale, lunedì erano a Danzica e ieri sono sbarcate a Roma. Sono tutte dirette in Sardegna, dove hanno amici e parenti. «Un viaggio simile, con bambini così piccoli, poteva essere molto difficile - spiega Valentina Brinis di Open Arms, Ong conosciuta per i salvataggi in mare nel Mediterraneo e che è partner di Caritas italiana in questa operazione dei voli umanitari -. Noi abbiamo messo a disposizione i voli con la compagnia Solidair per persone scelte insieme, che avrebbero avuto difficoltà importanti non solo economiche a sopportare un lungo viaggio in pullman». Diverse donne sole raggiungono così i parenti. In viaggio, mentre è già stato lanciato l'allarme tratta da diverse organizzazione internazionali. Come Caterina, 40 anni, partita con la figlia 14 enne da Vinnitsya, nel centro del paese, dove è rimasto il marito. «Raggiungo mia madre, che vive a Sorrento ed è sposata con un italiano - spiega - e dove spero di imparare la vostra lingua e lavorare mentre mia figlia andrà a scuola». La ragazza è triste, continua a messaggiare sullo smartphone. «Non è paura non siamo spaventate perché dalle nostre parti non si combatte. Ma nessuno è in grado di sapere quando e come finirà e chi può è partito. La sua generazione è in viaggio e si stanno perdendo». Hilary ha 24 anni ed è nigeriano. «Studiavo medicina a Kharkiv, una facoltà molto conosciuta. Poi sono arrivate le bombe e le sirene e ho dovuto cambiare in fretta i miei progetti. Eravamo in molti stranieri, da tutta Europa e dall'Africa. Due settimane fa sono riuscito a uscire dall'Ucraina attraverso la Slovacchia perché c'era meno gente rispetto alla Polonia. Infine sono arrivato in treno alla stazione di Varsavia e ho chiesto aiuto alla Caritas. Sono cattolico». La stazione della capitale è diventata uno dei centri di accoglienza e smistamento e qui lo studente è stato messo in contatto con la Caritas italiana che stava organizzando i voli. «Sarò accolto ad Assisi, la città di Francesco. Voglio provare a studiare all'Università per stranieri». Ma sul volo ci sono anche cinque italiani di Ucraina imbarcati dall'ambasciata. Tra loro, la famiglia di Gino Barale, 79 anni, una vita da commerciante e artigiano. Nato alla fine di una guerra e fuggito da un'altra. Vendeva coni ai laghi di Avigliana insieme a Galina, con cui sta da 19 anni e che poi è diventata sua moglie. «Vivevo stabilmente da sette anni a Nova Mosca, a 80 chilometri dalla centrale di Zaporizhzhia. La guerra si stava avvicinando troppo, anche se gli ucraini stanno resistendo. Siamo partiti in autobus prima che fosse troppo tardi». Gino andrà ad Asti e quindi tornerà a Novaretto di Caprie, dove verrò accolto e potrà rivedere i due nipoti. Con lui e la moglie viaggia anche Katia, la nipote 18enne della signora che è per loro come una figlia. Il padre sta combattendo e spera di finire gli studi superiori nel nostro Paese. «Tutti i bambini e i minori potranno frequentare la scuola - conferma Oliviero Forti, responsabile immigrazione dell'organismo pastorale della Cei - e abbiamo già iniziato gli inserimenti di quelli arrivati da soli in Italia». La Caritas italiana rilancia ora il sistema di accoglienza diffusa nelle famiglie a fianco di quello pubblico. E in futuro. «Questa operazione in Polonia conferma la nostra volontà di presenza. Ringraziamo l'ambasciatore italiano Aldo Amati che ha sbloccato diversi problemi e intoppi e ci ha consentito di portarla a termine. Non è l'ultima, ci saranno altri interventi per questa emergenza e ne definiremo le modalità».

ENRICO LETTA: NOI PD NON SIAMO BELLICISTI

Intervista a Enrico Letta di Stefano Cappellini per Repubblica. Il segretario del Pd si riposiziona dopo il discorso di Zelensky a Montecitorio.    

«Enrico Letta, che giudizio dà del discorso di Zelensky al Parlamento italiano?

«Un intervento ben calato nella realtà, preciso nella denuncia, molto equilibrato nelle richieste e forte nel sottolineare la sintonia tra i due Paesi e i due popoli. M' avessero chiesto qualche giorno fa quale discorso dovesse fare Zelensky alle Camere, avrei detto: questo».

L'ha sorpresa la moderazione rispetto agli interventi del presidente ucraino in altre assemblee nazionali?

«Zelensky ha tenuto il giusto tono istituzionale. Qualche che sia il giudizio su di lui, lo si trovi o no simpatico, oggettivamente rappresenta la conferma che le leadership possono fare la storia. Se tre settimane fa avesse accettato l'offerta polacca di spostare il governo transitorio oltre il confine tra i due Paesi, nessuno avrebbe potuto biasimarlo. Ma Zelensky ha deciso di mettere a rischio sua la vita e ha scomposto i piani di Putin, che aveva scommesso su una resistenza ucraina di pochi giorni. Ha reso ancora più grottesca la logica guerrafondaia e sovietica del Cremlino. Oggi il Parlamento ha dato un tributo a una personalità che ha cambiato il corso della storia».

C'è un pezzo di opinione pubblica italiana che di fatto rimprovera a Zelensky la mancata resa. Anzi, lo accusa per questo di essere il vero guerrafondaio.

«In un sondaggio di qualche anno fa emerse che gli italiani consideravano Russia e Cina più amiche dell'Italia rispetto a Francia e Germania. Per fortuna mi pare che il sentimento sia cambiato, ma esiste nel nostro Paese un sostrato di antiamericanismo, antieuropeismo e filo putinismo che ha un consenso trasversale».

Nella sinistra radicale c'è chi accusa anche lei di essere un guerrafondaio.

«Non c'è nessun bellicismo né mio né del Pd, la nostra preoccupazione è aiutare profughi e arrivare alla pace. Siamo pacifisti ma certo non saremo mai come i caschi blu di Srebrenica, gente che si gira dall'altra parte mentre c'è un massacro. Sappiamo assumerci le nostre responsabilità quando necessario, come ha dimostrato la piazza di Firenze, citata da Zelensky».

Convocata anche per rimediare a quella di Roma con gli striscioni "né con Putin né con la Nato".

«Eravamo anche lì, il Pd è ovunque si chieda la pace, senza facili manicheismi, ma con una linea chiara» (…)

Un'ultima domanda: lei pensa che ci siano politici italiani che sono o sono stati a libro paga di Mosca?

 «Non voglio crederci. Una cosa comunque è chiara: Putin ora è come Assad o Kim Jong-un, si è autoescluso dal consesso internazionale, non è più presentabile e non tornerà mai a esserlo».

NAVALNY CONDANNATO A MOSCA

Il leader dell'opposizione Alexey Navalny è stato dichiarato colpevole di frode e oltraggio alla Corte: dovrà scontare 9 anni di carcere duro. Ma lui promette ancora battaglia e denuncia una guerra distruttiva:  “Io non cedo, il mio Paese rischia”. Anna Zafesova per La Stampa.

«Il numero nove non significa nulla», scrive sul suo Instagram Yulia Navalnaya, «Nove è soltanto un numero, non ha importanza, è solo la targhetta affissa alla mia branda», replica suo marito da dietro le sbarre. Alexey Navalny reagisce alla condanna con il solito indistruttibile umorismo, e promette che non si limiterà «ad aspettare» la fine della prigionia, nel marzo del 2031, ma continuerà a lavorare per abbattere il regime di Vladimir Putin. D'ora in poi sarà però molto più difficile: dopo due sentenze congiunte, per «truffa» ai danni dei finanziatori della sua Fondazione anticorruzione, e per offesa alla corte in un altro processo precedente, il leader dell'opposizione russa diventa un «criminale recidivo», e viene condannato a un carcere «severo», dove non potrà comunicare facilmente con la famiglia e gli avvocati come ha fatto finora dalla prigione a "regime comune" di Vladimir. È evidente che il Cremlino vorrebbe buttare via la chiave - la nuova sentenza impedisce a Navalny di fare campagna alle elezioni presidenziali sia del 2024 che nel 2030, mentre la condanna che sta attualmente scontando l'avrebbe visto tornare in libertà l'anno prossimo - ma soprattutto vuole silenziarlo, proprio mentre i suoi collaboratori sono in testa al movimento contro la guerra in Ucraina. Ed è stata proprio la guerra a oscurare un processo farsa, che si tiene direttamente nel carcere, con i giornalisti a seguire il dibattimento su una tv a circuito chiuso che si guasta ogni volta che parla l'imputato. Un processo dove due testimoni dell'accusa si sono rimangiati la deposizione in aula, dichiarando di non sentirsi anzi minimamente «truffati» da Navalny. Un processo dove decine di testimoni della difesa hanno cercato di salvare Navalny e la sua fondazione - messa nel frattempo fuorilegge come «estremista» - con deposizioni come quelle della celebre giornalista Evgeniya Albatz, che ha dichiarato i soldi che aveva dato per finanziare le indagini anticorruzione dell'oppositore «il miglior investimento della mia vita». Una condanna scontata - talmente scontata che l'oppositore aveva chiesto alla moglie Yulia di non venire a sentirla in aula, ma di volare in Germania da figlio Zakhar per fargli coraggio - decisa ancora prima di iniziare il processo da quel «gruppo di nonni impazziti che ci governa», come li ha definiti Navalny nel suo ultimo discorso. Navalny promette che non si fermerà, e devolve il premio Sakharov del Parlamento europeo alla nuova versione internazionale della sua fondazione. E l'ultimo regalo dei navalniani il giorno prima della sentenza, la devastante video inchiesta sul gigantesco "yacht di Putin" ormeggiato a Carrara, dimostra che le cartucce da sparare ci sono. Le sanzioni contro gli oligarchi e i funzionari del Cremlino, le magioni e gli yacht sequestrati in tutto il mondo, dalla Liguria a Londra, sono tutti colpi messi a segno da Navalny, che con le sue inchieste ha svelato la corruzione dei vertici russi con nomi, cognomi, indirizzi e numeri di conto. La sua idea della lotta alla corruzione come parte integrante della lotta alla democrazia - del resto, già nel 2014, dopo l'annessione della Crimea, la lista degli oligarchi da sanzionare venne stilata in Occidente anche grazie alle dritte di Navalny - ora diventa una delle armi internazionali contro il regime di Putin. Dalla sua prigione, il leader dell'opposizione russa però incalza, e per la prima volta parla del rischio di una «distruzione del Paese» di una Russia che collassa insieme al regime che l'ha portata in guerra. Potrebbero essere le sue ultime parole, per tanto tempo. Da un carcere severo non potrà più consegnare ai suoi avvocati i suoi post per Instagram, e dirigere la sua rete. Ieri, subito dopo la sentenza, i difensori di Navalny, Olga Mikhailova e Vadim Kobzev, sono stati prelevati dalla polizia mentre parlavano con i giornalisti, in un chiaro segnale di intimidazione. Le visite regolari degli avvocati e della moglie al carcere di Vladimir erano una fragile garanzia che il regime non avrebbe cercato di distruggere il dissidente celebre in tutto il mondo, ma dopo aver lanciato la guerra il Cremlino ha anche buttato alle ortiche qualunque remora residua al rispetto dei diritti e all'opinione pubblica internazionale. La repressione aumenta ogni giorno: ieri a Mosca è avvenuto il primo arresto per il nuovo reato di «discredito delle forze armate»: un tecnico della polizia di Mosca rischia fino a 10 anni di carcere per aver diffuso informazioni sulla guerra in Ucraina. E il prossimo nella lista è il famoso giornalista Aleksandr Nevzorov, incriminato per aver raccontato sui suoi canali YouTube e Telegram il massacro di Mariupol. E ieri è stato respinto l'ultimo ricorso per almeno sospendere la liquidazione di Memorial: la più antica ong di diritti umani russa si era appellata al tribunale europeo di Strasburgo, ma la Russia è uscita dal Consiglio d'Europa e non si sente più vincolata dalle regole europee».

PARLA LA POETESSA SEDAKOVA: “RUSSIA OSTAGGIO DI UN NUOVO STALINISMO”

Marta Ottaviani ha intervistato  per Avvenire la poetessa dissidente Olga Sedakova. Che vede il conflitto come uno choc collettivo: «Putin combina i giorni più bui dell'Urss con slogan copiati dal Terzo Reich».

«È considerata la più grande poetessa russa vivente, l'erede della grande Anna Achmatova, con la quale condivide anche il grande amore per la lingua e la cultura italiana. Ma Olga Sedakova è qualcosa di più: è l'intima voce della nazione russa, la cantrice della sua anima più profonda. C'è una tensione verso la spiritualità che traspare nei suoi versi. Arrestata durante il periodo sovietico per le sue convinzioni religiose, molte sue opere furono divulgate sotto forma di Samizdat, le pubblicazioni clandestine che permettevano ai dissidenti politici di fare conoscere il proprio lavoro. Ad Avvenire, dalla sua casa di Mosca, ha raccontato come il popolo russo stia vivendo questo conflitto e perché la Russia di Putin somigli all'Unione Sovietica di Stalin.

Olga Sedakova, da fuori è molto difficile capire come la Russia stia vivendo questa guerra. Che idea si è fatta lei?

La guerra è stato uno choc assoluto per tutti. Sembrava che semplicemente non potesse più accadere. Per i primi tempi c'è stata ancora l'illusione cci si potesse svegliare come da un brutto sogno. Ma dobbiamo partire da che cosa è successo prima che questa guerra iniziasse.

Ossia?

Quando è cominciata la guerra non dichiarata, perché in Russia si chiama «operazione militare speciale», nel Paese era stata completamente distrutta qualsiasi opposizione, quasi tutti i media liberi sono stati banditi, era stata coniata l'etichetta di «agente straniero» per chiunque dissentisse. Con la liquidazione di Memorial, il nostro centro di storia vivente dedicato al ricordo delle vittime della repressione sovietica, e l'incarcerazione della figura più popolare dell'opposizione, Alexeij Navalny, la scena pubblica è stata completamente 'ripulita' da qualsiasi attività che non coincida con quella ufficiale. La propaganda militarista ha preso piede dall'annessione della Crimea nel 2014. Le celebrazioni annuali della vittoria di guerra del 1941-1945 (chiamata in Russia Grande Guerra Patriottica) si tenevano con slogan come «Possiamo farlo di nuovo!». In televisione non c'era altro che propaganda. Propaganda viziosa e totalmente falsa. Era talmente idiota e brutta che sembrava impossibile che una persona 'normale' potesse semplicemente ascoltarla e prenderla sul serio. Ma ha fatto il suo lavoro. Ha formato 'l'uomo della tv', che non può essere convinto di nient' altro. Questo 'uomo della tv' costituisce ormai la maggioranza della popolazione. Così ora il divario tra questo tipo di persone e altre (che definirei sensibili) corre tra le generazioni, all'interno delle famiglie, all'interno delle comunità professionali. Una divisione di una forza incredibile. Nella 'gente della tv' di oggi non c'è il pathos che l'annessione della Crimea causò nel 1914. Chiamerei la loro condizione difensiva: non vogliono conoscere il vero stato delle cose. La guerra per loro è giustificata da storie di propaganda sulle «atrocità» commesse dagli ucraini contro il popolo russo o russofono, sul «genocidio» in Ucraina. L'altra parte della popolazione ha espresso immediatamente il suo atteggiamento verso la guerra. Sono state raccolte centinaia di migliaia di firme: fra queste, probabilmente, ci sono i nomi di tutte le persone autorevoli e serie del Paese.

Quale clima si respira in Russia in questi giorni?

Il clima è depresso e teso. Un gran numero di persone cerca di vivere la propria vita come se non fosse successo nulla. Le persone con una chiara posizione contro la guerra si sentono come ostaggi: la forza militare dello Stato è diretta contro di loro. La repressività del regime è andata accumulandosi nel nostro Paese per molto tempo, ma ora sta diventando una vera e propria minaccia. Anche se qualcuno osa dichiarare apertamente la propria posizione, la gente non lo ascolta. Molte persone della mia cerchia stanno lasciando il Paese. Con varie motivazioni: la paura delle rappresaglie, la riluttanza a partecipare, il desiderio di salvare i bambini. Allo stesso tempo, uscire o fuggire diventa sempre più difficile. Spesso è una fuga verso una destinazione sconosciuta, senza averi, senza soldi, lungo percorsi difficili.

È ancora possibile informarsi in modo indipendente ora che anche Dozhd ed Echo Moskvi sono state chiuse?

La chiusura di tutti i media indipendenti è un grande colpo per la capacità di ottenere informazioni. Coloro che sanno usare i media elettronici trovano le proprie fonti. Ma sono in minoranza, credo. La ripubblicazione e la diffusione di tali informazioni è anche punibile penalmente. La maggioranza della popolazione riceve solo disinformazione ufficiale e, sorprendentemente, ci crede.

Come ha ricordato, in Russia ci sono anche migliaia di persone che sono scese in piazza, nonostante rischiassero di venire arrestate. Lei crede che questa guerra possa avere in qualche modo danneggiato il consenso attorno a Putin?

Se è così, non sarà presto. Forse quando l'impoverimento sarà evidente e non lo è ancora, oppure quando si conosceranno i numeri dei soldati russi uccisi in guerra (per ora su questo c'è il silenzio totale).

Cosa succederà adesso in Russia? Putin diventerà ancora più autoritario? Qualcuno ha detto che questa sembra l'Urss senza il comunismo. Si trova d'accordo?

Molto oggi assomiglia all'Urss dei suoi giorni stalinisti più repressivi. Come allora c'è la richiesta di un sostegno pieno e incondizionato a qualsiasi decisione delle autorità. Ma c'è anche qualcosa di nuovo. Gli slogan e lo stile sono spesso presi direttamente dal Terzo Reich. Il regime sovietico camuffava la sua brutalità. Oggi la brutalità della soppressione forzata di elementi esterni e locali è praticata apertamente e non nascosta. L'ideologia comunista non esiste più. Invece del marxismo-leninismo e «dell'ateismo militante» c'è ora una torbida miscela di cattivo misticismo storiosofico, l'idea di una 'Grande battaglia' in cui i russi dovrebbero essere pronti a morire e a distruggere il mondo intero insieme a loro stessi, per porre fine al 'Male del mondo'. Un misto di vendetta, aggressione imperiale, odio verso 'loro', ossia, nel linguaggio ufficiale l'Occidente collettivo. E non c'è niente davanti. Nessun 'futuro luminoso', come sotto il comunismo, e nessun futuro in generale.

Lei è considerata la più grande poetessa russa vivente. La letteratura russa è una letteratura fatta di coraggio, di denuncia, spesso anche di dissidenza. Che ruolo stanno ricoprendo gli intellettuali in questo momento così drammatico per il loro Paese?

Penso che gli artisti e gli intellettuali russi, come è sempre successo nei momenti difficili, troveranno la forza e l'ispirazione (questo è molto importante, l'ispirazione: la parola non ispirata è impotente) per esprimere ciò che l'anima umana viva vede in quello che sta succedendo. E un'anima non può rimanere viva senza verità, senza libertà, senza compassione.

La Russia può avere un futuro aperto e democratico, magari vicino all'Europa?

Lo spero. Non vedo come possa avvenire una transizione verso 'un'altra Russia'. Una cosa è chiara: non può essere facile. Saranno tempi difficili e forse terribili. Ma se non credi in un tale risultato, non vuoi vivere. Ci sono troppe persone in Russia che meritano un'altra vita e sono pronte per essa».

NON SOLO PUTIN, TUTTI I RUSSI SONO NEMICI

Tutto il popolo russo sta pagando per gli orrori e gli errori di Vladimir Putin. L'aggressione all'Ucraina non viene più imputata a un uomo solo ma è una nazione intera a finire nel mirino del disprezzo globale. L’analisi di Domenico Quirico sulla Stampa.

«Lo si sente, cresce, aleggia attorno noi, guadagna terreno ogni ora, ogni giorno di guerra: l'odio. All'inizio si precisava, anche da parte degli ucraini che pure erano aggrediti e percossi: questa è la guerra di Putin, lui l'ha voluta, lui la inferocisce. Non è la guerra dei russi con cui siamo fratelli, in divisa contro di noi ci sono gli ingannati o i costretti, offriamo loro quando si arrendono un pezzo di pane. E per questo coraggio li abbiamo giudicati, gli ucraini, ancor più meritevoli, avvolti in un grande drappeggio di sventura e di pietà. Tutto è rapidamente finito in briciole come le città e le illusioni di tregue e negoziati, l'odio affligge tutto il mondo di questa guerra bruciante e brutale. Adesso è diventata la guerra dei russi, contro i russi: primitivi, asiatici, barbari, orda che uccide, bombarda, stupra, saccheggia, lupi voraci, mostri, antiuomini. Le parole sono sempre il segno: ormai si vive nell'odio che come una soluzione satura si cristallizza. Il furore che all'inizio è arma per combattere e resistere è scivolato in altra cosa, accecato diventa a sua volta disumano. Ecco: il percorso è quasi completo. Non c'è più distinzione. L'odio non è un errore o un incidente di analisi. È un desiderio profondo di distruggere, svela un abisso a fior di pelle, non è dietro di noi ma attorno a noi, in noi. È una negazione sovversiva che a poco a poco travolge anche chi è spettatore della guerra, e gli europei lo sono: vogliamo attraverso questa discesa agli inferi nascondere il senso di colpa per esser solo questo e in fondo esserne soddisfatti. È singolare e fa riflettere il fatto che il principale abitatore dell'occidente e dell'Europa del terzo millennio, l'odio, con la sua ancella la paura, non sia stato in fondo oggetto di ampie analisi. Forse perché non si vuole tornare con la mente a esperienze umilianti e l'odio lo è. E poi esistono molti tipi di odio di cui ognuno richiederebbe una trattazione. Un po' come fa il botanico quando si accinge a una classificazione particolare. Ci scopriamo a parlare e pensare in modo primitivo perché siamo costretti a difenderci contro qualcosa che prima di tutto è primitivo, la guerra. Così la etichettatura animalesca che prima colpiva solo il burattinaio di questo sanguinoso disastro si estende a un popolo intero: che è colpevole, perché non si ribella, non getta le armi, non rinnega e non si rinnega, perché non sciopera rifiutandosi di cooperare con il leader. Perché ci costringe con la sua inazione a rivestire panni che avevamo riposto in soffitta come anacronistici: la guerra le bombe combattere schierarsi resistere. Russi dannati, combattete per Putin come i tedeschi hanno combattuto per Hitler! La colpa che per il diritto è rigorosamente individuale diventa collettiva. È l'infausto meccanismo della decimazione, della vendetta. Una specialità delle tirannidi. È quello che Putin forse immaginava e voleva: il suo volto enigmatico sparisce a poco a poco dietro la condanna di tutto e di tutti, la volontà di linciaggio forma, anche in coloro che in Russia forse dubitavano e si astenevano, il legame sociale per eccellenza, quello che nasce dal sentirsi umiliati e vilipesi, accusati e minacciati di punizioni nel mucchio. Stiamo, temo, scivolando su questo pendio insidioso. Il delitto dell'aggressore non ci appare più come trasgressione, come caso da imputare a un uomo e al suo delirio di potere, ma come forma esistenziale, come comportamento naturale di un popolo intero nei confronti di altri essere viventi, l'aggressione, il delitto come forma del loro mondo. Il processo ai colpevoli (teorico perché prima bisogna sconfiggerli, catturarli per applicare la giustizia, molto ambigua, dei vincitori) che prima riguardava il pugno di cortigiani e complici diretti di Putin, alcune centinaia di persone, ora si allarga: gli ufficiali, i soldati che non hanno disobbedito, quelli che nelle retrovie non hanno preso le distanze, i silenti, i non eroi: tutti. Punire, togliere la voglia di riprovarci, rieducare questi popoli eternamente asiatici e aggressivi verso la nostra "polis'' perfetta. Siamo al punto chiave del dialogo tra Creonte e Antigone. «Il nemico non diventerà mai un amico neppure dopo la morte» dice il dittatore che nega ai colpevoli perfino il diritto alla sepoltura. E Antigone replica: «Non sono fatta per vivere con il tuo odio». Ecco. Questo è esattamente quello che ci deve separare dall'aggressore: porre dei limiti all'inaccettabile, mettere in guardia dal pericolo mortale che c'è nell'unificare nella colpa, annunciare il peggio che può ancora accadere senza temere di essere accusati come seminatori di zizzania, di dare una mano "oggettivamente'', terribile avverbio che ha macinato la vita di milioni di uomini, al nemico. Putin e i Califfi gettano nella mischia non solo divisioni corazzate o kamikaze; la posta in gioco è il dominio dello spirito, mobilitano l'odio, un tesoro raro e prezioso, utile al servizio del loro aggrottarsi di ciglia. Vogliono contagiare le menti prima ancora che occupare territori, imporre l'irrimediabile: noi e loro indissolubilmente separati e nemici . Apparentemente nulla è mutato in questi venti giorni di guerra nella nostra parte del mondo, la gente si muove lavora dà esami si ama fa sport applaude gli oratori che invitano alla ennesima resistenza contro la nuova sventura. Eppure c'è qualcosa di inafferrabile nell'atmosfera, un fluido collettivo ed è cattivo, un'aura fatta di forza e di rancore, di paralisi interiore, di furia e avversione contro "il nemico". A poco a poco le marce della pace spariranno, gli inviti a distinguere, a non farsi travolgere diventeranno eresia, Come se oppressi, impauriti ci vendicassimo dei colpevoli emettendo liquido nero come la seppia colpita. Di che diavolo ha mai bisogno l'uomo per non commettere gli stessi errori? ».

IL VERO OBIETTIVO È LA FINE DELLA GUERRA

Giusto difendersi, giusto resistere all’invasione straniera, giusto combattere il tiranno. Ma la domanda è: come possiamo porre fine alla guerra? Se lo chiede Massimo Borghesi in un interessante articolo per Vita.it. 

«Uno Stato, una nazione, un popolo può e deve difendersi con le armi allorché è invaso da un altro Stato? È ovvio che lo può. In tal caso può ricevere aiuti militari da altri Stati per la sua difesa? Anche qui la risposta non può che essere positiva. La questione non riguarda il diritto o meno di difesa, che non può essere contestato, quanto l’efficacia della sua risposta e la misura di sopportazione richiesta per la popolazione civile. Per questo la vera domanda da porre è un altra, ovvero: come si può porre fine a questa guerra? E questo non tra un mese o più ma entro breve tempo. Ogni giorno che passa vede infatti il dilatarsi della tragedia, l’esodo biblico di un popolo, la morte di migliaia di innocenti, devastazioni a non finire. Muoiono gli ucraini e muoiono i giovani russi inviati anche loro al macello. Il problema non è il diritto della difesa da parte della coraggiosa Ucraina ma quello di arrivare al più presto al cessate il fuoco e al negoziato. E questo prima che la marea nera dell’odio non conduca a decisioni disperate. Così l’invio delle armi da parte occidentale all’Ucraina è lecito se è proporzionato all’obiettivo, quello di portare Putin a trattare. Oltre un certo limite, come avrebbe desiderato il presidente Zelensky con la sua richiesta assurda e irragionevole della no-fly-zone, porterebbe all’apocalisse. D’altra parte la stasi russa, provocata dalla resistenza ucraina, potrebbe portare ad una recrudescenza, ad un uso indiscriminato della forza da parte dell’invasore. Come ha detto Scott Barrier, direttore della Defense Intelligence Agency: ”La guerra sta erodendo le forze convenzionali della Russia. Mosca potrebbe ricorrere al deterrente nucleare”. Si tratta di affermazioni incontrollate a cui solo un Putin disperato potrebbe dare seguito. Può l’Occidente permettere questo? Può spingere la martoriata Ucraina fino ad un estremo sacrificio con lo scopo di indebolire lo zar? O, al contrario, deve impegnarsi seriamente per porre fine al conflitto e portare i belligeranti, per quanto recalcitranti, a trattare? È qui che si palesa la volontà effettiva di arrivare alla pace. L’Europa è stata solerte nelle sanzioni e generosa nell’ospitalità verso i profughi, debole, però, sul piano diplomatico. L’America lo è stata ancor di più. Il presidente Biden con la sua dichiarazione, per cui “Putin è un dittatore omicida, un delinquente allo stato puro“, cosa si ripromette? Può dopo simili affermazioni mediare tra Russia e Ucraina? Può ancora parlare con lo zar? O ha rinunciato del tutto alla diplomazia affidandosi alla Cina e alle sorti della guerra nella speranza che, comunque vada, l’orso russo ne uscirà con le unghie spuntate? Spettatore di fronte ad un conflitto insensato, privo di ogni giustificazione accettabile, l’Occidente è al momento senza diplomazia efficace, e questo non da oggi. Con il risultato di un conflitto che poteva essere evitato. Come ha detto l’ambasciatore Umberto Vattani al Fatto Quotidiano: “Sento parlare di una neutralità dell'Ucraina: diciamo che ci saremo arrivati per la via più difficile. Le stesse analisi degli americani, si pensi ai rilievi di Kissinger del 2014, a esperti come William Kerry ma anche George F. Kennan o William Burns, direttore della Cia, sottolineavano la particolare situazione ucraina. Non erano voci isolate”. L’Occidente ha rinunciato alla diplomazia, ha preferito chiudere la Russia nell’angolo e non coinvolgerla. Con il risultato che lo zar si è chiuso da solo nella mura del Cremlino, in un nazionalismo politico-religioso esasperato e paranoico che somma i sogni imperiali dell’era zarista con quelli dell’era sovietica. Si torna, in tal modo, allo scontro tra Est e Ovest, al manicheismo politico degli anni della Guerra fredda. Ne ha parlato opportunamente Antonio Polito in un editoriale del Corriere della Sera (Le idee contro, 17-03-2022). Per Polito “nata con giustificazioni geopolitiche (l'espansione della Nato) o etnico-nazionali (la sorte della minoranza russofona), la guerra all'Ucraina sta assumendo i caratteri di uno 'scontro di civiltà'. Sembra di essere tornati alla profezia del 1996 di Samuel Huntington: in un libro sostenne che la Guerra Fredda sarebbe stata sostituita da nuovi conflitti fondati sulle identità religiose e culturali. Lo scontro tra l'Islam radicale e l'Occidente ne fu una clamorosa conferma. Lo sarà anche quello in corso tra Occidente e Russia? I protagonisti stessi ne sembrano convinti. Da un lato Stati Uniti ed Europa rimproverano a Mosca di disprezzare l'etica universalistica di libertà e democrazia, e Biden accusa Putin di essere 'un dittatore omicida e criminale'. Dall'altro l'autocrate russo si appella invece all'ethos della nazione, come nella sua invettiva contro la 'quinta colonna' interna che preferisce l'Occidente alla Madre Russia“. Se questa è la dialettica va detto che l’Europa deve muoversi, ritrovare una propria voce e indicare un’altra prospettiva, deve sottrarsi al grande gioco, dimostrare di esistere. E lo deve fare subito, coinvolgendo gli Usa, senza attendere il corso degli eventi. Kiev è lontana da Washington, non da Parigi o da Roma. Solo così può cooperare alla pace nell’ora presente. Come scrive Polito: “A noi occidentali spetta dunque il compito di aiutare la democrazia di Kiev a resistere, ma anche di resistere per parte nostra alla tentazione dello 'scontro di civiltà'. Dobbiamo fermare l'espansionismo della Russia di sempre, per poter convivere in pace un giorno nella casa comune del continente europeo. Ma dobbiamo ricordare che dentro la tragedia della Russia di oggi c'è anche il nostro passato. E dobbiamo sperare che modernità e razionalità non siano precluse alla Russia di domani”».

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