La Versione di Banfi

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Dopo il Covid, le altre emergenze

alessandrobanfi.substack.com

Dopo il Covid, le altre emergenze

Rincari energetici, ecobonus, giustizia e anche l'Ucraina dividono i partiti da Mario Draghi. Mentre si esce dall'incubo pandemia, molti altri problemi sul tavolo del governo. Il Papa in tv da Fazio

Alessandro Banfi
Feb 7, 2022
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Dopo il Covid, le altre emergenze

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Pandemia. Calano anche i numeri dei decessi. Una buona notizia, anche se sicuramente sui calcoli pesa la festività. Ma tutti gli esperti, anche i più prudenti, avvertono la discesa dei contagi. Accade lo stesso in Europa: la circolare del Ministero della salute ha fissato i vari passaggi del ritorno alla normalità, sul calendario dei prossimi giorni. Il Quotidiano Nazionale, Libero e La Verità criticano stamattina la circostanza che le mascherine da venerdì non saranno più obbligatorie all’aperto solo in zona bianca e cioè in tre regioni. Ma vanno dette due cose: non esistono di fatto altri divieti per i vaccinati e se la matematica non è un’opinione, proprio da venerdì molte regioni potrebbero passare da giallo a bianco. Sotto esame l’intervento sulla scuola, dove è stata dimezzata la quarantena e la Dad: oggi dovrebbero rientrare in classe, prima del previsto, circa 600mila studenti. Vedremo se su questo fronte finalmente le cose miglioreranno.

Se l’emergenza pandemica pare comunque volgere alla fine, ci sono grandi questioni che dividono il Governo. I partiti chiedono nuovi fondi per fronteggiare il caro bollette mentre Draghi e il ministro dell’Economia Franco spiegano che l’Europa non ci permette nuovi sforamenti di bilancio. Dobbiamo investire (in modo rapido ed efficiente) i soldi del Pnrr. Oggi il Corriere pubblica una pagina intera di Data room sull’ecobonus, in cui si sostiene che sono irregolari 90 cantieri su 100. Da giugno 2021 sono nate 64 nuove imprese edili al giorno, con personale non formato. Negli ultimi quattro mesi gli incidenti sono saliti del 30%. Oltre all’economia, c’è il nodo giustizia. Secondo Repubblica, il Pd punta ad una riforma del Csm, sposando la proposta di Luciano Violante.

Anche sulla crisi ucraina, si ripete uno scontro dentro l’esecutivo: Salvini e Conte sembrano più attenti alle ragioni di Putin, mentre i ministri della Difesa Guerini e degli Esteri Di Maio sono allineati con Biden. Oggi il Presidente francese Macron gioca tutte le sue carte nella visita a Mosca, domani sarà a Kiev. L’intelligence americana, lo scrivono Washington Post e New York Times, ha calcolato che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe costare 50mila vittime. La finestra di tempo possibile per l’intervento militare va dalla fine della tregua olimpica, dopo la metà di febbraio, fino alla fine del mese di marzo.

Ieri sera, in diretta, papa Francesco è stato ospite in collegamento al tv show di Fabio Fazio su Rai Tre, Che Tempo che fa. C’è un ampio resoconto di ciò che ha detto su Vatican News. Sull’Ucraina il Papa ha detto: “Fare la guerra è distruggere. È una meccanica di distruzione”.

È disponibile il terzo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo terzo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Flavia Piccoli, deputata del Partito democratico e presidente della Commissione Cultura della Camera, figlia di Flaminio. Flaminio Piccoli era nato in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, Piccoli è stato arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc lo porta ad essere segretario del partito nel 1969 e poi di nuovo tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Più volte deputato e senatore. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Vi anticipo che da martedì sarà disponibile la quarta del nuovo podcast. Qui il link della terza puntata, bellissima, con Flavia Piccoli:

Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

MENO 5 AL NUOVO INIZIO

Grazie a tutti quelli che mi hanno scritto dopo l’ultima Versione del Venerdì. Si avvicina il giorno, l’11 febbraio 2022, in cui questa newsletter diventa a pagamento. Vi riassumo ciò che ho scritto. Da VENERDÌ PROSSIMO (NON PRIMA!!!) ci si potrà iscrivere a pagamento, pagando direttamente sul sito con Paypal o con una carta di credito. L’abbonamento sarà di 5 euro al mese e, con lo sconto se ci si vuole impegnare subito, di 50 all’anno. 

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Giornali in ordine sparso nella scelta della notizia del giorno. Il Corriere della Sera punta sulle tensioni dentro l’esecutivo per le bollette: Fondi anti rincari. I partiti premono, il governo frena. Il Giornale è sul tema energetico: L’Italia contro il nucleare. L’Europa torna al carbone. Sull’ultimo decreto anti Covid, Il Messaggero avverte: Via le mascherine in zona bianca. Il Quotidiano Nazionale specifica, riferendosi ai colori delle Regioni: Sorpresa, resta l’obbligo di mascherina. La Verità insiste: Sul fine emergenza ci prendono in giro. Libero attacca: La sinistra usa il Green pass come arma politica. Per Domani è la Lamorgese il problema del governo: La ministra intoccabile. Il Fatto torna ad accusare il leader di Italia Viva: Renzi: altri 1,1 mln dai sauditi e soldi da una società cinese. Il Mattino si occupa di Salvini, Meloni e c.: Centrodestra resa dei conti su elezioni e referendum. Il Sole 24 Ore pubblica un dossier: Italia senza figli. Nascite in picchiata: al Sud meno 40% negli ultimi vent’anni. Sulla crisi ucraina e i risvolti sulla politica interna va La Repubblica: Kiev, Salvini apre a Mosca. Mentre La Stampa pubblica due paginate di intervista al capo dei 5 Stelle (in fermento): Conte: non consentirò logoramenti.

PANDEMIA, USCITA DALL’EMERGENZA

Debutta il green pass illimitato da oggi ci sono meno restrizioni a scuola. Attesi sui banchi oltre 600 mila studenti finora in Dad, frenano finalmente anche i numeri dei decessi, ma pesa il giorno festivo. Il punto della situazione con Fabrizio Caccia per il Corriere.

«Se siamo all'alba di una fase nuova, con il ritorno a una specie di normalità, lo scopriremo già oggi, misurando gli effetti concreti delle nuove regole (retroattive) per la quarantena e la dad varate dal governo la settimana scorsa: sulla carta oltre 600 mila studenti, che fino a ieri erano in didattica a distanza, sono attesi in classe. Ma non solo. Da oggi la scadenza del green pass rilasciato dopo la terza dose diventa illimitata. Attenzione: sarà illimitata la durata del certificato anche per chi, dopo il completamento del ciclo primario della vaccinazione, ha contratto il Covid ed è guarito. Varrà sei mesi, invece, il green pass rilasciato a chi ha avuto prima il virus e in seguito ha fatto due dosi. Per ottenere la validità illimitata, insomma, bisogna sottoporsi alla terza dose. Sarà davvero una settimana cruciale: i contagi continuano a scendere (ieri 77.029 nuovi casi, sabato erano stati 93.157), e finalmente flettono i decessi (ieri 229, 375 due giorni fa). Così da venerdì 11 febbraio riapriranno pure le discoteche. Vi si potrà entrare, però, solo con il super green pass e se il locale è al chiuso sarà obbligatoria la mascherina. Ma sempre da venerdì, in zona bianca, all'aperto, la mascherina non servirà più. «In una settimana i casi sono scesi del 30 per cento. Stiamo riuscendo a piegare la curva senza restrizioni invasive per la vita delle persone - dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, a Sky Tg24 -. Di sicuro si sta aprendo una fase nuova, ma i numeri sono ancora alti, serve cautela. Le mascherine saranno ancora le nostre compagne di viaggio, in caso di assembramenti...». La campagna vaccinale intanto va fortissimo: oltre 130 milioni di inoculazioni effettuate. Così, anche la crescita economica e la prospettiva di un Pil sopra il 6 per cento - osserva il ministro - «è prima di tutto merito della campagna di vaccinazione e del nostro Servizio sanitario nazionale». Ma torniamo agli studenti. «La scuola in presenza è un valore da tutelare - scandisce Speranza in tv -. Perciò dico che i ragazzi vaccinati, nella fascia 12-18 anni, fascia in cui il tasso di vaccinazione è intorno all'80 per cento, non andranno più in dad». Sono parole importanti. «Ma c'è un aggrovigliarsi di norme - avverte Mario Rusconi, leader dei presidi romani -. Manca una cabina di regia». Vediamo allora le nuove regole. Dalle elementari alle superiori, da oggi, gli alunni vaccinati e guariti (qualunque sia il numero dei positivi in classe) diranno addio alla dad (per la permanenza in aula è sufficiente la certificazione verde, controllata tramite App mobile). Per loro, come anche per i bambini esentati per motivi di salute, è sempre prevista la presenza in aula (con mascherina Ffp2). Solo i non vaccinati, nella scuola secondaria, andranno in dad a partire dal secondo caso di contagio in classe. Ma non solo. Per tutti i non vaccinati da oggi scatta una novità fondamentale: si vedranno, infatti, dimezzata la quarantena in caso di contatto stretto con un positivo. Da 10 a 5 giorni. Perciò, per esempio, chi di loro si trovi in casa in dad da almeno 5 giorni, per effetto della retroattività delle nuove norme, già oggi potrà tornare a scuola (dopo un tampone negativo). E cambiano le cose anche nella scuola d'infanzia: per far scattare la quarantena, infatti, il numero di bimbi positivi in classe passa da 1 a 5. Il che vuol dire che i piccoli che ora si trovano a casa perché hanno due o tre compagni positivi, oggi potranno tornare in presenza. Sono calcoli complicati. Così, molti istituti scolastici, tempestati dalle richieste di chiarimento dei genitori, sarebbero orientati a non riammettere da subito gli studenti e ad aspettare prima la revoca ufficiale della quarantena da parte delle Asl».

SCONTRO DRAGHI-PARTITI SUI RINCARI DELLE BOLLETTE

Se l’emergenza pandemia si avvia alla conclusione, ci sono molti altri nodi. Il rincaro violento dei prezzi dell’energia e, conseguentemente, delle bollette sta diventano un incubo. I partiti sono in pressing sul governo: chiedono subito altri fondi. La richiesta di M5S, Lega e Forza Italia per uno scostamento del Bilancio. Ma Palazzo Chigi fa muro: l’Europa non ci permette nuovi debiti. Marco Galluzzo sul Corriere.

«La Lega vuole almeno cinque miliardi di euro per il secondo trimestre dell'anno. E parla apertamente di scostamento di bilancio. I Cinque Stelle non danno cifre precise, ma da oggi porranno in modo forte il tema a Mario Draghi, anche per loro non si possono lasciare famiglie, imprese ed esercizi commerciali senza un aiuto concreto da aprile in poi. Lo stesso discorso vale per Forza Italia: il problema del costo dell'energia e del caro bollette non è più eludibile e nel partito credono che il muro che su questo tema stanno alzando sia Palazzo Chigi che il ministero dell'Economia non potrà reggere a lungo. Il dossier energia è al momento oggetto anche di dinamiche che restano riservate, almeno così raccontano nella Lega. Anche se ufficialmente il presidente del Consiglio Mario Draghi esclude uno scostamento di bilancio per il caro energia, che fra l'altro richiederebbe il via libera della Commissione europea oltre che l'approvazione del Parlamento italiano, un embrione di trattativa su un decreto ulteriore sarebbe già in corso e coinvolgerebbe sia il capo del Mef, Daniele Franco, sia i ministri Giancarlo Giorgetti, dello Sviluppo economico, e Roberto Cingolani, della Transizione ecologica. Le versioni sono divergenti, a differenza di chi si contatta, la partita è anche politica, perché parlare di scostamento di bilancio, anche solo per il problema del costo dell'energia, aprirebbe immediatamente altre richieste su altri temi da parte dei partiti di maggioranza. Su questo dossier Matteo Salvini attende un incontro con Draghi. La materia potrebbe finire in Consiglio dei ministri già questa settimana, ma con maggiore concretezza probabilmente la prossima. Il leader della Lega dice che «in questo momento l'emergenza nazionale per famiglie e imprese non è la legge elettorale ma bloccare gli aumenti di luce e gas e dunque occorre un decreto urgente». Continua Salvini: «La legge elettorale e le riforme vanno benissimo ma in questo momento l'emergenza è bloccare gli aumenti di luce e gas. Per il solo aumento bollette le imprese nel 2022 pagheranno 37 miliardi in più. Se aggiungiamo le famiglie e il gas, superiamo i 50 miliardi. Artigiani e commercianti stanno soffrendo e i risparmi degli italiani si stanno assottigliando». Anche in Forza Italia puntano i piedi. Antonio Tajani, coordinatore del partito, è allineato sul tema con il leader della Lega: «Oggi il primo problema degli italiani non è il dibattito sul futuro del centrodestra, ma il caro bollette con imprese e famiglie che rischiano di finire in ginocchio, occorre intervenire in maniera determinata da subito». Nel suo partito gli fa eco il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé: «Occorre trovare le risorse necessarie a calmierare i prezzi di energia elettrica e gas». Se il Pd in questo momento appare alla finestra, Italia viva ha una posizione più moderata: «Per ridurre il costo delle bollette servono scelte coraggiose e non inutili slogan ruggiti ai microfoni - dice Donatella Conzatti, senatrice e segretario della commissione Bilancio -. Un nuovo scostamento significa altre spese correnti a debito. Pensiamoci bene. E invece agiamo rapidamente per la trasformazione energetica, per gli acquisti comunitari di fonti energetiche, per la riforma degli oneri generali di sistema». Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, non fa parte della maggioranza e attacca apertamente l'esecutivo: «Mentre i partiti della maggioranza pensano a dar vita ad alleanze innaturali per sopravvivere alle prossime elezioni il governo è totalmente discostato dalla realtà e a pagarne le conseguenze sono sempre e solo gli italiani».

FRANCIA E GERMANIA TORNANO AL CARBONE

Gian Micalessin sul Giornale scrive che Francia e Germania sono tornate a usare il carbone contro il caro-bollette. Dietrofront a Parigi, anche perché proprio ora ci sono lavori di manutenzione delle centrali nucleari. Anche la Germania torna all'«antico».

«È sporco, brutto e cattivo, ma non ha nessuna intenzione di farsi mandare in pensione. Alla fine la Francia di Emmanuel Macron ha dovuto seguire l'esempio della Cina di Xi Jinping e annunciare, da qui a fine febbraio, un limitato ritorno al tanto deprecato carbone per evitare imprevedibili e politicamente disastrosi "black out" elettrici. Una strada già imboccata dalla Germania, dove il combustibile fossile ha garantito tra luglio e settembre, il 31,9% del fabbisogno energetico. Un forte incremento a livello tendenziale sia rispetto al 26,4% nello stesso periodo di un anno fa, sia rispetto al secondo trimestre del 2021. Un dietro front ecologico che diventa paradossale se pensiamo all'entusiasmo con cui il presidente francese dava per certa la chiusura di tutte le centrali a carbone entro la fine dell'anno. O all'enfasi con cui la Commissione Europea dava per scontata, fino a pochi mesi fa, l'irreversibilità di una transizione ecologica garantita da piani finanziari per 50 e passa miliardi. Invece gli aumenti nei consumi imposti dall'arretramento della pandemia, le tensioni sull'Ucraina e i conseguenti dubbi sugli approvvigionamenti russi hanno trasformato in sogni le certezze «verdi». Ma il dietro-front della Francia sembrerebbe allargare i dubbi anche sulla recente rettifica di un'Europa costretta, in mancanza di fonti alternative, a riabilitare il nucleare inserendolo tra le energie «verdi». Anche perché - a differenza di Italia e Germania - la Francia non ha mai bandito il nucleare e si garantisce il 69 per cento del fabbisogno energetico grazie all'attività di 56 reattori nucleari. Ma allora a cosa si deve il ritorno al carbone annunciato ieri dalla Gazzetta Ufficiale di Parigi? Sembrerà un paradosso, o un cinico gioco del destino, ma proprio nel mezzo di un inverno avaro di gas e foriero di aumenti senza precedenti nel costo dell'energia, Parigi fa i conti con gli imprevisti lavori di controllo e ripristino di cinque reattori nucleari. I tecnici di Edf (Électricité de France), il gigante a capitale pubblico da cui dipende la produzione elettrica d'Oltralpe, sono in allarme per i problemi di corrosione riscontrati nei cinque reattori incriminati e hanno annunciato tempi di chiusura imprevedibilmente lunghi. Un reattore della centrale di Chooz nelle Ardenne, al momento il più problematico, non riaprirà prima di dicembre. Tempi analoghi sono stati annunciati anche per uno dei due reattori della centrale di Civaux, nell'ovest della Francia, mentre le altre tre centrali sottoposte a revisione dovrebbero tornare a produrre entro fine agosto. A questo punto, vista anche la scarsità di gas, il governo francese deve tornare ad affidarsi a quelle centrali a carbone di cui Macron aveva annunciato la chiusura entro fine anno. Stando al decreto pubblicato ieri le centrali potranno superare il tetto di 0,7 chilotonnellate di biossido di carbonio corrispondenti a circa 700 ore di funzionamento annuale. Da ieri fino a fine febbraio il tetto produttivo sale a una chilotonnellata per coprire il picco di consumi invernale. «Questo - spiega il governo - corrisponde a circa 1.000 ore di funzionamento durante questo periodo». La misura stando al ministero della transizione ecologica «è strettamente limitata ai mesi di gennaio e febbraio 2022» e «non cambierà il calendario per la chiusura delle centrali a carbone». Ma per il nero, cattivo e nocivo carbone, demonizzato dal nuovo corso ecologista dopo averci garantito secoli di energia a basso costo, è una rivincita non da poco».

GIUSTIZIA, LA PROPOSTA VIOLANTE CHE PIACE AL PD

Altra questione messa sul tavolo del Governo da Sergio Mattarella è la giustizia. Il Pd fa una mossa e avanza una proposta (studiata da Luciano Violante): "l'Alta Corte giudichi i magistrati", affiancando il Csm. Liana Milella per Repubblica.

«La riforma del Csm? «Il Pd è pronto, siamo in attesa che gli emendamenti del governo arrivino in Parlamento. I tempi sono maturi, non si può più aspettare». Il sorteggio per i togati del futuro Consiglio? «Non solo questo sistema è fuori dalla Costituzione, ma è la riposta di chi non ha più speranze nelle istituzioni». L'Alta corte per tutte le magistrature proposta da Luciano Violante su Repubblica? «Siamo talmente a favore, che abbiamo già presentato al Senato un disegno di legge a mia prima firma per istituirla». Anna Rossomando, vice presidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, ha recentemente incontrato la ministra della Giustizia Marta Cartabia come gli altri esponenti della maggioranza. E con lei ha parlato della riforma, «una priorità improrogabile ». Ma non sono troppi 961 giorni, dallo scoppio del caso Palamara a oggi, per approvarla? Risponde Rossomando: «È dalla scorsa legislatura che insistiamo su questa riforma. Ma nel frattempo abbiamo approvato le leggi sul processo penale e civile, e ci apprestiamo, per rispettare i tempi della Consulta, a modificare l'ergastolo ostativo. Ma i tempi della riforma del Csm non sono oggetto di discussione». Però la maggioranza è divisa basti pensare al sorteggio come legge elettorale per il Csm, chiesto da Lega e Forza Italia. Il niet di Rossomando è deciso: «Non solo è fuori dalla Costituzione, ma è la riposta di chi non ha più speranze nelle istituzioni. E poi, parliamoci chiaro, la scelta della legge elettorale non è certo il cuore della nuova legge». Eppure ci sono 1.787 toghe che lo chiedono «Sì, certo, l'ho visto - replica lei - ma lo leggo come una richiesta di vero pluralismo e contendibilità per l'accesso al Csm. Ma il sorteggio invece è una soluzione punitiva, che peraltro non esclude a priori accordi di potere». E qui Anna Rossomando spiega qual è la richiesta dei Dem: «Rispetto all'ipotesi della ministra Cartabia di un sistema maggioritario temperato, la nostra esigenza è approvare una legge che garantisca il pluralismo, la parità di genere e grazie alla quale anche un outsider, possa candidarsi ed essere eletto». Ma che succede se Lega e Forza Italia s' impuntano sul sorteggio? «Abbiamo visto altre volte che con le impuntature non si va lontano. Io confido sempre sul fatto che si possa arrivare a soluzioni ragionevoli se si parte da un obiettivo condiviso, che in questo caso è sconfiggere le degenerazioni del correntismo. Al centro della nostra attenzione devono esserci i diritti e le libertà del cittadino e non i posizionamenti politici». L'Alta corte per giudicare tutti i magistrati. Il Pd è a favore? Rossomando non ha dubbi: «A tutte le forze politiche proponiamo di iniziare subito l'esame al Senato, parallelamente al lavoro della Camera sul Csm, in modo da poterle approvare in contemporanea. Sarebbe il segnale migliore per dimostrare che le parole di Mattarella non hanno sortito solo un applauso, ma un fatto concreto ». E spiega anche come funzionerà: «Nel Csm resterà una sezione disciplinare che giudica i magistrati, mentre l'Alta corte sarà un giudice di appello e ricorso per tutte le magistrature. Tutte le impugnazioni sia contro le decisioni disciplinari, che sulle nomine contestate saranno trattate lì». Sarà composta come la Consulta, un terzo eletti dal capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Potrà essere legge prima della fine della legislatura? «Sarebbe una bella dimostrazione di reale volontà riformatrice del Parlamento». E il vice presidente del Csm scelto dal capo dello Stato? «Una proposta interessante su cui aprirei subito un confronto».

SCONTRO AL VERTICE NEI 5 STELLE

Continua la dura sfida tra Di Maio e Conte: in palio c’è anche il terzo mandato. Attesa per l'assemblea, Grillo potrebbe piombare a Roma. La cronaca di Claudio Bozza per il Corriere.

«La domenica dopo il «mezzogiorno di fuoco» scatenato dalle dimissioni di Luigi Di Maio dal comitato di garanzia è di calma apparente nel M5S. La quiete prima di una nuova tempesta, che il meteo pentastellato prevede nel corso della settimana (quando è previsto anche l'arrivo di Grillo a Roma). Perché è in questi giorni che si terrà l'assemblea pubblica chiesta dal ministro per confrontarsi in maniera schietta con il leader Giuseppe Conte. Entrambi i contendenti, in vista del primo redde rationem , stanno schierando le truppe e studiando gli interventi. Ma è chiaro a tutti che Di Maio, dopo aver risposto picche alle sirene che gli chiedevano di aderire al nuovo partito di centro, abbia lanciato il guanto di sfida per tentare di riconquistare la leadership del partito. «Assolutamente niente scissione», assicurano dalla Farnesina, ma battaglia politica a viso aperto. Visioni politiche opposte a parte, uno dei nodi chiave su cui si incentra il duello sarà chi deciderà le prossime candidature, alle Comunali prima e alle Politiche poi. Su 230 parlamentari rimasti nel M5S (73 senatori e 157 deputati) ben 66 stanno per completare il secondo mandato. Un parlamentare su tre, secondo le regole interne in vigore, oggi non sarebbe ricandidato nel 2023. È una lista lunga e con tanti big. Conte tra pochi mesi, nonostante un'organizzazione partitica rigida (con pesi e contrappesi), avrà il potere maggiore di decidere le candidature. Sarà un momento chiave per la «rifondazione» avviata dall'ex premier, che, avendo preso in corsa il timone dei 5S, oggi non può contare su un numero così ampio di «fedelissimi». Le truppe sono molto frammentate e una discreta fetta di eletti è controllata appunto da Di Maio. A breve, quindi, i vertici del Movimento dovranno decidere come muoversi sulla delicatissima questione del terzo mandato. Il regolamento pentastellato, specchio della strategia «anticasta» delle origini, afferma che un parlamentare non può essere eletto per più di due volte. Ma in base a questa norma rimarrebbero fuori una folta schiera di volti noti. Il primo è appunto Di Maio. Ma ci sono anche deputati a lui vicini come Sergio Battelli o la viceministra dell'Economia Laura Castelli. In cima alla lista dei non ricandidabili ci sono anche vertici istituzionali come il presidente della Camera Roberto Fico (capo degli ortodossi) e la vicepresidente del Senato Paola Taverna, oggi fedelissima di Conte. Sul fronte Palazzo Chigi, oltre a Castelli, rimarrebbero esclusi anche tutti i membri M5S del governo, come Fabiana Dadone e Federico D'Incà. Si salverebbe invece Stefano Patuanelli, che potrebbe sfruttare il «mandato zero», che non conta il suo mandato da consigliere comunale. Altri grandi esclusi sarebbero Danilo Toninelli, il capogruppo alla Camera Davide Crippa (avverso a Conte), il sottosegretario Manlio Di Stefano, il probiviro del partito Riccardo Fraccaro. Ci sono anche diversi fedelissimi di Conte, come l'ex capo reggente Vito Crimi. C'è pure un «mediatore» come l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma anche, e sopratutto, Claudio Cominardi: il deputato ha fatto due mandati, non si è mai esposto mediaticamente, ma oggi è il tesoriere che gestisce tutti i soldi per le attività del Movimento. Conte come gestirà la patata bollente del terzo mandato? Difficile che lo abolisca in blocco, perché così il Movimento perderebbe la presa sulla macchina politico-istituzionale, traguardo raggiunto solo grazie all'esperienza accumulata dai parlamentari di lungo corso. Più probabilmente verrà scelta la strada di un pacchetto di deroghe per il 2023. Ma quanti posti verranno concessi per rimettere in lista chi non potrebbe? E quali saranno i nomi? La strada è sempre più stretta per due motivi. La prossima legislatura, proprio con il taglio dei parlamentari, avrà 345 posti in meno e il partito molto difficilmente conquisterà la valanga di seggi del 2018. Inoltre, proprio nelle ultime ore, il fondatore Grillo ha rilanciato un monito chiaro: «Limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione».

Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa intervista Giuseppe Conte, che insiste nel volere la resa dei conti o un pubblico mea culpa di Luigi Di Maio. Conte non ammette l’esistenza di diverse opinioni nel Movimento.

«Nel Movimento nessuno deve sentirsi indispensabile, nemmeno io». Giuseppe Conte dice di aver preso in mano i 5 stelle «per costruire, non per favorire scissioni». Ma anche che «le correnti non possono esistere, si decide la linea insieme, poi la si rispetta». Presidente, il caso Belloni è diventato una sorta di giallo. Davvero pensava, quando ha chiamato Beppe Grillo, che su di lei ci fosse un accordo pronto e già avallato dalle altre forze politiche? E non, come ha detto il Pd, un'intesa di massima su una rosa che andava ancora vagliata? «Ho già chiarito che su quel nominativo non si è arrivati all'ultimo. Quando l'abbiamo proposto a Salvini con Letta eravamo consapevoli che era un nome solido e super partes, lo stavamo vagliando da giorni, fermi restando i passaggi finali interni che ciascun partito si riservava di fare. Il sì di Salvini è stata una svolta importante, insieme a quello della Meloni, eravamo a un passo. Poi è intervenuto il partito trasversale che non vuole il cambiamento nel Paese». Si è molto arrabbiato per la dichiarazione arrivata dal ministro degli Esteri a trattativa in corso. È stata però proprio Belloni a definire Di Maio sempre leale. Questo smentisce i vostri sospetti? «Tanto Elisabetta Belloni quanto Paola Severino rispondevano all'identikit che ci eravamo dati: personalità di alto profilo, super partes. In aggiunta, entrambe offrivano l'occasione storica di introdurre un elemento di forte innovazione nel sistema politico italiano eleggendo al Colle una donna per la prima volta». Ma Di Maio già il giorno prima del fatidico venerdì aveva detto: «Elisabetta è mia sorella, si stia attenti a non usare il suo nome per spaccare la maggioranza». Lei sapeva che quel nome avrebbe creato problemi. «Quelle dichiarazioni mi hanno sorpreso, visto che Di Maio stesso ha sempre sostenuto che i nomi non vanno bruciati. Infatti io in pubblico ho sempre evitato di farli. E non mi sono mai arrivate, all'interno del Movimento e della cabina di regia, obiezioni di sorta. Anzi». Non teme che quest' insistenza sulla necessità che al Colle andasse una donna sia irrispettosa nei confronti di Sergio Mattarella? «Il nostro gruppo parlamentare ha sempre apprezzato Mattarella ma all'inizio non c'era la disponibilità del capo dello Stato e non c'era una sufficiente maggioranza numerica. Siamo un movimento che osa, prova a cambiare le cose. Abbiamo tentato la strada di una donna autorevole al Colle, ce l'hanno sbarrata. Non è mai stata una linea irriguardosa nei confronti del presidente, un'opzione di garanzia che come Movimento abbiamo fatto crescere costantemente nelle votazioni». Non è stato Di Maio? «Non so cosa abbia fatto concretamente Di Maio. So solo che con i capigruppo abbiamo sempre vigilato perché quest' opzione crescesse giorno dopo giorno e rimanesse valida sino alla fine. E aggiungo che la mia più forte premura è che ci fosse un'ampia maggioranza numerica. Condizione che si è realizzata solo la mattina del voto finale, con l'apertura della Lega». Quando ha preso in mano il Movimento ha promesso meno verticismo rispetto al passato. Ma il conflitto nato sembra dimostrare il contrario. Non è che il padre padrone lo sta facendo lei? «Mi dicono che nella storia del Movimento non ci siano mai stati tanti incontri e cabine di regia come in questi mesi. Questo sforzo serve a mettere a punto in maniera collegiale una linea politica che spetta a me riassumere e portare avanti. Seguire un diverso indirizzo, andare in direzioni opposte, non significa tanto indebolire una leadership quanto creare confusione e danneggiare il Movimento». Quindi non può esserci un'idea di minoranza? «Quando una linea passa in assemblea congiunta e viene costantemente aggiornata in cabina di regia va rispettata. Non possono esserci agende personali, doppie o triple». È consapevole che dire no alle correnti possa significare anche vietare il pluralismo delle idee? «La forza del Movimento è sempre stata quella di non cedere al correntismo della vecchia politica. I nostri iscritti si possono esprimere online sui passaggi più salienti. La possibilità di discutere progetti e idee e di elaborare proposte anche nella varietà di opinioni è per noi fondamentale. Preannuncio anzi che con la nuova piattaforma della Scuola di formazione, che inaugureremo tra breve, moltiplicheremo i luoghi di discussione. Ma certo non potrò permettere che mentre prima si andava in piazza a fare battaglie civili e politiche, oggi si vada in piazza a palesare correnti. Quella mossa ha creato dolore e malumori nella nostra comunità. Anche per questo ho valutato come doverose le dimissioni di Di Maio dal comitato di garanzia».

IL CENTRO DESTRA, SCIOLTO DI FATTO

Il Centro destra è nel tormento dopo il de profundis di Matteo Salvini, che però ora dice: abbiamo un anno di tempo per recuperare. Cesare Zapperi per il Corriere:

«Matteo Salvini non abbandona i toni forti e ribadisce che il centrodestra è ridotto ai minimi termini: «Qualcuno ha tradito e poi è sparito. Sul Quirinale è mancato il gioco di squadra». Il segretario della Lega sottolinea: «Il centrodestra ha giocato con i singoli in questi mesi e ha perso prima le amministrative e poi non ha fatto bella figura nell'elezione del presidente della Repubblica». Sembra un de profundis (specie se associato alle parole non meno tenere di Giorgia Meloni), ma il leader del Carroccio sa che la spaccatura arriva a non molta distanza da un appuntamento fondamentale per la coalizione, le elezioni Politiche della primavera 2023. E allora fa sfoggio di ottimismo. «Molti sono arrabbiati, ma c'è un anno di tempo per dimostrare di che pasta siamo fatti. Il centrodestra è culturalmente ed economicamente maggioranza, ora sta a noi restituire orgoglio e compattezza e non li restituisci con Renzi e Mastella» spiega rispondendo alle domande di Maria Latella al Caffé della domenica su Radio 24. Una prima risposta, usando la stessa metafora sportiva, gli arriva dal coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani: «Il gioco di squadra si può sempre rinforzare e migliorare. Bisogna far buon uso degli errori. Berlusconi ha parlato di un centrodestra rinnovato. Dobbiamo cambiare alcune cose, fare uno sforzo mettendo sempre davanti a tutti i cittadini e in un contesto europeo». Il senatore di Fratelli d'Italia Ignazio La Russa concorda con l'analisi impietosa di Salvini («la coalizione si è sciolta come neve al sole») ma mette in guardia da un pericolo. «La rottura c'è stata solo in Parlamento» e quindi, in vista delle amministrative, dice di non «vedere grandi pericoli» a meno che qualcuno «non voglia distruggere la coalizione di centrodestra anche sul territorio». Sul governo Draghi, invece, Salvini conferma di voler proseguire sulla strada tracciata un anno fa, anche se non manca di far partire qualche stoccata velenosa: «Io sono orgoglioso di quello che stiamo ottenendo. Certo, ci sono ministri che non brillano come il ministro dell'Interno per il numero di ingressi di clandestini in Italia come non se ne vedevano da anni». Ma nega, come pure era parso solo pochi giorni fa, di voler chiedere al presidente del Consiglio di modificare la composizione della sua squadra (cioè un rimpasto). «In un momento di crisi e paura, non voglio stare alla finestra a criticare quello che fanno gli altri. Voglio essere laddove si decide e portare la mia idea e il mio contributo». Infine, un richiamo ai temi concreti: «La legge elettorale e le riforme vanno benissimo ma in questo momento l'emergenza è bloccare gli aumenti di luce e gas. Occorre un decreto urgente, perché per il solo aumento delle bollette le imprese nel 2022 pagheranno 37 miliardi in più».

MELONI: NON SO SE ANDRÒ DA SOLA ALLE ELEZIONI

Giorgia Meloni avvisa gli alleati e chiude le porte al Partito Repubblicano all’americana, lanciato dal capo della Lega: "Non ci riguarda. Salvini? È sparito". Emanuele Lauria per Repubblica.

 «Non so se andrò da sola alle elezioni. Di certo non faccio più buon viso a cattivo gioco e chiederò garanzie: voglio un patto anti-inciucio e non mi alleerò con chi intende riproporre intese con Pd e M5S». Giorgia Meloni ora detta condizioni ai compagni di viaggio che si sono allontanati dopo la disfatta del voto per il Quirinale. La presidente di Fratelli d'Italia resta fuori dal Partito repubblicano all'americana proposto da Salvini («Non ci riguarda») e mette in guardia Forza Italia e Lega dalla tentazione di sposare la proporzionale: «Se facessero questa legge sarebbe una vergogna. Sarebbe un modo per turlupinare gli italiani, per fregare i loro voti. La proporzionale sarà una cartina di tornasole: perché queste norme servono solo a impedire al centrodestra di vincere. In ogni caso - afferma Meloni - con i numeri che abbiamo oggi, anche con una legge diversa dal maggioritario, sarà difficile fare a meno di Fdi. Non finirò come Marine Le Pen perché il sistema italiano è diverso da quello francese». Intervistata da Massimo Giletti, la leader di Fratelli d'Italia parla dei rapporti con Salvini: «Non l'ho più sentito, non è la prima volta che scompare. È successo già quando scelse di appoggiare Draghi». E si sofferma su Berlusconi: «Non abbiamo perso tempo con la sua candidatura, il fatto è che all'atto pratico il centrodestra non ci ha creduto più». Al Cavaliere che le ha dato dell'ingrata, Meloni replica: «Io sono sempre stata schietta e leale con lui. Ero convinta della sua candidatura al di là del fatto che gli dovessi qualcosa: sono stata sua ministra, è vero, ma in quota An, poi ho lasciato il Pdl per fare un piccolo partito, e ho avuto Fi contro quando mi sono candidata a Roma...». Intanto il veto da Arcore sulla partecipazione di esponenti di Fdi alle trasmissioni Mediaset continua: «Io non so cosa abbiano riferito a Berlusconi i suoi prodi consiglieri. Spero sia stata solo un'incomprensione. Mediaset è abituata a ospitare tutti. Io comunque sono abituata alle fatwe... ». Dichiarazioni serali che animano una giornata in cui Forza Italia ha provato ad abbassare la temperatura nel centrodestra. «Basta liti e paura dei sondaggi», ripete volte il numero due azzurro Antonio Tajani, che chiede pragmatismo: «Se trascorriamo il tempo a litigare, non risolviamo i problemi e gli italiani ci chiedono di essere seri e affidabili». Il coordinatore nazionale si mostra prudente anche commentando le dichiarazioni di Matteo Salvini sulla coalizione «sciolta come neve al sole». E cerca di riportare nell'area moderata il baricentro della coalizione. Fuori dal perimetro restano, appunto, Fratelli d'Italia (auto- esclusa dalla scelta dell'opposizione) e per ora gli altri centristi impegnati nel patto Toti-Renzi. Per Tajani sono esperimenti destinati al «fallimento politico». Salvini, però, non smette di togliersi sassolini dalla scarpa: mette nel mirino chi «ha tradito ed è sparito» e cita perciò i 70 voti mancati per Elisabetta Casellati nella corsa al Colle. Il segretario leghista invece insiste su quello che a suo parere è stato il limite del centrodestra: «È mancato lo spirito di squadra». E indica una deadline: «Sta a noi restituire al centrodestra orgoglio e compattezza: abbiamo un anno di tempo per dimostrare di che pasta siamo fatti e non lasciare che vinca la sinistra».

RENZI, DIRITTO DI REPLICA SUI SAUDITI

Oggi sul Corriere della Sera diritto di replica a Matteo Renzi, che ieri è stato accusato, in un’indiscrezione pubblicata dal giornale di via Solferino, di aver ricevuto bonifici sospetti dall’Arabia Saudita.

«Le attività professionali di Matteo Renzi sono lecite, trasparenti e ogni centesimo che egli riceve viene inserito nella dichiarazione dei redditi che per un parlamentare è pubblica. Si tratta di attività perfettamente legali». Così ha replicato l'ufficio stampa alla notizia della segnalazione di operazioni sospette su un milione e centomila euro incassati dal senatore Renzi per «prestazioni fornite in qualità di consulente all'Arabia Saudita». «Illegale è la pubblicazione di questo materiale - dice la nota - che esce da uffici pubblici e arriva di volta in volta in redazioni diverse con l'unico obiettivo di attaccare il senatore Renzi. La violazione del segreto istruttorio, del segreto bancario, della privacy sono illegali». Il M5S chiede una legge che proibisca a chi serve le istituzioni di accettare soldi da Paesi stranieri».

UCRAINA, “50 MILA VITTIME IN CASO DI INVASIONE”

Per intelligence e Difesa americane i russi hanno mosso il 70% delle forze militari di cui avrebbero bisogno per occupare l’Ucraina: 83 battaglioni e 110mila soldati. Nella simulazione dell’invasione fatta dagli americani ci potrebbero essere 50 mila vittime. Paolo Mastrolilli per Repubblica da New York.

«Fino a 50.000 civili morti, 35.000 soldati uccisi da entrambe le parti, e 5 milioni di profughi in marcia verso i Paesi dell'Unione Europea. È lo scenario peggiore tracciato dall'amministrazione Biden per l'invasione russa dell'Ucraina, che sarebbe l'operazione militare di terra più vasta sul continente dalla fine della Seconda guerra mondiale e «potrebbe scattare in ogni momento». New York Times e Washington Post hanno rivelato che giovedì il segretario alla Difesa Lloyd Austin, quello di Stato, Antony Blinken, il capo degli Stati maggiori riuniti Mark Milley, e la direttrice nazionale dell'intelligence Avril Haines hanno passato ore al Congresso per aggiornare i parlamentari sulla situazione. Secondo le loro stime, Mosca ha posizionato il 70% delle forze di cui avrebbe bisogno per invadere l'intera Ucraina, ossia 83 battaglioni con oltre 110.000 soldati, rispetto ai 110 battaglioni e 150.000 uomini che Putin ritiene necessari a conquistare il Paese. Gli ultimi movimenti riguardano i missili Iskander-M, montati sulle piattaforme di lancio mobili, che con 300 miglia di raggio potrebbero colpire basi militari e città prima dell'offensiva. Nel Mediterraneo e nel Mar Nero sono state inviate 11 navi anfibie da assalto e diversi sottomarini, mentre circa 1.500 membri delle forze speciali sono già al confine o dentro il territorio di Kiev. I russi potrebbero condurre un'azione a tenaglia, attaccando contemporaneamente da tre fronti, ossia dalle loro basi vicine alla frontiera, dalla Bielorussia dove hanno 30.000 militari, e dal sud, cioè Crimea e mare. La finestra migliore sarebbe tra la metà di febbraio, dopo la fine delle Olimpiadi di Pechino, e la fine di marzo, perché quello sarà il momento in cui la maggior parte del terreno sarà congelato, favorendo gli spostamenti. Il Cremlino ha poi anticipato a questo periodo la grande esercitazione nucleare che conduce in genere verso l'autunno, per lanciare un avvertimento anche sulle sue capacità atomiche. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan ha avvertito durante i talk show domenicali che l'invasione «può avvenire ormai ogni giorno e avrebbe un enorme costo umano». L'attacco potrebbe essere preceduto da una falsa aggressione contro la minoranza russa, per giustificarlo, e da assalti cibernetici, per paralizzare il paese. L'intelligence Usa ritiene che Putin non abbia ancora deciso, ma vede cinque possibili opzioni: un colpo di stato per deporre il presidente Zelensky, lasciando in piedi un regime fantoccio ma ritirando le truppe, per evitare rischi e costi dell'occupazione di lungo termine; un'incursione limitata all'est, simile a quella del 2014 in Crimea; un assalto del Donbass per poi dichiararne l'indipendenza; un'incursione nel Donbass seguita dall'annessione dell'intera zone orientale del Paese, fino al fiume Dnieper. La quinta è l'invasione dell'intera Ucraina, che provocherebbe tra 25.000 e 50.000 morti civili; tra 5.000 e 25.000 soldati ucraini; tra 3.000 e 10.000 militari russi; tra uno e 5 milioni di rifugiati, soprattutto in Polonia. L'ipotesi meno cruenta sarebbe qualche operazione cibernetica, come copertura per poi giustificare il ritiro, ma anche il canale diplomatico resta aperto. Un problema è anche la reazione occidentale. Washington è convinta che nel caso dell'invasione gli alleati sarebbero uniti nel sostenere le sanzioni più pesanti già preparate, dal blocco delle transazioni bancarie a quello delle esportazioni, incluse le misure contro gli oligarchi e magari lo stesso Putin. Operazioni più limitate però aprirebbero una discussione sul livello della risposta, dividendo gli americani dagli europei più prudenti. Il vice ambasciatore russo all'Onu, Dmitry Polyanskiy, ha risposto così via Twitter: «La follia e i comportamenti guerrafondai continuano. È sbagliato per i russi e gli ucraini». «Non credete alle previsioni apocalittiche», ha aggiunto il ministro degli Esteri di Kiev Kuleba. Zelensky sostiene che «le possibilità di una soluzione diplomatica sono maggiori dell'escalation». Ma i primi rinforzi americani della 82nd Airborne Division sono arrivati in Polonia, e Washington pensa che denunciare i piani di Mosca sia necessario per cercare di fermarli».

Il Presidente francese Emmanuel Macron media con il Cremlino e oggi incontra Vladimir Putin a Mosca. Domani sarà da Volodimir Zelensky: obiettivo un summit a tre a Parigi. Anais Ginori per Repubblica.

«L'incontro è fissato per il pomeriggio al Cremlino e non alla dacia dove Vladimir Putin stava ultimamente per ragioni sanitarie. A poche ore dal suo arrivo a Mosca, Emmanuel Macron ribadisce di credere nella mediazione e di voler continuare sulla strada di quello che gli sherpa chiamano «dialogo esigente e strutturato». Anche perché, dice il leader francese, se gli europei rinunciano a parlare con Mosca poi sono altri a farlo, riferendosi al nuovo patto tra Xi e Putin all'inaugurazione delle Olimpiadi invernali. Macron vuole convincere il presidente russo e Zelensky a sedersi intorno a un tavolo per un vertice a Parigi del formato Normandia, e spera anche di ottenere segnali di "de-escalation" sul confine ucraino, bielorusso e nelle esercitazioni ostili in corso. «Dobbiamo essere molto realisti» commenta Macron al Journal du Dimanche . «Non otterremo gesti unilaterali - prosegue - ma è indispensabile evitare che la situazione si deteriori». Il presidente francese ha più volte criticato i toni allarmisti che venivano da Washington pur non negando l'evidenza, ovvero lo schieramento dei centomila soldati dispiegati da Putin alle frontiere dell'Ucraina. Con il leader Usa il presidente francese ha mantenuto un contatto costante: anche ieri si sono sentiti prima dell'arrivo a Mosca. I Paesi occidentali, dice il capo di Stato francese, si trovano in una fase molto diversa da quella delle offensive russe su Georgia e Crimea, nel 2008 e 2014. «Osserviamo non un'invasione o un'operazione militare in cui dovremmo reclamare un cessate il fuoco, ma un'escalation di tensioni molto forti con una militarizzazione dei confini ucraini e bielorussi. In questo contesto il nostro ruolo è preventivo: dobbiamo abbassare la tensione con il dialogo ed evitare un conflitto». In cambio Macron è pronto a dare garanzie politiche che la Francia non faciliterà un eventuale allargamento della Nato verso Est (Mosca chiede un impegno legale, che l'Occidente rifiuta). «L'obiettivo geopolitico della Russia - sostiene - oggi non è l'Ucraina ma un chiarimento sulle regole di coabitazione con Nato e Ue». Il leader francese, che ha la presidenza di turno dell'Ue, insiste sul fatto che parla in nome degli europei, in stretto coordinamento. Anche se il suo attivismo ha rubato la scena a Olaf Scholz. Nello stesso giorno il presidente francese sarà a Mosca da Putin e il cancelliere tedesco a Washington da Biden. L'arrivo negli Usa di Scholz, più volte rinviato, è stato preceduto da una nota dell'ambasciatrice Usa a Berlino che allerta sui tentennamenti della nuova coalizione tedesca e sull'affidabilità della Germania post-Merkel come alleato in un contesto sempre più teso. Il presidente francese va a Mosca per «tentare di costruire risposte all'emergenza e andare avanti verso un nuovo ordine di cui la nostra Europa ha profondamente bisogno e che si basa sul principio cardine dell'eguaglianza sovrana degli Stati». L'asse franco-tedesco per ora è riuscito a riattivare i negoziati tra Ucraina e Russia nel cosiddetto formato Normandia. E Scholz e Macron dovrebbero organizzare un vertice con la Polonia a Berlino. Dietro le quinte, avanza nella diplomazia francese l'idea della "finlandizzazione" dell'Ucraina, concetto che si riferisce alla neutralità obbligata della Finlandia durante la Guerra Fredda e che Henry Kissinger aveva già lanciato per fare di Kiev uno Stato cuscinetto tra il blocco occidentale e la Russia. Un concetto che non piace a molti Paesi dell'est, a cominciare dalla Polonia, ed è una soluzione su cui gli stessi europei rischiano di essere divisi».

SALVINI E CONTE: DIALOGO CON MOSCA

La questione ucraina divide anche la politica italiana. Matteo Salvini tende la mano a Putin. Una posizione non condivisa nel governo dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, più fedele alla linea Usa. Si allarga la spaccatura con Conte, che invece è più vicino al Cremlino. Giovanna Casadio per Repubblica.

«La nuova Lega che immagina dovrà stare dentro «la cornice del tradizionale atlantismo». Ma al filo rosso con Mosca, che è stato un baluardo discusso e opaco della sua politica estera, Matteo Salvini non rinuncia. E nel bel mezzo della crisi russo-ucraina, il leader del Carroccio decide di sferzare il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Chiedendogli «un impegno totale e assoluto per evitare la guerra ai confini dell'Europa. La guerra tra Di Maio e Conte - dice Salvini - mi interessa meno ». Il senatore milanese afferma che «l'Italia è quella che ha più da rimetterci» da un eventuale precipitare della situazione. E sottolinea, nel passaggio fondamentale della sua dichiarazione a Radio 24 : «Avere buoni rapporti con la Russia penso che sia fondamentale». Salvini tende una mano a Putin, insomma, confermando posizioni diverse, nel governo, sul dossier russo-ucraino. Il Pd è schierato per la linea Biden, la più rigida rispetto al Cremlino. Una linea che, ad avviso della Lega e dei 5S (o meglio della parte del Movimento che fa diretto riferimento a Conte), rischia di favorire un conflitto. Salvini spinge per una posizione più equidistante. E soprattutto punta ad evitare lo strappo con Mosca. Il segretario leghista è convinto che il congelamento dei rapporti di Usa e Ue con la Russia, il muro contro muro insomma, possa non solo alimentare i venti di guerra ma anche lasciare imprese e famiglie italiane a rischio blackout. Di lì la decisione di mettere un altro ministro nel mirino, ovvero Di Maio, dopo i fendenti a Lamorgese, Speranza, Giovannini. Il titolare della Farnesina viene invitato a tenere in piedi il dialogo con Mosca: in questo modo punta ad ampliare il solco fra lo stesso Di Maio e Conte, che specialmente nel suo primo governo non ha nascosto propensioni russofile. Pesano, dietro questo invito, anche gli strascichi della frattura avvenuta in occasione delle elezioni per il Quirinale: Salvini e Conte tentarono di spingere verso il Colle la diplomatica Elisabetta Belloni, mentre Di Maio frenò. La Farnesina, non a caso, lega l'affondo del leader della Lega proprio a un calcolo di politica interna, ovvero alla volontà di allargare la frattura che si è creata nel Movimento fra l'ex capo politico e l'attuale presidente: «Strano che Salvini non si sia accorto che Luigi Di Maio ogni giorno ormai parla di Ucraina», riferiscono fonti del ministero. Oggi Di Maio e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini incontreranno le commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. Di certo, il premier Draghi ha già fatto suo il dossier, con una telefonata a Putin in cui ha ottenuto rassicurazioni sull'intenzione di Mosca di «continuare a sostenere stabili forniture di gas all'Italia». Ma è assordante, nel frattempo, il silenzio dei partiti su quanto sta accadendo al confine orientale dell'Europa. «Sono molti i putiniani d'Italia», dice Lia Quartapelle, la responsabile Esteri del Pd, che misura le parole, ma non esita a rivendicare al suo partito la posizione più netta contro l'escalation e il rischio di un'invasione dell'Ucraina da parte della Russia. C'è anche Salvini, fra i "putiniani" indicati da Quartapelle? La domanda rimanda alla vicenda Metropol e all'inchiesta sui fondi per il partito che sarebbero stati negoziati con intermediari di Putin da Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini e presidente dell'Associazione Lombardia Russia, che si occupa di relazioni tra uomini d'affari italiani e russi. Savoini è tuttora indagato per corruzione internazionale. Ombre che il leader leghista ha sempre allontanato con sdegno. Ma che compaiono ogni volta che Salvini chiede di riaprire il dialogo con Mosca».

INDIA, LE RAGAZZE SFIDANO MODI

Le ragazze musulmane sfidano l'India del premier Modi, pesantemente condizionato dalla svolta nazionalista del suo partito e che ha vietato le aule alle giovani con l'hijab: loro ascoltano le lezioni da fuori. Il Paese è sempre più spaccato. Dopo i cristiani, anche i musulmani e laici nel mirino.

«Da più di un mese sei adolescenti indiane stanno sedute sui gradini fuori dall'aula del loro college pre-universitario. Non possono entrare in classe per via dei loro abiti. Ma la fede proibisce loro di girare in pubblico senza quei vestiti. Così restano sedute a terra, a studiare, da sole. In altri college simili dello Stato del Karnataka, dozzine di ragazze con lo stesso abito affollano i cancelli per chiedere d'entrare. Ma se non si tolgono l'hijab , vengono respinte. Lo ha deciso il governo di questo Stato nel sud dell'India, contraddicendo decisioni dell'Alta Corte e della Corte suprema del 2016. All'epoca i giudici, esaminando il Corano e gli Hadith gli insegnamenti di Maometto seguiti dal 15 per cento degli indiani, quelli di fede islamica - decretarono che l'hijab è un «dovere religioso» e in quanto tale «non è offensivo». Sul rischio di nascondere bigliettini per copiare agli esami, si autorizzò alle perquisizioni. Ora invece il Karnataka vira per l'opzione francese, un laicismo che cancella i simboli religiosi, visto che dal 2011 oltralpe il burqa e ogni altro velo che coprono totalmente viso e corpo sono proibiti in pubblico. Ma qui siamo nell'India delle religioni, "la casa madre dell'Assoluto", come la definiva Giorgio Manganelli. Qui, i Sikh vogliono il diritto di indossare il patka (una sorta di bandana per la testa) sotto al turbante, i cristiani hanno il crocefisso, le indù la collana mangalsutra e il bindi rosso sulla fronte. I simboli abbondano. Per questo la deriva anti- hijab ha un sapore oppressivo che tutti sanno dove nasce: da una cultura di fondamentalismo anti-islamico che ribolle da decenni, ma che, da quando il partito del premier Narendra Modi, il Bharatiya Janata Party (Bjp), è al potere, sta cambiando i connotati dell'India. Dietro a questa anti-islamizzazione c'è un'organizzazione bandita già tre volte dal 1947 agli anni '90. Ma che dal 2014, da quando Modi è al potere, si è trasformata nel vero burattinaio clandestino. Da lì proviene il 75 per cento dei ministri degli ultimi due governi. La sigla è Rss, Rashtriya Swayamsevak Sangh, ovvero Organizzazione nazionale di volontari. È una sorta di associazione fondamentalista che ha sette milioni di iscritti, ma che in campagna elettorale mobilita oltre cento milioni di volontari: «Più di qualsiasi movimento al mondo», come recitano orgogliose le Rss. Se l'acronimo richiama una notoria sigla nazista non è un caso. I fondatori del movimento furono ammiratori, e alcuni frequentatori, di Benito Mussolini e delle SS di Adolf Hitler. Difatti, il fondatore della Repubblica indiana, Jawaharlal Nehru, li criticò aspramente: «È una milizia privata che agisce secondo principi prettamente nazisti». Nel 1993, lo psicologo Ashis Nandy definì il movimento come appartenente alla categoria diagnostica «fascista». Considerato che Modi è stato militante Rss dall'età di otto anni, ed è stato pracharak (predicatore) per anni, è utile conoscere questa versione induista dei Fratelli musulmani, braccio intellettuale del Bjp e forse molto di più, visto che è una lobby che influenza i programmi di governo e la cui longa manus raggiunge i ministeri più strumentali alla riscrittura della Storia in chiave indù. I loro avversari sono i musulmani, i cristiani, gli intellettuali e i giornalisti critici e soprattutto il laicismo che, pur essendo pietra fondante dell'India indipendente, soffre oggi di critiche, violenze e limitazioni. Tanto che le Rss chiamano i laici sickulars, unendo sick , malato, con secular, laico, cioè malati di laicismo, così come chiamano presstitutes i giornalisti, unendo press con prostitute, cioè giornalisti puttane. Le Rss gestiscono dodicimila scuole private in India, istituti in stile missionario dediti ai testi religiosi. Lì, i volontari studiano per almeno tre anni, imparando l'ortodossia, forgiando il carattere, apprendendo a organizzare i quadri, oltre a recitare i mantra sacri, giurare sulla bandiera arancione, fare yoga ed esercizi ginnici. Questo movimento paramilitare nacque nel 1925 sotto la guida di Keshav Baliram Hedgewar, ammiratore e apologo di Mussolini e Hitler. Con la scusa dell'unità culturale indù, oltre a promuovere "forza, valore e coraggio," le Rss danno sostegno morale a quelle organizzazioni che linciano musulmani e Dalit (gli intoccabili), accusati di macellare vacche. Dal 2014 a oggi, in 82 attacchi sono stati uccisi 43 indiani, e feriti 108, perché accusati di trasportare carne di vacca. La maggior parte erano musulmani. In questo clima, sempre più Stati dell'India hanno approvato la proibizione totale di macello e vendita della carne di manzo, difesa spesso con metodi violenti dai vigilantes della vacca sacra. Togliendo al Kashmir, a maggioranza musulmana, il diritto di essere Stato. Tanto da aver fatto commentare al parlamentare del Congress Party, Shashi Tharoor: «Di questi tempi, in India, è meno pericoloso essere una vacca che essere musulmano ». Ora lo stanno scoprendo anche le studentesse del Karnataka che chiedono di poter continuare a indossare l'hijab anche in aula».

POLVERIERA SAHEL, IL DUELLO FRA FRANCIA E RUSSIA

Dal Burkina Faso al Mali c’è un duello tra Francia e Russia per il dominio della regione africana del Sahel. Un duello che lascia il campo libero agli jihadisti. Secondo Domenico Quirico sulla Stampa, si rischia un nuovo Afghanistan.

«Sentite: «Francesi, toglietevi dai piedi!». Perentorio, chiaro, comprensibile. I popoli, gli affamati, i dimenticati, gli sfruttati sanno ben trovare le parole giuste quando non ne possono più di decenni di prepotenze. Nel Sahel uno dei colonialismi più loschi, predatori, capace di eternizzarsi attraverso un uso subdolo di forza e stomachevoli mimetismi, quello francese, perde i pezzi. Una rabbia atmosferica che scoppia qua e là, incontenibile, lo sfascia davanti ai nostri occhi in un puzzo di marciume, disperazione e impotenze. Il piccone lo ha impugnato una nuova generazione di militari golpisti che rovesciano le false democrazie della corruzione che Parigi tiene in piedi in queste periferie già sbocconcellate dalla jihad islamista: per prolungare, con vecchie furbizie, i suoi «interessi legittimi». Sì, furoreggiano nell'Africa dell'Ovest i golpe, orrida parola: richiama, soprattutto qui, una tradizione particolarmente brutale di rozzi pretoriani in basco rosso e occhiali scuri. Verrebbe voglia di unirsi al coro, guidato da Parigi e dai suoi alleati indigeni, che invoca ed esige il ritorno nelle caserme e la restaurazione dei presidenti «legittimi». Ma se si percorrono in questi giorni di volontà tese e violente le strade di Ouagadougou, Conakry, Bamako nasce qualche dubbio. Sparita quella lugubre indolenza in cui sentivi stagnare qualcosa di più minaccioso della collera, il ritorno dei militari è osannato dalle piazze e dai giovani di Paesi disperati dove le uniche prospettive sono farsi migranti, diventare jhadisti o essere uccisi. Sconcerto: l'esercito è ormai considerato l'unica struttura organizzata che offre possibilità di salvezza, portare la pace, combattere la corruzione, visto che le elites indigene, le borghesie parassitarie e complici che Parigi coccola e tiene in piedi, non si occupano che di riempire le tasche e considerano le elezioni solo il modo più facile per prolungare il potere e arricchirsi nella completa impunità. Quando i voti li ridimensionano ricorrono ai brogli. Servono, i golpe, almeno a spezzare, in questi immutevoli termini del mondo, il riconoscimento passivo che contro la realtà dell'ingiustizia non c'è nulla da fare. I militari sono quasi una classe sociale in Paesi decomposti dalla miseria, dalle guerre tribali e fanatiche, dalla immobilità del ladrocinio. Bisogna cominciare a leggerne le faglie, a distinguere i gruppi: generali e ufficiali medi, guardia presidenziale legata al Palazzo, reparti di élite più addestrati e moderni (spesso quelli che avviano i golpe), fanterie votate solo al saccheggio e alla sopravvivenza. Finora bastava una telefonata da Parigi perché sergenti analfabeti provvedessero a eliminare qualche presidente poco obbediente o che cianciava di indipendenza vera o rivoluzione. Erano un fattore essenziale del sottosviluppo coloniale. Ora osano chiedere che i francesi e i loro alleati occidentali impegnati nella interminabile guerra al terrorismo se ne vadano. Decifriamo per esempio il golpe più recente, quello in Burkina Faso. Nel 2015 un altro tentativo di colpo di Stato guidato da un ex presidente, Blaise Campaoré, fu sventato dalla mobilitazione dei giovani al grido di «vogliamo la democrazia». Sei anni dopo, quando i militari sono usciti dalle caserme e hanno arrestato il presidente Kaboré, un incapace che ha abbandonato il Paese nelle mani dei jihadisti, gli stessi giovani sono tornati in strada, ma questa volta per inneggiare ai golpisti al grido di «viva l'esercito». Esibivano oltre ai cartelli contro la presenza francese nel Sahel (c'è una base delle forze speciali vicino alla capitale) foto del giovane colonnello golpista Paul Henri Damiba, leggenda della guerra ai jihadisti, e di Sankara, l'eroe rivoluzionario ucciso nel 1987 da una congiura di palazzo. A scatenare la ribellione l'ennesimo scandalo sanguinoso, il massacro di Inata, nel Nord; cinquanta gendarmi uccisi dai jihadisti nella loro caserma. Erano inermi: da settimane non ricevevano rifornimenti, munizioni, viveri. Per nutrirsi davano la caccia nella «brousse» agli animali. I soldi necessari erano stati prosciugati, come sempre, dalla camarilla che è al potere. La vergogna ha scosso i militari e il Paese. Aveva ragione Marx: la vergogna è rivoluzionaria. In sei anni qui la offensiva jihadista ha fatto duemila morti e un milione di profughi. Lo stesso sostegno popolare a Bamako, in Mali, nell'agosto scorso ha salutato fragorosamente la caduta del presidente Keita e del suo regime alla deriva, e a Conakry in Guinea dove un colonnello ha licenziato il presidente Alpha Condè, uno specialista del truffaldino terzo mandato, ovvero del potere a vita. Ormai nell'Africa dell'Ovest si scommette se toccherà prima al Niger o alla Guinea Bissau. La guerra ai jihadisti è perduta. Si delineano i contorni vergognosi e allarmanti di un Afghanistan africano. Le popolazioni sono abbandonate a se stesse, alla loro miseria, alla furia dei fanatici che montano califfati di sabbia. Nell'Est del Burkina Faso, nel parco naturale di Arly dove un tempo i turisti ammiravano gli animali selvaggi, città e villaggi sono assediati dai jihadisti che danno ultimatum alla popolazione e organizzano posti di blocco per impedire il passaggio di cibo e medicinali, è vietato lavorare nei campi e chi non obbedisce è frustato e ucciso, 50 mila studenti non possono più andare a scuola, alcune comunità come a Naougou sono ormai città islamiche dove i miliziani gestiscono i negozi e applicano la sharia. Le popolazioni fuggono a piedi per giorni attraverso la savana, senza cibo, si ammonticchiano in slum di rifugiati senza che nessuno presti loro aiuto. Questo è il Sahelistan. Se non lo attraversi non puoi capire che cosa vi accade, la natura vi modella la Storia e gli uomini, aguzzini e vittime. L'Africa qui diventa tragica e spopolata, anche la bellezza è disumana. La roccia e la terra prendono colori esaltati, giallo ocra rosso nerastro. È il regno del minerale, del fossile, del preistorico. E del deserto rugginoso di cespugli, percorso dai mulinelli della polvere simili a spettri nella luce del giorno. E in fondo le distese delle città, caotiche, deperite, provvisorie, rotte, polipai di miseria, di notte diventano spugne nere imbevute di luci. La natura è assoluta, di uno splendore faticoso come la lotta per sopravvivere. Qui è una vita di labirinti, di sacche, di astronomiche distanze geografiche, etniche, morali. La predicazione jihadista vi è potente, resistente a ogni attacco, salda tra loro gli uomini più disparati. Diventa una specie di redenzione. Riconosciamolo: non siamo stati capaci di sondare gli abissi di questa massa fluttuante di uomini e di solitudini, presagirvi le frane. Abbiamo dato retta alle frondose retoriche della propaganda francese (la lotta al terrorismo, il sostegno fraterno...), alla sua minuta politicheria coloniale. Il Sahel sta cambiando sotto l'urto jihadista con una cadenza incalzante modificando finalmente vecchi equilibri. Nuovi concetti della vita, alcuni sì pericolosi e fanatici, nuovi interessi, nuove disperazioni e nuovi caratteri umani entrano sempre più nel gioco di questo spazio esaltato e brulicante. Irrompono nuovi attori, la Russia con i suoi mercenari che promettono sicurezza, la Cina, la Turchia, riprende sotto nuove spoglie il grande gioco dell'epoca della guerra fredda in Africa. E rinasce e si allarga la tentazione a giocare gli uni contro gli altri. La Francia è vecchia, anacronistica, colpevole. Solo i francesi continuano a illudersi che il destino di questi Paesi lo decida l'Eliseo. Ma restano soli. I danesi se ne vanno, gli svedesi si preparano a imitarli, i tedeschi riducono il contingente. Nove anni dopo l'avvio della guerra al terrorismo le zone controllate dai jihadisti si sono allargate, gli Stati si sono decomposti e cresce la rabbia contro la presenza occidentale, il bianco, il padrone. Un contingente di soldati italiani è in Niger: addestratori si spiega. Perché?».

IL PAPA OSPITE IN TV DA FABIO FAZIO

Salvatore Cernuzio per Vatican news fa un resoconto completo dell’intervista di papa Francesco alla trasmissione tv Che tempo che fa, condotta su Rai Tre da Fabio Fazio. (Trovate l’integrale nei pdf).

«“La guerra è un controsenso”. Papa Francesco si collega da Casa Santa Marta con la trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio su Rai Tre e dialoga con il conduttore che lo interroga su diversi temi: le guerre, i migranti, la salvaguardia del creato, il rapporto genitori e figli, il male e la sofferenza, la preghiera, il futuro della Chiesa, il bisogno degli amici e il perdono che è un "diritto umano": "La capacità di essere perdonato è un diritto umano. Tutti noi abbiamo il diritto di essere perdonati se chiediamo perdono", dice il Papa. E alla domanda su come faccia a sopportare le tante storie di sofferenza con cui viene a contatto, risponde: "Non sono un campione di peso che sopporta le cose.  E poi non sono solo, c’è tanta gente che mi aiuta, tutta la Chiesa, i Vescovi, gli impiegati accanto a me, uomini e donne bravi che mi aiutano...".

La cultura dell'indifferenza e i bambini che muoiono

Anzitutto lo sguardo si concentra sul tema caro al Papa delle migrazioni. Tema, purtroppo, attuale dopo la recente notizia dei 12 migranti trovati morti per congelamento al confine fra Grecia e Turchia. Per il Papa “questo è un segnale un po’ della cultura dell’indifferenza”. Ed è anche “un problema di categorizzazione”: le guerre, al primo posto; la gente, al secondo. Ne è esempio lo Yemen: “Da quanto tempo lo Yemen soffre la guerra e da quanto si parla dei bambini dello Yemen?", domanda il Papa. "Ci sono categorie che importano e altre sono in basso: i bambini, i migranti, i poveri, coloro che non hanno da mangiare. Questi non contano, almeno non contano al primo posto, perché c’è gente che vuole bene a questa gente, che cerca di aiutarle, ma nell’immaginario universale quello che conta è la guerra, la vendita delle armi. Pensa che con un anno senza fare armi, si potrebbe dare da mangiare ed educazione a tutto il mondo, in modo gratuito. Ma questo è in secondo piano”, denuncia Francesco. Pensa poi ad Alan Kurdi, il piccolo siriano trovato morto su una spiaggia, e ai tanti bambini come lui “che non conosciamo” e che “muoiono di freddo” ogni giorno. Anche davanti a questo, la guerra rimane però la prima categoria: “Vediamo come si mobilitano le economie e cosa è più importante oggi, la guerra: la guerra ideologica, di poteri, la guerra commerciale e tante fabbriche di armi”.

Fare la guerra è una meccanica di distruzione

A proposito di guerra, il Pontefice - interpellato sulle tensioni tra Ucraina e Russia – rammenta le radici di questa orribile realtà, definita “un controsenso della creazione”, che affondano nella Genesi con la guerra tra Caino e Abele o quella per la Torre di Babele. “Guerre tra fratelli” comparse poco dopo la creazione di Dio: “C’è come un anti senso della creazione, per questo la guerra è sempre distruzione. Per esempio, lavorare la terra, curare i figli, portare avanti una famiglia, far crescere la società: questo è costruire. Fare la guerra è distruggere. È una meccanica di distruzione”.

I lager in Libia e il Mediterraneo un "cimitero"

In questa stessa meccanica, Papa Francesco inserisce il trattamento “criminale” riservato a migliaia di migranti, alcuni prigionieri dei “lager” in Libia: “Quanto soffrono nelle mani dei trafficanti coloro che vogliono fuggire”. Ci sono filmati che lo mostrano e molti sono conservati nella Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero dello Sviluppo Umano integrale. “Soffrono e poi rischiano per attraversare il Mediterraneo. Poi, alcune volte, sono respinti, per qualcuno che per responsabilità locale dice ‘No, qui non vengono’; ci sono queste navi che girano cercando un porto, che tornano o che muoiono sul mare. Questo succede oggi”, ribadisce il Papa. E, come già in altre occasioni, ripete il principio che “ogni Paese deve dire quanti migranti può accogliere”: “Questo è un problema di politica interna che deve essere pensato bene e dire ‘Io posso fino a questo numero’. E gli altri? C’è l’Unione Europea, bisogna mettersi d’accordo, così si fa l’equilibrio, in comunione”.

Al momento, invece, sembra emergere solo “ingiustizia”: “Vengono in Spagna e in Italia, i due Paesi più vicini, e non li ricevono altrove. Il migrante va sempre accolto, accompagnato, promosso e integrato. Accolto perché c’è la difficoltà, poi accompagnarlo, promuoverlo e integrarlo nella società”. Soprattutto integrarlo per evitare ghettizzazioni ed estremismi figli di ideologie, come accaduto per la tragedia di Zaventem, in Belgio. I migranti, inoltre, sono risorse in Paesi che registrano un forte calo demografico. Perciò, rimarca Papa Francesco, “dobbiamo pensare intelligentemente alla politica migratoria, una politica continentale”. E il fatto che “il Mediterraneo sia oggi il cimitero più grande d’Europa ci deve far pensare”.

Toccare le miserie

Allo stesso modo il Papa chiede di riflettere su quella che sembra essere una tremenda divisione nel mondo: una parte sviluppata dove si ha “la possibilità della scuola, dell’università, del lavoro”; un’altra, con “i bambini che muoiono, migranti annegati, le ingiustizie le vediamo anche nei nostri Paesi”. La tentazione “molto brutta”, sottolinea il Pontefice, è “di guardare da un’altra parte, non guardare”. Sì, ci sono i media che mostrano tutto “ma prendiamo distanza”; sì, “ci lamentiamo un po’, ‘è una tragedia!’ ma poi è come se nulla fosse accaduto”. “Non basta vedere, è necessario sentire, è necessario toccare”, insiste Francesco. “Ci manca il toccare le miserie e toccare ci porta all’eroicità. Penso ai medici, agli infermieri e infermiere che hanno dato la vita in questa pandemia: hanno toccato il male e hanno scelto di rimanere lì con gli ammalati”.

Prenderci a carico la Terra

Lo stesso principio vale nei confronti della Terra. Ancora una volta, emerge l’appello a prendersi cura del Creato: “È un’educazione che dobbiamo imparare”. L'allarme viene dall’Amazzonia con i suoi problemi di deforestazione, ossigeno che manca, cambi climatici: si rischia così la “morte della biodiversità”, si rischia di “uccidere la Madre Terra”, avverte Francesco. Cita poi l’esempio dei pescatori di San Benedetto del Tronto che hanno trovato in un anno circa 3 milioni di tonnellate di plastica e che si sono attivati per togliere ogni rifiuto dal mare. “Dobbiamo metterci questo in testa: prenderci a carico la Madre Terra”. Altrimenti tutto finirà come nella canzone di Roberto Carlos nella quale un figlio chiede al padre perché il fiume non canta più: "Il fiume non canta perché non c'è più".

Aggressività sociale

Il Papa invoca, in sostanza, quell'atteggiamento di “cura” che sembra venir meno anche dal punto di vista sociale. Oggi ciò che si sperimenta è infatti un problema di “aggressività”, come dimostra il fenomeno del bullying: “L’aggressività non è una cosa in sé stessa negativa perché ci vuole essere aggressivo per dominare la natura, per andare avanti, costruire, c’è un’aggressività positiva diciamo così. Ma c’è un’aggressività distruttiva che incomincia anche con una cosa molto piccola: con la lingua, il chiacchiericcio". Il chiacchiericcio "nelle famiglie, nei quartieri, distrugge”, distrugge “l’identità”. Bisogna perciò dire “no al chiacchiericcio”: “Se tu hai una cosa contro l’altro o te la mangi te o vai da lui e dilla in faccia, essere coraggiosi, coraggiose”.  

La "complicità" dei genitori

Con il focus ancora sui giovani, a volte vittime di “un senso incredibile di solitudine”, Papa Francesco si rivolge ai genitori di adolescenti che a volte fanno fatica a capire “la sofferenza degli altri”. Per il Vescovo di Roma il rapporto fra genitori e figli si sintetizza in una parola: “vicinanza”. “Vicinanza con i figli. Quando si confessano coppie giovani o quando parlo con loro, faccio sempre una domanda: ‘Tu giochi con i tuoi figli?’ Quella gratuità di papà e mamma col figlio. Alle volte sento risposte dolorose ‘Ma Padre, quando io esco da casa per lavorare loro dormono e quando torno la notte stanno dormendo un’altra volta’. È la società crudele che si stacca dai figli. Ma la gratuità con i propri figli: giocare con i figli e non spaventarsi dei figli, delle cose che dicono, delle ipotesi, o anche quando un figlio già più grande, adolescente, fa qualche scivolata, essere vicino, parlare come padre, come madre”. Non fanno del bene quei “genitori che non sono vicini ai figli, che per stare tranquilli ‘Ma prendi la chiave della macchina, vai’”. Invece “è tanto bello” quando i genitori sono “quasi complici con i figli”».

DOPO RICCARDI, TOCCHERÀ A ZUPPI

Fabrizio d’Esposito sul Fatto nella sua rubrica “Il chierico vagante” mette in relazione la recente candidatura di Andrea Riccardi al Colle con quella del cardinal Matteo Zuppi in un futuro conclave.

«Quando il nome di Andrea Riccardi, storico e cattolico, è uscito fuori alla vigilia delle votazioni per il Quirinale - era due settimane fa - il segretario del Pd ha tratteggiato così la figura dell'ex ministro del governo di Mario Monti: "È il nostro candidato ideale. Non è un candidato di bandiera". Poi il nome di Riccardi non è stato in gioco negli scrutini cominciati il 24 gennaio ma questo per i critici della destra clericale e anti-bergogliana conta poco. Ha annotato sul suo sito Corrispondenza Romana il professore Roberto de Mattei, già consulente di Gianfranco Fini indi cattolico crociato alla Lepanto: "Poco importa a questo punto che Andrea Riccardi non sia stato eletto presidente della Repubblica. Ciò che conta è che lo schieramento di sinistra si è riconosciuto nel suo nome, anche solo come 'candidato di bandiera'. Ciò conferma il ruolo di questo Professore pan-ecumenista dalle smisurate ambizioni". Non solo: una personalità dalle "relazioni trasversali che tiene a sinistra e a destra, proprio come fa il cardinale Matteo Zuppi, un membro di Sant' Egidio con cui da anni opera in tandem". Dunque: Riccardi e don Matteo Zuppi, entrambi della Comunità di Sant' Egidio. Il primo ritenuto all'altezza del Quirinale, il secondo cardinale e arcivescovo di Bologna nonché dato per superfavorito nel futuro Conclave, quando sarà (lunga vita a papa Francesco!). In questi giorni, il più lesto a cogliere il significato politico della comune appartenenza di Riccardi e Zuppi è stato Sandro Magister, sul suo blog Settimo Cielo. Per l'autorevole vaticanista, la mancata candidatura al Colle dell'ex ministro montiano (una curiosità: quando era al governo suo portavoce era Giovanni Grasso, attuale consigliere per la stampa di Mattarella) può lanciare definitivamente l'arcivescovo di Bologna. Non solo come successore di Francesco ma anche come futuro presidente della Cei, la conferenza episcopale italiana. Scrive Magister: "Sfumata la salita al palazzo già pontificio del Quirinale, per la Comunità di Sant' Egidio restano comunque intatte, se non rafforzate, le chance d'accedere alla cattedra di Pietro. Zuppi e Riccardi hanno fama di voler proseguire il cammino iniziato da Francesco in forma più ordinata e senza gli squilibri caratteriali che danneggiano l'attuale pontificato". Insomma, la battaglia per il Colle ha riportato in auge la Comunità di Sant' Egidio, descritta come una lobby potente e influente a livello italiano e internazionale. Era il il 1968, quando il diciottenne ciellino Andrea Riccardi andò via dal movimento di don Giussani e fondò la Comunità. Il giovane Riccardi studiava al liceo Virgilio di Roma, lo stesso di Zuppi e di David Sassoli, esponente di punta del cattolicesimo democratico morto nel gennaio scorso. Nel 1973, poi, il trasferimento a Sant' Egidio, a Trastevere, da cui prese il nome. Movimento nato sulla spinta del Vaticano II oggi è diffuso in tutto il mondo ed è considerato una sorta di ministero degli Esteri parallelo. Da quasi un ventennio il presidente è Marco Impagliazzo».

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