La Versione di Banfi
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Messaggio di guerra
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Messaggio di guerra

Mosca muove navi e aerei e porta la minaccia nucleare nel Mar Baltico. Avvertimento Usa a Zelensky: la guerra finirà con un negoziato. Auto benzina e diesel fuori legge nel 2035. L'incubo del non voto

In concomitanza con la riunione dei 54 ministri della Difesa Nato del gruppo Ramstein, che si sono incontrati a Bruxelles, è salita la tensione per i movimenti di mezzi militari russi nel Mar Baltico, che hanno in dotazione armi nucleari. Lo ha denunciato la Norvegia, dichiarando la presenza delle cosiddette “armi tattiche” atomiche. I giornali inglesi hanno anche dato la notizia di aerei di Mosca spiegati al confine con l’Ucraina. Intanto sempre ieri la Difesa olandese ha intercettato tre velivoli russi nello spazio militare polacco. L’ostentazione di mezzi militari da parte di Putin sembra un messaggio diretto alla Nato, così la interpreta Anna Zafesova. Un messaggio da mettere in relazione con le promesse di nuove armi (aerei caccia compresi) fatte a Kiev. Allo stesso tempo i giornali americani oggi insistono su un punto: la prossima offensiva ucraina potrebbe essere l’ultimo sforzo sostenuto dagli Usa e dagli altri alleati occidentali. Scrive Alberto Simoni sulla Stampa a questo proposito «da qualche settimana inviati e emissari di Washington stanno dicendo a Zelensky che questo è «il momento chiave e che non si potrà andare avanti in eterno». A Washington nessuno scorge nelle azioni di Putin, spiragli per un dialogo, ma, si ripete, «le guerre finiscono con i negoziati». Volodymyr Zelensky, da parte sua, ha sempre sottolineato che invece finirà con una “vittoria”.

Intanto dal campo bellico le notizie sono poche e drammatiche. A Bakhmut la battaglia è sempre più dura: i russi usano la strategia di una morsa continua e lenta. «Il tritacarne ha bisogno di tempo», dicono quelli della Wagner. Kiev smentisce l’intenzione della ritirata strategica, di cui si è parlato nei giorni scorsi. Senza reazioni alcune invece lo scoop clamoroso di questi giorni: il famoso giornalista investigativo americano Seymour Hersh, sulla stessa piattaforma indipendente di questa Versione, ha scritto un articolo dettagliato che trovate qui, in cui ha attribuito ad un’azione coperta militare degli Usa il sabotaggio al gasdotto fra la Russia e la Germania. Ne parla oggi Fabrizio Tonello sul Manifesto.

È invece drammaticamente calato l’interesse dei giornali sulla tragedia delle popolazioni colpite dal terremoto in Siria e Turchia. Corrado Zunino su Repubblica racconta il nord ovest della Siria ed è impressionante la situazione che ha visto di persona. Il conto totale delle vittime del sisma, arrivato sopra le 40 mila, è ancora ingannevole perché in questa area non ci sono stati soccorsi, né mezzi per liberare gli eventuali sopravvissuti da sotto le macerie. Soccorsi e mezzi bloccati prima dalle sanzioni occidentali, poi sospese, e quindi dallo stesso Assad, che considera queste zone in mano ai ribelli. Vi ricordo che ad Aleppo ci sono le Ong e la solidarietà del volontariato internazionale, a cominciare da AVSI (trovate qui come mandare aiuti), Pro Terra Sancta (altro link qui) e Caritas (qui) che portano aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto e lottano ogni giorno, ogni ora per far arrivare viveri e cose in Siria.

I giornali italiani si occupano molto del voto al Parlamento europeo sulle automobili elettriche. Strasburgo ha deciso a maggioranza che i veicoli a benzina, diesel, ma anche ibridi e alimentati a GPL, saranno fuori legge nel giro di dodici anni. È uno choc per tutta l’industria e mette in grandi difficoltà i costruttori e tutto il settore dell’automotive. Intanto alla riunione dell’Ecofin Giancarlo Giorgetti ha incontrato l’opposizione dei Paesi nordici e della Germania sul nuovo Patto di stabilità.

Giorgia Meloni, ancora influenzata, sta metabolizzando il voto delle regionali e cerca di usarlo per migliorare i rapporti all’interno della coalizione. Matteo Salvini pare sollevato dall’aver evitato una possibile debacle elettorale, mentre Silvio Berlusconi ha dovuto fare pubblica ammenda, con un comunicato, per le frasi pronunciate a ruota libera a proposito di Kiev. Prosegue il dibattito sulla disfatta dell’opposizione, Carlo Calenda e Giuseppe Conte sono i principali sconfitti, ma soprattutto l’attenzione è sul fenomeno dell’astensione che ha avuto proporzioni inaspettate. Ne parlano oggi De Rita su Avvenire e Ricolfi su Repubblica.

Il finale della Versione di oggi è dedicato alla scuola e all’università. Ieri il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha visitato la Piazza dei Mestieri a Torino, ecco un luogo dove merito e solidarietà non si elidono a vicenda.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Camilla, 4 anni a giugno, “che ha voluto un vestito di Carnevale che valorizzasse il lavoro di tante persone, sottolineando l’importanza di tutelare Venezia” come ha scritto il Sindaco pubblicando le foto. Luigi Brugnaro ha voluto ringraziare Camilla che si è travestita da spazzina per il Carnevale.

Fonte: Twitter @LuigiBrugnaro

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il voto del Parlamento europeo sulle auto e la situazione internazionale dominano la scena mediatica. Il Corriere della Sera annuncia: Auto «green», lite con la Ue. Mentre La Repubblica sottolinea la sconfessione del Cav su Putin: Il Ppe scarica Berlusconi. La Stampa rilancia l’allarme internazionale: «Le navi russe nel Baltico». Odessa, minaccia dal mare. Il Sole 24 Ore fa da capofila a chi si occupa della svolta verde di Bruxelles: Auto, stop a diesel e benzina dal 2035. Stretta in arrivo anche per Tir e bus. Avvenire traduce così il voto: Spegnete i motori. Il Messaggero è oggettivo: Benzina e diesel, stop nel 2035. Per Il Giornale è: Auto-demolizione Ue. Per Libero è colpa dei dem: La sinistra ci lascia a piedi. Per il Domani: Berlusconi è diventato il grande problema europeo per Meloni. Mentre Il Fatto mette l’accento sulla rinuncia dell’esecutivo alla parte civile: Il governo assolve B. anche per Puttanopoli. La Verità è gasato per l’azione legale del giornale americano contro la commissaria Ue: Vaccini, il «New York Times» denuncia la Von der Leyen. Mentre il Manifesto torna sulla grande astensione nel voto per Lombardia e Lazio: Psicoanalisi del vuoto.

SALE LA TENSIONE NEL MAR BALTICO

La Norvegia segnala movimenti di Mosca nel Mar Baltico mentre i media inglesi avvertono: “Ci sono caccia russi ai confini dell’Ucraina per un’offensiva dal cielo”. I servizi di Kiev smentiscono la ritirata: “Non lasciamo Bakhmut”. Fabio Tonacci per Repubblica.

«Piccoli movimenti in Ucraina, grandi e inquietanti manovre in Europa. Impegnati come siamo ad analizzare metro per metro il sanguinoso accerchiamento russo a Bakhmut, ormai una città fantasma priva di reale importanza strategica, punteggiata da crateri, macerie fumanti, mozziconi di case e ciononostante divenuta l’ossessione sia di Putin sia di Zelensky, si rischia di perdere di vista il quadro più grande. Dove stanno accadendo cose di una certa gravità, che, messe in fila, mostrano la trama e l’ordito del piano del Cremlino. Nel Mar Baltico, per esempio. Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, la Russia ha ricominciato a dispiegare navi con a bordo armi nucleari tattiche, la stessa tipologia di missili che ha minacciato di lanciare sull’Ucraina. Lo rileva il servizio di intelligence norvegese nel suo rapporto annuale. «La parte fondamentale del potenziale nucleare russo è sui sottomarini e sui vascelli di superficie della Flotta del Nord», scrivono gli 007 di Oslo. «Una minaccia particolarmente seria in diversi scenari operativi in cui i Paesi della Nato potrebbero essere coinvolti». Quando c’era l’Unione Sovietica succedeva spesso che navi con testate nucleari incrociassero nel Baltico, poi una trentina di anni fa Mosca aveva smesso. «Si prevede che la Russia potenzierà il suo arsenale atomico». A leggere le conclusioni del rapporto dell’intelligence scandinava, che non esclude neanche l’ipotesi di un’escalation che possa coinvolgere Stati Uniti, Nato e Norvegia, sembra di essere tornati indietro nel tempo. Capita poi che nel giorno della riunione a Bruxelles degli alleati Nato, dove è andato il ministro della Difesa ucraino Oleskii Reznikov per chiedere caccia e tempi più brevi nella consegna dei carri armati, due F-35 olandesi si alzino in volo per impedire a una squadriglia di aerei militari russi (un Ilyushin Il-20 da ricognizione e spionaggio più due caccia Sukhoi 27 Flanker) di violare lo spazio aereo della Polonia. E capita anche che la Moldavia, in piena crisi di nervi dopo che la presidente Maia Sandu ha denunciato la possibilità di un golpe su commissione di Putin, sia costretta a chiudere lo spazio aereo per un paio d’ore a causa dell’avvistamento di un drone: episodio tuttora avvolto nel mistero perché non è stato chiarito se si tratti di un pallone spia come quelli abbattuti negli Stati Uniti né se sia davvero di fabbricazione russa. A complicare ancora di più una giornata già assai complicata, le rivelazioni del Financial Times: basandosi su fonti di intelligence americana e foto satellitari, scrive che i comandi militari russi stanno ammassando aerei ed elicotteri da combattimento nelle basi vicine al confine settentrionale dell’Ucraina, presumibilmente in vista della temuta grande offensiva. Il Pentagono non conferma l’ammassamento di velivoli, ma si può ben comprendere l’ansia generata a Kiev dalle rivelazioni del quotidiano britannico. Anche perché, se è vero che gli ufficiali ucraini professano ottimismo su Bakhmut nonostante la città sia quasi tagliata fuori dai rifornimenti (circondata su tre lati, è rimasta un’unica strada accessibile), l’idea che l’armata russa riesca ad avere il dominio del cielo li terrorizza. Finora non c’è riuscita perché i piloti di Mosca sono abituati a scenari bellici tipo quello siriano e le tattiche di volo si sono dimostrate vulnerabili sul teatro ucraino. Ma adesso le hanno aggiornate. «La Russia ha 350 mila soldati nel nostro Paese, più di 20 mila li sta usando per prendere Bakhmut», spiega a Repubblica Andrii Yusov, portavoce del Gur, i servizi segreti militari di Kiev. C’è chi sostiene, anche tra gli stessi comandanti di brigata impiegati nel Donbass, che sia inutile continuare a sacrificare migliaia di uomini e mezzi per Bakhmut e che sia più saggio organizzare la ritirata strategica. «In guerra si può optare anche per questa soluzione, ma al momento non c’è il rischio di rimanere circondati», ribatte Yusov. «Continueremo a difendere la città. Putin ha chiesto ai suoi di conquistare il Donbass entro marzo, perché teme il momento in cui tutte le armi occidentali e i soldati ucraini in addestramento all’estero arriveranno al fronte. La grande offensiva? Non ci spaventa, perché è un anno che la stiamo vivendo e respingendo».

DA WASHINGTON UN AVVERTIMENTO A ZELENSKY

Il gruppo Ramstein della Nato vede vicina la svolta della guerra ma per gli Usa il sostegno a Kiev “non potrà durare in eterno”. L'ultimo pacchetto di armi dovrà essere decisivo ma poi “le guerre finiscono sempre con i negoziati”. Alberto Simoni per La Stampa.

«Dietro i discorsi sulla vittoria e le frasi a sostegno all'Ucraina "as long as it takes", fin quando è necessario, l'America prova a serrare le fila con gli alleati e a stringere i tempi per sovvertire l'inerzia del conflitto ed evitare uno stallo prolungato che avrebbe – agli occhi dei Washington – un duplice svantaggio: quello di trovarsi coinvolti, pur se da "esterni", in un conflitto senza sbocchi definitivi; e quello di dover nel frattempo gestire, sul fronte interno, un braccio di ferro con un Congresso non più così allineato sulla linea Biden, dopo il passaggio della Camera sotto il controllo dei repubblicani.
Il coordinatore del Consiglio per la Sicurezza nazionale, John Kirby, ha spiegato che sono sempre gli ucraini a decidere cosa colpire, come e quando e dove attaccare i russi, «noi non decidiamo per loro», ma fra le pieghe dell'appoggio statunitense alle forze di Kiev si sta facendo largo il fattore temporale e la necessità di imprimere una svolta. Da un lato migliorando la supply chain per la consegna delle munizioni; dall'altra adattando la tattica. L'America non ritiene, a differenza di Zelensky, così importante la battaglia di Bakhmut. «Non ha un impatto strategico», ha detto Kirby confermando di fatto la posizione che esponenti del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la Sicurezza nazionale erano andati a spiegare a Zelensky quindici giorni fa. Più abrasivamente una fonte interna all'Amministrazione ha detto ai media Usa che Bakhmut «è solo un puntino su una mappa». Da Bruxelles, il segretario della Difesa Lloyd Austin, ieri ha sottolineato di aspettarsi un'offensiva ucraina in primavera e che ora «bisogna creare le condizioni per stabilire una situazione di vantaggio sul terreno». Un analista vicino all'Amministrazione Biden e coinvolto nelle valutazioni sulla strategia post conflitto, ha confidato a La Stampa che fra Pentagono e il Dipartimento di Stato sta prendendo sempre più forza la convinzione che «ci si trovi dinanzi a un punto di flessione», l'espressione prediletta da Biden, e che «l'ultimo pacchetto di aiuti militari deve essere quello decisivo per imprimere una direzione positiva al conflitto». Il capo degli Stati Maggiori Riuniti, Mark Milley, ieri da Bruxelles ha detto che Putin, un anno dopo l'invasione, ha perso «strategicamente, tatticamente e operativamente». Ma l'Ucraina non ha prevalso, è quanto si fa comunque notare. Quello che le fonti fanno sapere però è che da qualche settimana inviati e emissari di Washington stanno dicendo a Zelensky che questo è «il momento chiave e che non si potrà andare avanti in eterno». A Washington nessuno scorge nelle azioni di Putin, spiragli per un dialogo, ma, si ripete, «le guerre finiscono con i negoziati». La sfida è collocare Zelensky in posizione di forza per quando la finestra si socchiuderà. Il sostegno americano, ha illustrato Kirby per precisare che non vi sono tentennamenti dentro l'Amministrazione, passa da 31 disposizioni di invio di armi e dalla stretta collaborazione con i G7. E quindi la prova della determinazione americana «è tangibile e nessuno può metterla in discussione». Ma è un ragionamento che affonda le radici nel 2022 e non coglie appieno gli umori a Capitol Hill e sul campo. Tanto che un alto funzionario dell'Amministrazione ha detto al Washington Post che «continueremo a ribadire (a Zelensky, ndr) che non possiamo fare tutto per sempre». Ovvero il flusso di soldi e armi non è infinito. C'è un limite legato al cambio degli equilibri in Congresso. I cordoni della borsa si stringeranno, avere fondi dopo l'estate sarà più complesso. I 45 miliardi di dollari stanziati e gli ulteriori dieci che l'Amministrazione ha chiesto in più, potrebbero essere non gli ultimi per la causa ucraina, ma quelli "meno sudati" da ottenere sì. Dopo l'estate con il nuovo budget, il crescente timore verso la Cina fra palloni spia e manovre a Taiwan e le primarie repubblicane in vista, molti deputati avranno più a cuore i posti di lavoro nei loro distretti, che la pianura ucraina infestata di mine, artiglieria russa e mercenari. Una nuova tranche di armi potrebbe essere annunciata la prossima settimana. Combinata con i quasi 2 miliardi stanziati poche settimane fa, diventerà la dotazione, con cui gli Usa confidano che Kiev saprà posizionarsi al meglio sul terreno di battaglia. Non ci saranno gli F-16, a Bruxelles Austin non ha nemmeno toccato il tema nonostante dagli ucraini arrivino richieste indirizzate alle sensibili orecchie degli olandesi, partner nel sistema Patriot di Washington. E non ci saranno missili Atacm, quelli a lunga gittata. Politico ha scritto che il Pentagono è contrario poiché «le scorte non sono sufficienti». E questo solleva un'altra questione, quella dell'industria bellica. Il dossier è stato discusso al summit della Nato, perché «è importante – aveva spiegato in un briefing Julianne Smith, ambasciatrice Usa presso l'Alleanza – coordinarsi e rafforzare la produzione». Nel caso lo stallo diventasse la nuova normalità».

L’INTIMIDAZIONE DI MOSCA ALLA NATO

L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa: Vladimir Putin ci minaccia con i missili nucleari per mandare un messaggio alla Nato.

«Navi militari e sottomarini atomici russi che montano missili nucleari schierati nelle acque del Baltico, per la prima volta dopo la fine dell'Unione Sovietica. Bombardieri strategici Tupolev-95MS, i giganti a elica che per tutta la durata della guerra fredda hanno pattugliato i cieli in attesa di sferrare l'attacco nucleare, che sorvolano il mare di Bering in direzione del confine statunitense. Oggetti volanti non meglio identificati che paralizzano i cieli della Moldova. Una grande quantità di caccia, bombardieri ed elicotteri viene ammassata ai confini dell'Ucraina, in attesa di sostenere dall'alto l'avanzata delle truppe di terra. Dai report dell'intelligence occidentale, soprattutto dei Paesi del Nord Europa, sembra che la Russia non stia soltanto preparando quella nuova grande offensiva russa che Mosca promette e Kiev teme, ma che Vladimir Putin abbia anche lanciato una serie di segnali di intimidazione all'Occidente. Mentre gli alleati occidentali stanno discutendo i nuovi aiuti militari all'Ucraina per la prossima fase della guerra, i propagandisti dei talk show televisivi russi hanno ricominciato a esercitarsi in varie ipotesi di utilizzo di armi nucleari contro Londra, Berlino e Washington, e il comando russo ha rotto alcuni tabù trentennali, come quello di non montare missili con testata nucleare sulle navi della sua flotta. Uno sfoggio di forza intimidatorio, un messaggio che chiaramente il Cremlino vuole far arrivare sul tavolo di Ramstein. Mentre molti esperti militari sostengono che in realtà la nuova offensiva russa sia già iniziata, senza aspettare la data simbolica dell'anniversario dell'invasione, con il fiume umano scagliato contro Bakhmut, la guerra si sta giocando non solo nelle trincee del Donbass, ma anche sui tavoli negoziali, e nei media. Il ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov sventola davanti alle telecamere, ridendo, un fazzoletto con la sagoma di un caccia, dopo che soltanto un mese fa il tormentone dei carri armati che alcuni partner europei esitavano a mandare si è risolto, offrendo a Volodymyr Zelensky i mezzi corazzati per la sua controffensiva altrettanto annunciata. È una guerra di nervi e di scommesse, e i sorvoli e i pattugliamenti minacciosi ordinati dal Cremlino sono probabilmente anche una risposta ai filmati sui Leopard, i Challenger e i Bradley che vengono caricati su treni e aerei, in viaggio verso l'Ucraina. L'anniversario dell'inizio dell'invasione russa, e il tante volte rimandato discorso annuale che Putin deve pronunciare pochi giorni prima, aumenta le aspettative di un Cremlino che vuole rilanciare, giocarsi il tutto per tutto, incurante di quella "sconfitta strategica, operazionale e tattica" diagnosticata dal capo dello Stato Maggiore Usa, Mark Milley. Minacciare la distruzione dell'Occidente non è soltanto qualcosa che aumenta l'autostima del putinismo, è un ricatto che non può venire derubricato a pressione psicologica. Ma è anche un'arma che punta a far dimenticare che per quanto la Russia sia spendendo un terzo delle sue uscite in guerra, il suo budget militare è un decimo di quello americano. E che ogni giro con i bombardieri strategici nel Pacifico o di un sottomarino armato di missili nucleari nell'Atlantico non fa che aumentare la disponibilità dell'Occidente a mandare armi e aiuti per fronteggiare una minaccia che non si limita ai confini ucraini».

LO SCOOP IGNORATO: GLI USA HANNO BOMBARDATO LA GERMANIA

Fabrizio Tonello per il Manifesto torna sul clamoroso scoop di Seymour Hersh, che ha accusato gli Usa di aver sabotato il gasdotto fra Germania e Russia.

«È passata una settimana da quando Seymour Hersh ha pubblicato un articolo dal titolo assolutamente fattuale: “Come l’America ha eliminato il gasdotto Nord Stream”. Per essere più precisi: come un gruppo di sommozzatori della marina degli Stati Uniti, con la collaborazione della Norvegia, ha collocato gli esplosivi che il 26 settembre scorso hanno distrutto il gasdotto russo-tedesco sul fondo del mar Baltico. L’amministrazione Biden ha colpito l’infrastruttura di un paese non solo amico ma membro della Nato (la Germania) il cui scopo era di rifornirsi di energia da un paese con cui, tecnicamente, gli Stati Uniti non sono in guerra (la Russia). Traduzione politica: si tratta dello scoop del secolo. Oggi, nel 2023, gli Stati Uniti hanno bombardato un pezzo di Germania. Nessuno però ne parla. Il silenzio della stampa americana è assordante. Il pretesto, naturalmente, sono le smentite ufficiali: un portavoce della Casa Bianca, ha dichiarato che «queste affermazioni sono false e completamente inventate». Tammy Thorp, un portavoce della Central Intelligence Agency, ha ugualmente risposto: «Completamente e totalmente falso». Data l’enormità della cosa, un po’più di zelo giornalistico sarebbe forse opportuno... All’epoca delle esplosioni i giornali americani, seguiti a ruota da quelli europei, avevano definito l’attentato “un mistero”, oppure un “autosabotaggio” compiuto dalla Russia. Oggi l’ottantacinquenne Hersh commenta che, da quando ha iniziato il suo mestiere negli anni Sessanta, le autorità hanno sempre detto che «i miei articoli erano sbagliati, inventati, scandalosi». È lui stesso a raccontare sulla piattaforma Substack: «Sono stato un freelance per gran parte della mia carriera. Nel 1969 ho raccontato la storia di un’unità di soldati americani in Vietnam che aveva commesso un orribile crimine di guerra. Avevano ricevuto l'ordine di attaccare un normale villaggio di contadini dove, come sapevano alcuni ufficiali, non avrebbero trovato opposizione, e gli era stato detto di uccidere a vista. I ragazzi uccisero, violentarono e mutilarono per ore, senza trovare alcun nemico.
Il crimine fu insabbiato dai vertici militari per diciotto mesi, finché non lo scoprii. Per quel lavoro vinsi un premio Pulitzer ma portarlo a conoscenza del pubblico americano non fu facile. (...) Fu rifiutato da Life e da Look. Quando il Washington Post finalmente lo pubblicò, era disseminato di smentite del Pentagono». Invece era tutto vero e anni dopo, il principale responsabile, il tenente William Calley fu condannato all’ergastolo dalla corte marziale ma immediatamente graziato dal presidente Nixon. Dal caso My Lai sono passati 54 anni ma Hersh non si è certo riposato: si è occupato del colpo di stato in Cile del 1971, della politica estera di Kissinger (The Price of Power, 1983), del mito di Kennedy (The Dark Side of Camelot, 1997) e delle torture di Abu Ghraib in Iraq nel 2004 e di come Osama bin Laden fu ucciso in Pakistan nel 2011. Benché sia stato talvolta smentito o contestato, per esempio sull’uso di gas in Siria, la verità è che le indagini successive gli hanno quasi sempre dato ragione, come provano i cinque premi George Polk conferitigli dalla scuola di giornalismo di Long Island, un record finora mai uguagliato. Anche nel caso del Nord Stream le sue fonti sono anonime, ma la ricostruzione degli avvenimenti è coerente e soprattutto implicitamente confermata da prese di posizione ufficiali: più volte il segretario di Stato Antony Blinken e, in una conferenza stampa il 9 febbraio 2022, lo stesso presidente Joe Biden, avevano affermato che consideravano il Nord Stream una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti e che, in un modo o nell’altro, sarebbe stato fermato. Blinken, pochi giorni dopo la distruzione del gasdotto disse che si trattava di una «meravigliosa opportunità per mettere fine una volta per sempre alla dipendenza dall’energia russa». Victoria Nuland, un alto funzionario del Dipartimento di Stato, nel corso di un’audizione al Senato, disse: «Sono molto soddisfatta, e credo lo sia anche l’amministrazione, di sapere che Nord Stream 2 è adesso un rottame metallico in fondo al mare».
Hersh ha lavorato per anni al New York Times ma scrive «oggi non sarei il benvenuto». In effetti il prestigioso quotidiano in questi giorni ha dedicato decine di articoli al caso della mongolfiera cinese abbattuta sull’Atlantico dopo aver attraversato il Canada e gli Stati Uniti, ha riferito puntualmente di altri tre Ufo distrutti dall’aviazione negli ultimi cinque giorni, ha dato ampio spazio al Super Bowl vinto dai Kansas City Chiefs durante il quale Rihanna ha annunciato la sua seconda gravidanza. Il giornale si è ugualmente occupato (come il manifesto) dei corsi di cultura afroamericana cancellati all’università della Florida, ma anche di come ci si può preparare psicologicamente a un possibile licenziamento, dei progetti di mini-case per affrontare la crisi degli alloggi negli Stati Uniti, degli auguri per San Valentino, che era ieri, oltre a invitare i suoi lettori a fare sesso con maggiore frequenza e fare attenzione alle uova che mangiano. Del Nord Stream, neanche una riga: sul motore di ricerca del giornale l’ultimo riferimento a Seymour Hersh risale al 2015».

L’AUSTRIA CONTINUA A COMPRARE IL GAS RUSSO

Non avendo sbocchi sul mare, Vienna non ha l’opzione del GNL ed ha impegni con Mosca fino al 2030. Come l’Eni. Sergio Giraldo per La Verità.

«Con il prezzo del gas che scende quasi ogni giorno sembrano passati i momenti peggiori per il sistema energetico europeo. L’inverno mite ha consentito di utilizzare al minimo gli stoccaggi e i prezzi altissimi hanno modificato la struttura della domanda industriale e termoelettrica, che è in calo in tutta Europa. L’emergenza sta dunque lentamente rientrando, in apparenza. Nonostante la guerra in corso, un po’ di gas russo continua ad arrivare in Europa attraverso due direttrici. La prima è quella turca del Turkstream, che porta il gas russo in Bulgaria, con volumi attorno ai 30 milioni di metri cubi al giorno. La seconda è quella che passa per l’Ucraina ed entra in Austria dopo aver attraversato la Slovacchia, con volumi tra i 20 e i 25 milioni di metri cubi al giorno. Proprio l’Austria e il suo bilancio fisico del gas sono in queste settimane all’attenzione del mercato. Ma con il mese di dicembre 2022, il peso dell’import dalla Russia è tornato a crescere fino a superare l’80% delle importazioni totali. In pratica, l’incidenza del gas russo sul totale delle importazioni austriache è tornata ai livelli dello scorso anno, prima della guerra. Questo perché è diminuita oltre le attese la domanda, perché vengono usati gli stoccaggi e perché da Germania e Italia arriva meno gas, ma anche perché, semplicemente, i contratti di importazione di lungo termine con la Russia sono ancora in vigore. La principale utility austriaca del gas, Omv, ha infatti contratti con Gazprom che scadono nel 2030 e che sono ancora validi. Non avendo sbocchi sul mare, l’opzione Lng non si pone per l’Austria, che nei mesi estivi ha importato gas soprattutto dalla Germania per riempire i propri stoccaggi ed ha aggiunto discreti quantitativi anche dall’Italia durante l’autunno.
«Omv ha contratti di lunga data con la Federazione russa», ha detto la settimana scorsa il cancelliere austriaco Karl Nehammer. «Se i russi continuano a consegnare, non posso vietare a Omv di adempiere agli obblighi contrattuali», ha aggiunto. L’utility, partecipata per il 31,5% dallo Stato, dovrebbe comunque pagare per un gas che non ritira o rispondere dei danni come detta il contratto, causando un danno rilevante all’erario.
Omv non è l’unica compagnia in Europa a trovarsi in questa condizione: anche Eni ha impegni di acquistare gas dalla Russia fino al 2035. Infatti, la compagnia italiana sta valutando diversi scenari in vista del previsto stop totale agli acquisti di gas russo dal 2025, per capire quale può essere l’impatto di una uscita dai contratti. Quasi certamente, anche Omv sta facendo altrettanto. Tuttavia, il quadro giuridico è abbastanza complicato. Non c’è infatti un embargo sul gas russo sancito da una autorità statale o dall’Unione europea, né ci sono impedimenti tecnici o fisici sui gasdotti, come invece è accaduto alla Germania sulle due condotte del Nord Stream. Mancano dunque condizioni esterne oggettive cui appellarsi per sospendere o terminare i contratti. Questi accordi di lungo termine hanno quantità flessibili e prevedono un minimo che in questo ultimo anno, a quanto sembra, è stato rispettato per Austria e Italia. In ogni caso, c’è una clausola cosiddetta di take-or-pay che grava su una parte dei quantitativi, per cui se il gas non viene prelevato per fatto del compratore deve essere comunque pagato. Intanto, il ministro austriaco dell’Energia Leonore Gewessler continua a chiedere ai cittadini di consumare il meno possibile: «Non siamo ancora fuori pericolo» ha affermato il ministro, spiegando che il risparmio di gas lascerebbe depositi meno vuoti in vista del prossimo inverno. Quello dei contratti a lungo termine con la Russia è un tema che è stato tralasciato dalle autorità europee. Con il lancio, nella primavera scorsa, del programma REPowerEU, nella smania di tagliare le forniture russe, ci si è concentrati sulle alternative. Ad esempio, Omv ha una partecipazione in Russia nel giacimento di gas di Yuzhno-Russkoye, che detiene tuttora. La quota al momento è congelata e non dà diritto a dividendi, ma poiché il giacimento di gas è di rilevanza strategica per la Russia è molto difficile capire come uscirne. Il fatto che il cordone ombelicale con la Russia non sia del tutto reciso regge uno scenario che sarebbe scomodo per tutta l’Europa. C’è infatti il rischio, anche se remoto, di un possibile rilancio delle forniture di gas russo verso l’Europa. Pur non potendo più contare sui due gasdotti Nord Stream (a meno di clamorose riparazioni), una volta finita la guerra il corridoio ucraino può ben essere utilizzato al massimo delle sue potenzialità (oggi lavora attorno al 20% della capacità). Anche il gasdotto Yamal, che attraversa la Polonia e arriva in Germania, oggi chiuso nel transito da est, potrebbe essere utilizzato nel caso in cui una distensione militare provocasse una riapertura dei flussi di gas dalla Russia verso l’Europa. Paradossalmente, è un esito che l’Europa stessa non si augura. Un ritorno in grande stile dell’offerta di gas russo provocherebbe un crollo dei prezzi, con buona parte degli investimenti in corso per rigassificatori e nuovi gasdotti che andrebbe immediatamente in perdita. Non solo, ma verrebbe meno quell’elemento di urgenza che spinge verso lo sviluppo in tutta fretta delle energie rinnovabili, provocando anche in quel caso delle perdite per parecchi investitori. Il tema dei contratti di lungo termine ancora in essere con la Russia, dunque, è tutto politico e prima viene affrontato, meglio sarà per tutti».

IL DOPO VOTO, MELONI RIORDINA LA COALIZIONE

Grazie al successo elettorale, Giorgia Meloni vuole rimettere ordine nella coalizione e in FdI distinguere le responsabilità di governo da quelle di partito.  Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.

«Soddisfatta com’è per il risultato delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, Giorgia Meloni non sembra avere troppa fretta di toccare gli equilibri tra i partiti della coalizione. Il centrodestra ha vinto la prima importante sfida dopo le Politiche del 25 settembre, il governo ha superato un test elettorale molto atteso e la presidente del Consiglio blinda l’impostazione dei primi quattro mesi: «Il governo è ancora più forte, io penso che l’assetto della maggioranza non abbia bisogno di alcuna modifica». Il che non vuol dire che niente debba cambiare, come in genere avviene dopo una prova elettorale importante, ma che qualunque aggiustamento verrà fatto con gradualità e prudenza. Avanti a destra, senza dimenticarsi di volgere lo sguardo al centro. La scelta di Palazzo Chigi di revocare la costituzione di parte civile nel processo Ruby Ter è stata letta in Parlamento come un modo di andare incontro a Silvio Berlusconi, nella speranza che moderi le esternazioni ed eviti di innescare altri incidenti diplomatici. Ma nell’entourage dell’ex premier sono convinti che la coalizione resterà «plurale», perché Forza Italia ha tenuto i suoi voti «con risultati inattesi» e nessuno, tantomeno la premier, chiederà al fondatore di fare un passo indietro. «Ne ho già fatti tanti — si è sfogato con i suoi il padre nobile del centrodestra —. Il voto ha confermato gli equilibri della maggioranza, per cui resteremo centrali e non saremo mai subalterni». Per dirla con Maurizio Gasparri, con l’8,5% nel Lazio e il 7,2% in Lombardia Forza Italia resta «decisiva per l’equilibrio e la vittoria del centrodestra». Lunedì sera, nel chiamare la premier per i complimenti di rito, Berlusconi ha voluto chiarire lo scivolone di domenica. Le critiche a Zelensky sono «opinioni personali» ha detto il leader azzurro e ha promesso che FI continuerà a sostenere l’Ucraina. Concetti che ieri, dopo la presa di distanza del Ppe («respingiamo le frasi su Kiev»), Berlusconi è stato costretto a scolpire in una nota: «Sono sempre stato e sto dalla parte dell’Ucraina e della pace. La mia speranza è che si possa trovare presto una soluzione diplomatica a questa guerra molto pericolosa per tutti». Lo strappo dell’alleato sembrava aver messo a rischio la visita della presidente nella capitale del Paese aggredito da Putin, ma ora Meloni si dice sicura che la missione si farà nei tempi previsti: «Certo che vado a Kiev. La linea del governo non cambia, soprattutto in politica estera». Qualcosa però sta già cambiando in politica interna, da prima delle Regionali. La premier intende tenere sempre più separato il governo dal partito, un doppio binario che si è visto nei giorni delle polemiche furibonde sul caso Cospito. «I toni alti sui banchi di Camera e Senato servono a far crescere il consenso per FdI, senza danneggiare il governo», è la lettura della ministra Daniela Santanché. Matteo Salvini, sollevato per il «bellissimo risultato» che ha visto la Lega «recuperare il 10%», assicura che «la stima e l’impegno ad andare avanti è reciproco con Giorgia e Silvio». Berlusconi spinge per un vertice di maggioranza con Meloni, Salvini e Lupi «per decidere il programma di lavoro» e la formula coincide con il «cronoprogramma» della premier: riforma fiscale, rivoluzione del fisco, separazione delle carriere.
Le opposizioni sono ancora più divise. L’opa del M5S sul Pd è fallita e il Terzo polo ha fatto flop, tanto che Matteo Renzi ammette un risultato «peggiore delle aspettative». I dem si affermano come prima forza di minoranza, eppure il congresso è vicino e la rissa verbale è inevitabile
. «No all’usato sicuro — attacca Elly Schlein —. Il Pd deve essere un partito di sinistra». Stefano Bonaccini respinge l’assalto: «Ho letto che tutti i migliori stanno con Elly, solo che quei migliori ci hanno portato a tutte le sconfitte». Quanto a Conte e Calenda, l’aspirante segretario ricorda che «senza il Pd non vanno da nessuna parte» e riapre la strada al campo largo di Letta e Zingaretti».

I FLUSSI: MORATTI VOTATA DAL CENTRO DESTRA

Chi ha premiato l’astensionismo? Sicuramente il centro destra ma secondo gli analisti del voto la scarsa competitività degli sfidanti ha influito su tutti. Antonio Fraschilla per Repubblica.

«L’astensionismo ha premiato il centrodestra e punito davvero di più il centrosinistra? Sondaggisti ed esperti di flussi elettorali non si sbilanciano di fronte a questa domanda anche se sì, la tendenza sembra proprio quella di attribuire il maggior danno dal non voto ai dem e alla sinistra. Secondo l’analisi Swg l’elettorato di centrodestra in Lombardia tutto sommato è andato a votare premiando la candidatura di Attilio Fontana: il governatore uscente non ha attratto voti da altri partiti o movimenti «ma questo è bastato per fargli ottenere la vittoria», mentre il dem Pierfrancesco Majorino pur ottenendo consensi anche da un pezzo di elettorato moderato e del Terzo Polo non ce l’ha fatta: segno che in quel quasi 60 per cento di astensionismo che si è registrato in Lombardia molti erano potenziali elettori dem, almeno in provincia. Nel Lazio, secondo Swg, l’elettorato di Fratelli d’Italia è andato alle urne, tanto che quasi due terzi dei consensi a Francesco Rocca arrivano dal partito di Giorgia Meloni. Il candidato dem Alessio D’Amato invece ha attratto anche voti da elettori di altri partiti alle ultime Politiche, ma evidentemente nel suo caso è venuto meno il sostegno forte in provincia soprattutto degli elettori del Partito democratico o comunque del centrosinistra. Secondo il professore Salvatore Vassallo dell’Istituto Cattaneo il tema dell’astensione è trasversale un po’ a tutti i partiti ed è difficile imputarlo a questo o quello schieramento: «È già capitato soprattutto nelle aree settentrionali che in occasioni di elezioni regionali non accoppiate ad altre consultazioni l’affluenza sia stata molto bassa — dice Vassallo — pensiamo al poco più del 30 per cento degli elettori andati alle urne in Emilia Romagna nella prima elezione di Stefano Bonaccini. Una cosa simile è accaduta adesso in Lombardia e nel Lazio: quando ci sono consultazioni che vengono percepite dall’elettorato dal risultato scontato e quindi c’è una scarsa motivazione l’astensionismo cresce e questi fenomeni ricapiteranno». «Il centrodestra canta vittoria, ma oggi non ci sono più elettori di FdI, Lega o Fi, ce ne sono di meno rispetto alle Politiche», conclude il politologo Roberto D’Alimonte, professore del dipartimento di Scienze politiche della Luiss, che aggiunge: «I dati ci diranno se queste percentuali sono state influenzate da un astensionismo asimmetrico, cioè un astensionismo più alto tra gli elettori di centrosinistra, solo allora potremo valutare meglio la vittoria del centrodestra. Per ora è solo un’ipotesi ma è plausibile che una parte degli elettori del centrosinistra siano rimasti a casa a causa delle divisioni del loro campo che hanno impedito l’accordo su una candidatura competitiva».

I CATTOLICI E IL NON VOTO SECONDO DE RITA

Sull’astensionismo e sulla mancata presenza dei cattolici, Angelo Picariello intervista Giuseppe De Rita, fondatore del Censis per Avvenire.

«Anche fra i cattolici si è affermata l’idea che chi lascia l’impegno sociale per andare a fare politica va a fare un’altra cosa, che poco li riguarda». Giuseppe De Rita dà la sua lettura sul tema del momento, la disaffezione alle urne, un fenomeno che tocca pesantemente anche il mondo cattolico, solitamente connotato da un alto senso di civismo e partecipazione. «I cattolici spiega il fondatore del Censis - sono capaci di grande aggregazione sul versante della coesione sociale, ma la politica è un’altra cosa, è ricerca del consenso, ha un suo linguaggio, richiede tempo e volontà di sporcarsi le mani. Chi pensa da un giorno all’altro di poter tradurre in termini di consenso le aggregazioni costruite intorno alla coesione sociale rischia di restare solo, di non ritrovarsi al fianco nemmeno i suoi amici».

Creare consenso intorno alla propria visione del mondo non è un problema che si pongono anche i cattolici?
Il merito dei cattolici è quello di costruire coesione sociale nella vita concreta, capacità di ricucire, di lottare contro povertà ed emarginazione. Ma normalmente non lo si considera parte di un progetto politico. Chi, per dire, fa il catechista a San Roberto Bellarmino magari non si pone il problema. Il problema del consenso se lo pone chi ha fatto o sceglie di fare politica, ma per la maggior parte non è un tema di particolare interesse. Sono rimasto colpito dalla folla che c’era a San Giovanni per i 55 anni di Sant’Egidio. Mi sono ricordato della folla che c’era, sempre a San Giovanni, per i funerali di monsignor Di Liegro. Ecco, Di Liegro era uno che sapeva far politica: per difendere il suo impegno per i poveri aveva la capacità di affrontare il Pci e anche la Dc e di vincere le sue battaglie.

Ma i leader politici che vanno per la maggiore si considerano interlocutori credibili dei valori e delle istanze cattoliche.
Chi si dimostra in grado di intercettare il consenso merita sempre rispetto e considerazione in democrazia. Ma questo è un tema diverso. La questione sui cui ci stavamo interrogando è il rapporto fra impegno sociale e impegno politico, e proprio questi leader che si dimostrano più in grado di ottenere consensi insegnano che fare politica è un’altra cosa, ha una sua tecnicalità, non ci si può illudere che fare aggregazione con i migranti o con le mense per i poveri possa diventare automaticamente fattore di consenso politico. Per fare politica bisogna sapersi inserire nelle rivalità, più che nella coesione, nel mercato sdrucciolevole delle opinioni.

Vince chi cavalca meglio le opinioni prevalenti?
Non è vero nemmeno questo. Pensare di fare consenso cavalcando una opinione, una rivalità, è una illusione che dura tre giorni, è un po’ l’errore che ha commesso Renzi da “rottamatore”. I partiti personali non reggono. Serve una struttura, una organizzazione, un gruppo di lavoro con delle teste pensanti in ogni settore, un radicamento nel territorio. Non a caso a questo voto hanno retto le organizzazioni politiche che, con tutti i limiti, conservano una loro presenza ed organizzazione: Fratelli d’Italia, Lega e Pd.

Per i cattolici tornare a fare politica è un dovere civico?
Non dico questo. Io ho fatto per una vita coesione sociale e non mi sognerei mai di fare politica. Proprio perché so che fare consenso è una cosa diversa. Chi vive serenamente questo suo impegno può ritenersi soddisfatto. Ma chi si fa venire la voglia di fare politica, deve sapere che i consensi si fanno in altro modo, sporcandosi le mani, confrontandosi anche con il mondo “pop”, con la Movida, con Sanremo.

Come ha visto la scelta di Mattarella di partecipare alla kermesse canora?
Istintivamente non l’avevo compresa, ma alla luce del ragionamento che facevo prima l’ho trovata alla fine coerente e anche condivisibile. Chi vuole fare politica deve misurarsi con i problemi del consenso, anche se, come cattolico, ha una storia di impegno tutta contrassegnata dalla coesione sociale. Chi fa politica deve occuparsi di tutto quel che fa opinione, sui giornali, sui social.

Che cosa consiglierebbe a chi oggi, da cattolico, voglia fare la nobile scelta di impegnarsi in politica?

Di prendersi del tempo e di non agire da solo. Serve un gruppo di lavoro e non ci si può illudere di ottenere risultati subito. Non va bene la tendenza dei vari Conte, Moratti, Calenda, a presentarsi da un giorno all’altro e dire: «Eccomi, sono qua!». Non si fa così. La Dc non è nata improvvisamente con il voto del 18 aprile 1948. Nel giugno del 1943 Adriano Ossicini incontra Giuseppe Spataro e gli dice di prepararsi, che bisognerà dar vita a un partito, e gli propone di incontrare Alcide De Gasperi. I tempi sono maturati dopo, ma quel progetto politico ha avuto successo perché c’è stata una squadra a prepararlo, che ha saputo attendere, mentre troppo spesso si vede in giro solo impazienza e ambizione personale.

Ma questo progetto dovrebbe puntare a mettersi in proprio o dovrebbe far uso degli attuali contenitori politici?

Mi incuriosisce l’idea di un nuovo contenitore promosso da cattolici. Lo auspicherei, ma confesso che ci credo poco. Chiunque vuole impegnarsi, in ogni caso, deve capire che è un processo lungo. Non si vince senza fatica e non si vince alle prossime elezioni».

L’ASTENSIONISMO È UNA FORMA DI DELEGA

Per Luca Ricolfi, che ne scrive su Repubblica, il non voto ha radici culturali profonde, che riguardano il modo con cui si interpreta la vita sociale.

«Raramente una consultazione elettorale ha fornito risultati tanto chiari: netto successo della destra, tenuta della Lega, sconfitta della sinistra, evanescenza del Terzo polo. Ma altrettanto raramente il risultato elettorale è stato così fragile: con una partecipazione del 40%, in due Regioni che includono Roma e Milano, il dato sociologico dominante diventa il non-voto. Sulle ragioni della disaffezione, molto potranno dire i sondaggi che le esploreranno in profondità, analizzandone i risvolti psicologici e politici. Qui vorrei però formulare una riflessione di tipo storico, visto che il calo della partecipazione è in atto da decenni, non solo in Italia. La mia impressione è che, se vogliamo comprenderne l’origine profonda, dobbiamo metterlo in relazione a fenomeni più generali, anch’essi in atto da tempo. Detto altrimenti, il declino della partecipazione è solo uno dei modi in cui si manifesta un cambiamento culturale molto più ampio, che ha radicalmente trasformato la società italiana dagli anni ’50 a oggi. Volendo andare subito all’osso, la metterei così: è progressivamente sparita la convinzione, profondamente radicata almeno fino agli anni ’70, che il progresso sociale e individuale ha costi elevati. La generazione dei miei genitori considerava ovvio che le aspirazioni di ascesa sociale richiedessero duro lavoro, risparmi, sacrifici, differimento della gratificazione. La mia generazione era perfettamente consapevole che lo studio e l’impegno scolastico fossero prerequisiti necessari per la propria autorealizzazione. Ed entrambe non mettevano in dubbio che il progresso sociale, fatto di migliori condizioni di vita per gli oppressi e conquiste di libertà per tutti, richiedesse la fatica della lotta politica e sindacale, la mobilitazione dei movimenti collettivi, e naturalmente la partecipazione al voto.
Ebbene oggi tutto questo è venuto meno. Poco per volta, all’idea che qualsiasi meta comporti sacrifici e impegno, è subentrata l’idea di essere titolari di diritti, che è compito di altri, Stato e istituzioni innanzitutto, rendere esigibili. Questa inclinazione alla delega si manifesta un po’ in tutti gli ambiti. Ai problemi dello sfruttamento — nelle fabbriche come nei campi, negli uffici come nelle consegne a domicilio — non si pensa di rimediare estendendo il raggio dell’azione sindacale, ma imponendo per legge un salario minimo. Ai giovani, che aspirano giustamente a fare un lavoro gratificante e ben retribuito, spesso sfugge che studiare poco, male, e solo per gli esami, abbassa drammaticamente le loro chance di vita, e che il cosiddetto “diritto al successo formativo”, proclamato 25 anni fa dal ceto politico, è un colossale inganno. Quanto ai diritti civili, anche lì, dopo i gloriosi anni dei referendum e dell’impegno, subentra l’idea che i nuovi diritti siano, appunto, solo diritti, che tocca alle istituzioni rendere attuali, piuttosto che il risultato di movimenti collettivi, che attraverso l’impegno pubblico affermano nuovi valori, e poco per volta li fanno entrare nel senso comune. Quel che voglio dire, insomma, è che l’astensionismo di massa è solo una delle manifestazioni di un cambiamento più generale della società italiana, che ha alterato radicalmente l’equilibrio fra diritti e doveri, ben chiaro ai padri costituenti. Del resto, che questo cambiamento vi sia stato, risulta persino nell’evoluzione dei principi costituzionali. Nella Costituzione del 1948 l’articolo sul diritto di voto stabilisce che votare “è un dovere civico”. Negli anni ’50 la legislazione ordinaria interviene addirittura per rendere sanzionabile la mancata partecipazione al voto. Ma a partire dal 1993 le cose si muovono in direzione opposta, con la rimozione delle sanzioni e, più recentemente, con la affermazione del principio secondo cui “il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto”, sia pure “significante solo sul piano socio-politico” (Corte Costituzionale, sentenza 173/2005). Ecco perché, a mio parere, sarebbe riduttivo leggere il crollo della partecipazione elettorale come un mero fallimento della politica, con conseguenti immancabili lezioncine a una classe politica ormai incapace di scaldare i cuori. Che la maggior parte dei politici non ci piacciano è sicuramente vero. Ma forse dovremmo chiederci prima di tutto se ci piacciamo noi, con la nostra ingenua credenza che il successo sia un pasto gratis, e che tocchi ad altri garantirci quelle “conquiste” per le quali, un tempo, trovavamo normale impegnarci in prima persona. (www.fondazionehume.it) ».

DIESEL E BENZINA, STOP IN 12 ANNI

Per le auto diesel e benzina, ma anche per ibride e a gas GPL, il Parlamento europeo decide lo stop già dal 2035. Matteo Salvini dice: una scelta folle. La preoccupazione dell’industria italiana dell’automotive. Francesca Basso per il Corriere.

«La plenaria del Parlamento Ue ha votato lo stop dal 2035 alla vendita di auto e furgoni con motore termico, alimentato a benzina o a diesel. Le auto usate con il motore a combustione potranno invece continuare a circolare dopo quella data. Era l’ultima tappa, ora manca solo un passaggio formale in Consiglio e poi il testo sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale. La decisione, come ha ammesso il ministro dell’Industria Adolfo Urso, era «attesa». Infatti l’intesa tra Consiglio e Parlamento Ue sulla proposta della Commissione Ue risale al 27 ottobre scorso, dopo un lungo negoziato tra le tre istituzioni, e il testo era stato deciso allora. Ma ha comunque scatenato reazioni accese. Il voto ha spaccato la maggioranza del Parlamento Ue, la maggioranza «Ursula», ovvero Ppe, S&D e Renew Europe che nel 2019 elessero alla presidenza della Commissione Ue Ursula von der Leyen, indicata dagli Stati membri. I voti a favore dell’addio a diesel e benzina sono stati 340, 279 i contrari e 21 le astensioni. Il Ppe, di cui fa parte Forza Italia, ha votato contro insieme ai conservatori dell’Ecr, il gruppo di Fratelli d’Italia, e alla destra di Identità e democrazia, a cui aderisce la Lega. Ma in 26 del Ppe hanno votato a favore con i socialisti (Pd), i Verdi, il M5S, la maggior parte di Renew Europe e la Left. Se per gli eurodeputati del Pd «è una vittoria dell’ambiente e dell’industria europea ed italiana che guarda al futuro» e per i Verdi un «voto storico», per il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini è una «decisione folle e sconcertante contro le industrie e i lavoratori italiani ed europei, a tutto vantaggio delle imprese e degli interessi cinesi». Per il Ppe ci sarà «un “effetto Avana”: dopo il 2035, le nostre strade potrebbero riempirsi di auto d’epoca perché le nuove auto senza motore a combustione non saranno facilmente disponibili». Il ministro Urso ha spiegato che il governo si impegna a «tutelare nelle sedi competenti, a Bruxelles e con i partner europei, gli interessi della filiera automotive e dell’occupazione nel nostro Paese». Per il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin «gli obiettivi ambientali non sono in discussione» e si deve «procedere su due direttrici: da un lato promuovere una maggiore gradualità nello stop alla commercializzazione dei veicoli, dall’altro spingere al massimo nella produzione dei biocarburanti, che sono una filiera pulita». I nuovi target di riduzione delle emissioni di CO2 rientrano nel pacchetto «Fit for 55», l’insieme di misure con cui l’Ue intende raggiungere una riduzione delle emissioni del 55% al 2030 rispetto ai livelli del 1990. L’obiettivo finale è la neutralità climatica dell’Ue al 2050. I produttori di nicchia (meno di 10 mila auto l’anno, o meno di 22 mila furgoni all’anno), come quelli della Motor Valley italiana, avranno un anno in più per adeguarsi e potranno continuare a vendere i loro veicoli con i tradizionali motori termici fino al termine del 2035. Per chi invece produce meno di mille veicoli l’anno è prevista un’esenzione totale. È anche previsto un obiettivo intermedio al 2030, termine entro il quale i costruttori dovranno ridurre del 55% le emissioni delle nuove auto immesse sul mercato e del 50% quelle dei nuovi veicoli commerciali.A novembre il commissario Ue all’Industria Thierry Breton aveva spiegato in un’intervista che «il passaggio alle auto elettriche comporterà la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro lungo tutta la filiera», stimando che «in tutta l’Ue saranno circa 600 mila» e solo in parte saranno compensati dai nuovi posti di lavoro green. Inoltre aveva evidenziato che sarà necessario uno sforzo rilevante per produrre i 150 GW di capacità elettrica necessari entro il 2050, per adeguare la rete di colonnine di ricarica, per procurarsi le materie prime per le batterie e per rendere accessibili le auto elettriche. Per questo il testo prevede una clausola di revisione in base alla quale nel 2026 la Commissione dovrà riesaminare l’efficacia e l’impatto del regolamento e valutare la necessità di rivedere gli obiettivi di emissione e l’impatto della definizione di soglie minime di efficienza per le nuove auto e i nuovi furgoni a emissioni zero, valutando quindi anche la possibilità di mantenere motori ibridi o che utilizzano gli ecocarburanti. Inoltre entro il 2025 la Commissione presenterà una metodologia per valutare e comunicare i dati sulle emissioni di Co2 durante tutto il ciclo di vita delle auto e dei furgoni venduti sul mercato continentale. Sempre entro il 2025 la Commissione Ue dovrà presentare una relazione sui mezzi finanziari e sugli strumenti politici necessari per rendere la transizione all’auto elettrica equa. Si baserà sul lavoro nell’Alleanza delle regioni automotive del Comitato delle Regioni, di cui fanno parte per l’Italia il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto, la Toscana, l’Umbria, l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata. Il voto del Parlamento Ue arriva nel giorno in cui il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans ha proposto un nuovo tassello per attuare la strategia del Green Deal: dal 2030 gli autobus dovranno essere a emissioni zero e i camion dovranno ridurre le loro emissioni del 45% dal 2030, del 65% dal 2035 e del 90% dal 2040 rispetto ai livelli del 2019».

PATTO DI STABILITÀ UE, I NORDICI CONTRO L’ITALIA

Alla riunione dell’Ecofin il ministro Giancarlo Giorgetti chiede “vincoli di bilancio differenziati”, ma per la Germania i percorsi devono essere “prevedibili”. Marco Bresolin per La Stampa.

«Per stabilire il taglio del debito necessario «deve essere considerata la situazione specifica di ogni Paese» ha insistito il ministro delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, alla riunione dell'Ecofin dedicata alla riforma del Patto di Stabilità. «Sì, ma è fondamentale che ciò avvenga all'interno di una cornice chiara fatta con regole di bilancio comuni», ha invece replicato la sua collega olandese, Sigrid Kaag. Sono le due posizioni che delimitano il campo sul quale si gioca la partita per cambiare i vincoli Ue sui conti pubblici. Da una parte chi, come l'Italia, vuole che i percorsi di riduzione del debito siano disegnati su misura Paese per Paese. Dall'altra chi ritiene che questi percorsi debbano essere tracciati all'interno di un recinto ben definito. Il vero problema sarà stabilire l'ampiezza del recinto. La ministra svedese Elisabeth Svantesson, presidente di turno dell'Ecofin, ha ammesso che ci sono «visioni diverse». Per l'Italia l'ostacolo non è rappresentato tanto dai Paesi Bassi, ma dalla Germania, che ha un peso decisivo nel processo decisionale, e che al momento sembra allineata alla posizione olandese. Il ministro delle Finanze Christian Lindner ha detto di essere aperto a una modifica del Patto di Stabilità, ma la proposta abbozzata dalla Commissione non gli va bene. L'esecutivo Ue propone percorsi di riduzione del debito pluriennali da negoziare con i singoli Stati, con la possibilità di concedere maggiore flessibilità in cambio di riforme e investimenti. Per Berlino tali percorsi devono essere «comprensibili, credibili e prevedibili», dunque tracciati all'interno di un quadro ben preciso di regole comuni e con minori margini discrezionali per la Commissione. Quel che è certo è che la sospensione del Patto non sarà estesa al 2024, per questo è fondamentale chiudere la riforma entro la fine dell'anno (diversamente torneranno in vigore i vecchi vincoli): per farlo, i governi dovrebbero trovare una prima intesa entro marzo, in modo da consentire alla Commissione di presentare una proposta legislativa al più tardi ad aprile. Valdis Dombrovskis ha elencato gli obiettivi sui quali c'è un consenso: «Garantire finanze pubbliche sostenibili combinando aggiustamenti di bilancio graduali con riforme e investimenti. Una maggiore attenzione sul medio termine. La necessità di riflettere le sfide di finanza pubblica specifiche del Paese e una sorveglianza più dinamica degli squilibri economici». Ma il punto è come tradurli nella pratica. La presidenza svedese ha fatto circolare un documento con tre domande ai ministri sulle questioni più controverse, che riflette anche sulla difficoltà di gestire i piani pluriennali in caso di cambio di governo. «Anche se sui principi di fondo c'è una convergenza – spiega una fonte Ue – le risposte ricevute dimostrano che c'è ancora parecchia strada da fare per arrivare a un accordo». Un altro esempio riguarda la possibilità di escludere gli investimenti dal calcolo del deficit e del debito. Per Giorgetti tutti gli investimenti "strategici" – quelli per la transizione ecologica e digitale, ma anche quelli per sicurezza e difesa – devono avere un trattamento particolare. Per la sua collega olandese, invece, è fondamentale valutare «il loro impatto sulla sostenibilità del debito».

IL NEW YORK TIMES FA CAUSA A URSULA SUI VACCINI

Il giornale Usa contro la Von der Leyen: «Ha nascosto gli affari con Pfizer sui vaccini». Nel mirino 1,8 miliardi di dosi: la presidente della Commissione Ue avrebbe trattato direttamente con Albert Bourla, amministratore delegato del colosso farmaceutico. Maurizio Stefanini per Libero.

«In Italia la prassi è che siano i politici a querelare i giornalisti: in genere per le cose che dicono e scrivono, e quasi sempre con querele temerarie. Talmente sono diversi gli Stati Uniti che il New York Times, forse il più celebre quotidiano di tendenza liberal del mondo, è stato lui a querelare politici per cose che non avevano detto: e non politici qualsiasi, ma l’intera Commissione Europea. Oggetto della querela: i messaggi che la presidente Ursula von der Leyen avrebbe inviato all’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla. Il Nyt sostiene infatti che la Commissione avrebbe l’obbligo legale di rendere pubblici i messaggi, che potrebbero contenere informazioni sugli accordi per l’acquisto di dosi di vaccino anti-Covid: cosa che, finora, non era stata fatta. Lo scrive il sito Politico.eu secondo il quale la causa è stata depositata alla Corte di Giustizia europea lo scorso 25 gennaio. Lunedì è stata pubblicata sul registro del tribunale europeo. Interpellato da Politico, il Nyt ha risposto: «Il Times presenta molte richieste riguardo la libertà di informazione e mantiene un registro attivo. Al momento non possiamo commentare l’oggetto di questa causa». I messaggi potrebbero contenere informazioni utili legate all’acquisizione per miliardi di dollari di dosi di vaccino. Sono mesi che al Parlamento europeo si discute su questa storia. Si tratta infatti di messaggi che la presidente avrebbe inviato a Bourla nell’ambito di una missione diplomatica messa in campo per ottenere i vaccini anti-Covid e che fu ampiamente descritta in un articolo del New York Times dell'aprile 2021. A seguito dell’articolo, nel gennaio 2022 il giornalista Alexander Fanta di netzpolitik.org, sito tedesco specializzato in diritti digitali, aveva chiesto di poter leggere lo scambio di sms tra la von der Leyen e il Ceo di Pfizer. Ma gli è stato rifiutato. Di lì è partita una richiesta di chiarimenti avanzata dal mediatore europeo Emily O’Reilly, secondo cui l’Ue non aveva fatto abbastanza, nel rispetto del regolamento sulla trasparenza amministrativa, per fornire i testi richiesti. Alla richiesta, infatti, la risposta della Commissione era stata: «Quando un documento redatto o ricevuto dalla Commissione non contiene informazioni importanti, e/o è di breve durata, e/o non rientra nel campo di applicazione della direttiva, e/o non rientra nella sfera di competenza dell'istituzione, non soddisfa i criteri di registrazione e non viene quindi registrato. Questi documenti effimeri e di breve durata non sono conservati e, di conseguenza, non sono in possesso dell'istituzione». «La Commissione ritiene di non 4 aver trattato la  richiesta in modo ristretto» e «può confermare che la ricerca intrapresa dall’ufficio di gabinetto del presidente per i messaggi di testo pertinenti alla richiesta di accesso ai documenti non ha prodotto alcun risultato», era pure scritto nella risposta redatta dalla vice presidente della Commissione e commissaria alla Trasparenza Vera Jourova. Adesso la cosa è arrivata alla Commissione Speciale Covid che il parlamento Ue ha istituito, e che avrebbe fatto richiesta alla presidenza dello stesso parlamento che Ursula von der Leyen sia sentia in aula. O avrebbe intenzione di richiederlo: il portavoce della Commissione, Eric Mamer, ha infatti spiegato che, al momento, non è ancora giunta alcuna richiesta della presidente Roberta Metsola affinché la von der Leyen sia sentita.
Il quotidiano tedesco Bild aveva presentato un’analoga richiesta di accesso ai documenti, ma legati ai negoziati che avevano portato all’acquisto da parte dell’Unione europea dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. I documenti a cui la Bild ha avuto acces so non contenevano lo scambio di messaggi tra la presidente della Commissione europea e il Ceo di Pfizer.
Lo scorso 12 settembre una Relazione speciale della Corte dei Conti Ue ha calcolato un totale di 4,6 miliardi di dosi di vaccino acquistate tramite la maggiore spesa di tutti i tempi del bilancio Ue: 71 miliardi di euro con contratti di acquisto anticipati. È la stessa Corte, però, ad aver detto che non sono state rispettate le procedure corrette. Le valutazioni stimano che siano state acquistate 1,4 miliardi di dosi «di troppo», con un prezzo medio di ciascuna intorno ai 15 euro. Pfizer è l’azienda che più se ne è avvantaggiata, avendo fornito 2,4 miliardi di dosi e avendo incassato 35 dei 71 miliardi. Ma la cosa che ha colpito i giornalisti del New York Times è che 1,8 miliardi di queste dosi sono state trattate direttamente da Bourla con la Von der Leyen».

TERREMOTO, REPORTAGE DAL NORD DELLA SIRIA

Reportage di Corrado Zunino per Repubblica nel Nord-Ovest della Siria. In una regione devastata da 12 anni di guerra e in mano ai ribelli filoturchi, il sisma ha raso al suolo città e villaggi. Non si sa neppure come scavare. E gli aiuti tardano ad arrivare per via delle sanzioni occidentali e per gli interessi di Assad.

«Berat non vuole più scavare. La casa della zia, su cui è seduto, ha seppellito due parenti. Alle spalle, l’altra casa a terra, la sua, ha soffocato l’intera famiglia diretta. Ci sono cinque persone sotto, tra i due fabbricati grigi. Per loro Berat ha alzato polvere da lunedì, ha iniziato a cercarle poche ore dopo l’esplosione del grande terremoto, ma all’ottavo giorno si è seduto. Sulle macerie. La testa tra le mani, bianche di gesso, lui, trent’anni superati, la barba curata, un maglione nero indossato sopra la pelle, si rivolge al cielo: «È questo l’Islam? Questo il suo regno?», Berat piangeva. All’ottavo giorno siamo entrati in Siria, dal varco Sud-Est turco di Cilvegozu, a bordo di un van della presidenza turca. Non esiste altra possibilità, oggi, per raggiungere legalmente questi territori contesi e martoriati. La Siria, la Siria del Nord-Ovest in particolare, è un lembo di dolore e distruzione, di povertà e fame, da non avere paragoni possibili. Due ore dopo, e quindici chilometri percorsi verso occidente sui crateri lasciati dalle bombe di Bashar al-Assad, il villaggio di Ariba è stato il primo a mostrare la distruzione dei luoghi: era raso al suolo. Il big bang creato undici chilometri in profondità nella provincia di Kahramanmaras, in Turchia, all’alba del 6 febbraio si è allungato verso Sud portandovi una devastazione ancora più pesante. Ha sbriciolato, ultima frontiera turca, i grattacieli di Antiochia e, varcato il confine, ha finito le casupole siriane di Haram e, appunto, del villaggio di Ariba, quello di Berat. Colline di calcinacci, lamiere, quaderni per bambini, gomme esplose. Ariba, ancora nel 2004, censiva 585 persone al suo interno. Sono cresciute, senz’altro, in vent’anni, la guerra civile ha portato qui centinaia di profughi, ma ieri le forze di difesa civile dei territori liberati — Assad li chiama “occupati”, cambiando prospettiva — parlavano di 627 vittime contate. Una proporzione enorme. «Siamo usciti subito per tirare fuori i vivi», racconta il responsabile nell’area dei Caschi bianchi, i gilet gialli chiamati a coordinare le emergenze, non solo quelle dei terremoti, in questo lembo di Siria del Nord-Ovest. Il sisma delle 4,17, tuttavia, ha reso plateale le possibilità limitate di questa Protezione civile, povera come tutto il resto. Nella città formicaio di Haram, governatorato di Idlib, il grigio dei blocchi di mattone sale lungo la collina senza lasciare spazi.
Due quartieri sono venuti giù per intero e per liberare le macerie lavora un solo escavatore, intorno ragazzi e bambini cercano dispersi ancora in vita nei vuoti lasciati dalla benna. Passa un’autocisterna e un uomo con la kefiah da sopra lancia getti d’acqua sui detriti, sopra la strada che cola fango, sui ragazzi in sella a moto che, nei Cinquanta, in Occidente, già non si producevano più. Haram, ventinovemila abitanti presunti, di morti, fin qui, ne ha contati 720.
In Turchia i salvataggi dei sommersi arrivano anche 200 ore dopo le 4,17 di lunedì scorso. In queste città siriane diroccate, dalle macerie escono solo morti. E sono persino pochi perché si scava con i mezzi ridotti al minimo, vecchi motori a scoppio che non si capisce cosa debbano alimentare. Con i resti degli interni degli appartamenti sconvolti, si riempiono a braccia camioncini scoperti: materassi laceri, divani sghembi, tavoli in ferro, bidoni di latta. Non si buttano, in questa città che non aveva nulla e oggi ha meno di nulla. Le macerie, invece, ogni ora sono più alte, anche dieci metri: spostate dall’unico escavatore, nessuno le può rimuovere. «Ogni metro che andiamo avanti, la conta delle vittime cresce», dice il responsabile locale dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ancora lunedì parlava di 9.000 vittime in Siria, quasi il doppio dei numeri offerti, ieri, dal governo Assad e dai miliziani filo-Turchia. Sì, la Turchia, ingombrante vicino. Il presidente Erdogan ha iniziato a finanziare le forze anti-Assad, che al loro interno trattengono una carica jihadista mai sopita, affinché i miliziani cacciassero dal Nord della Siria gli odiati curdi. I ribelli hanno eseguito e in cambio hanno ottenuto da Ankara aiuti umanitari e lire turche, moneta corrente, qui, insieme al dollaro americano. Negli ultimi tre anni il simbolo della Mezzaluna turca si è diffuso rapidamente e il governo di Erdogan ha fatto aprire pastifici che sfornano ventimila pani al giorno, questo lungo la statale M45, e ospedali oggi gestiti da personale siriano. Con il consenso dei suoi abitanti, Ankara è riuscita a trasformare il Nord della Siria non governativo in un protettorato speciale. Il terremoto ha impresso un altro cambiamento alla politica dell’area: dopo aver vicendevolmente bloccato le merci in uscita dai tre varchi del Sud della Turchia, scatenando un’indignata reazione internazionale viste le emergenze dettate dal sisma, Assad ed Erdogan nelle ultime ore sembrano aver trovato, suggeriti dagli alleati, una graduale gestione non conflittuale dell’acqua, delle coperte, delle tende da campo. Pur colpito dalle scosse, e per tre anni chiuso agli aiuti Onu, il passaggio di Bab as Salam ieri ha fatto passare in direzione meridionale i primi undici camion dell’Organizzazione mondiale della migrazione, con i loro carichi di necessità, e alcune bare con il drappo verde sopra. Poche ore prima aveva riaperto la frontiera di Bab al Hawa mentre alcuni giornalisti potevano visitare la Zona Nord passando, appunto, per Cilvegozu. L’attivista di Idlib, Abdulkafi Alhamdo, program manager di “Still I rise”, dice: «Molti siriani, molti più di prima, vorrebbero scappare in Europa, in Turchia». Il traduttore Ayoub Abdelsalam, anche lui di Idlib, aggiunge: «La Turchia è scesa nelle nostre terre, ha ridefinito alcuni confini spostandoli in avanti e alzando nuovi muri, ma adesso, dopo la catastrofe, potrebbe essere Erdogan a non voler più aiutare la Siria del Nord. Il terrore di una nuova ondata di migranti potrebbe fermare ogni progetto di allargamento territoriale».

HALEY SFIDA TRUMP

L’ex governatrice Nikki Haley parteciperà alle primarie repubblicane e dice: tocca a una nuova generazione. Viviana Mazza per il Corriere.

«È tempo di passare a una nuova generazione di leader», dice Nikki Haley, 51 anni. Una frecciata soprattutto al presidente Joe Biden, 80 anni, ma anche a Donald Trump che ne ha 76. L’ex governatrice della South Carolina è la prima sfidante a scendere in campo contro Trump per la nomination repubblicana alla Casa Bianca nel 2024. Fu lui a nominarla ambasciatrice all’Onu nel 2017 e i rapporti sono rimasti abbastanza buoni, come dimostra il fatto che non le ha ancora affibbiato uno dei suoi nomignoli, anche se la scorsa settimana l’ha definita «eccessivamente ambiziosa». Haley aveva preso le distanze dall’ex presidente, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio, per poi tornare ad elogiarlo. «Ogni volta che mi critica, fa un passo indietro 15 minuti dopo — ha notato lo stesso Trump —. Capisce con chi sta la base». Haley aveva detto pure che non avrebbe corso contro di lui e invece lo farà. E nel video elettorale nota che i repubblicani hanno perso il voto popolare in 7 delle 8 precedenti elezioni presidenziali: «È ora di cambiare». Eppure per ora sembra determinata ad evitare lo scontro. Il video è girato lungo i binari del treno che attraversano la città della South Carolina dov’è nata, Bamberg, e che la dividevano in quartieri in base al colore della pelle. Nimrata «Nikki» Randhawa, figlia di genitori indiani di religione sikh, poi convertitasi al cristianesimo (il cognome Haley è del marito), non era «né nera né bianca, ero diversa» ma la mamma le diceva di «concentrarsi non sulle differenze ma sulle somiglianze». «Anche nel giorno peggiore, è una benedizione vivere in America», spiega, dando un colpo alla sinistra progressista di Alexandria-Ocasio Cortez per le critiche eccessive al sistema americano e un altro a Paesi come Cina e Iran per le atrocità che commettono contro i loro cittadini. Nel 2015, da governatrice, Haley portò alla rimozione della bandiera confederata dal Campidoglio dello Stato, dopo che un suprematista bianco uccise 9 fedeli neri in una chiesa. Ma la sua corsa è irta di ostacoli. E Trump è solo uno di essi. In South Carolina, il terzo stato a votare per la nomination dopo Iowa e New Hampshire, c’è grande fermento. Haley resta popolare tra i repubblicani, ma Trump vi ha fatto la prima tappa della sua campagna e ha diversi endorsement (dall’attuale governatore McMaster al senatore Lindsey Graham). Altri attendono con ansia l’annuncio di Ron DeSantis e suggeriscono che Haley potrebbe piuttosto essere la sua vice. Ma attualmente il guaio maggiore per lei è la possibilità sempre più concreta che si candidi anche Tim Scott della South Carolina, l’unico senatore repubblicano nero (all’inizio nominato da lei quand’era governatrice). Haley e Scott sono cresciuti politicamente insieme, hanno alleati, finanziatori e consiglieri in comune: due volti «diversi» tra colleghi per la maggioranza bianchi. E Mikee Johnson, magnate del legname e uno dei maggiori donatori di Haley, ha appena scelto Scott, che ha moltissimi sostenitori e meno nemici di lei. Sulla carta Nikki ha esperienza in politica interna ed estera («Se porti i tacchi, i calci che sferri fanno più male» è il suo monito ai leader di Cina e Russia). Ha una storia personale che l’ha portata ad essere definita l’anti-Kamala Harris (entrambe hanno origini indiane) e sarebbe la prima donna a vincere la nomination. Molti osservano che sarebbe stata la favorita nel partito repubblicano di una volta, che non esiste più».

NICARAGUA, DA 5 GIORNI IL VESCOVO IN CELLA

Ha rifiutato di essere spedito negli Stati Uniti, è rimasto vicino al suo popolo ed ora è in carcere da cinque giorni. Lucia Capuzzi scrive l’editoriale di Avvenire dedicandolo al vescovo Rolando Álvarez, recluso nel carcere di La Modelo, alla periferia di Managua.

«Da cinque giorni, il vescovo Rolando Álvarez è recluso nel carcere di La Modelo, alla periferia di Managua, dove sconta una condanna a ventisei anni e quattro mesi per «tradimento della patria». La sua detenzione, però, era cominciata quasi sei mesi fa: dal 19 agosto, infatti, era tenuto agli arresti domiciliari in attesa del processo dall’esito scontato. Il regime guidato da Daniel Ortega – e dalla moglie e vice Rosario Murillo – lo aveva giudicato da anni colpevole di «superbia». Lo ha detto lo stesso presidente alla vigilia della sentenza. “Superbo” è un termine preciso nel vocabolario orteguista: indica chiunque osi sfidare il suo potere, sia esso un ex compagno d’armi, come l’ex comandante “Dos” Dora Téllez, rinchiusa per 605 giorni nel penitenziario de El Chipote e poi spedita in esilio, o una voce da sempre critica, come monsignor Álvarez. Dopo la maxi-scarcerazione ed espulsione di 222 dissidenti, ancora decine di oppositori, reali o presunti, affollano le celle del Nicaragua. Il vero prigioniero, però, è Ortega. L’ex comandante è solo nel labirinto, ostaggio di un passato rivoluzionario stravolta a propria misura e della consorte, vero “uomo forte” del regime. Ci vive dall’aprile 2018 quando una feroce repressione annegò nel sangue la protesta nonviolenta di migliaia e migliaia di cittadini di ogni colore e schieramento politici uniti nel denunciare la perdita di legittimità del governo che aveva occupato ogni spazio civile, politico ed economico. La “bella” copia della dittatura del clan Somoza, abbattuta con il contributo anche del comandante Ortega. La “Rivolta d’aprile” inflisse un duro colpo alla «coppia presidenziale». Eppure, ancora qualche veterano dei tempi andati, ignaro del sistema insieme populista, liberticida e neoliberista costituto a Managua, era pronto ad alzare la voce in difesa del « vecchio Daniel», espulso perfino dall’Internazionale socialista. Ora la carcerazione di monsignor Álvarez ha squarciato il velo di pretesti e giustificazioni. Più del vescovo, quella sentenza paradossale, anticipata in diretta televisiva, ha condannato Ortega ad essere espulso dalla realtà attuale dell’America Latina. Proprio nel momento in cui il Continente è governato da leader progressisti, l’ex guerrigliero sandinista appare tragicamente isolato. Mentre perfino gli “amici” al potere a Cuba e in Venezuela cercano di aprirsi spiragli se non per convinzione almeno per pragmatismo, il caudillo di Managua chiude sé stesso e il proprio Paese nella cantina della storia. Un triste epilogo per il movimento ispirato dalla lotta di Augusto Sandino, il «generale degli uomini liberi», protagonista della battaglia contro gli occupanti statunitensi, e culminato nella Rivoluzione del 1979, portata avanti da giovani infarciti di ideali nazionalisti, libertari e antimperialisti di tono socialisteggiante. Nelle mani di Ortega, quell’eredità capace di ispirare i versi del sacerdote-poeta Ernesto Cardenal o la penna di Julio Cortázar, è diventata retorica vuota e pacchiana. Proprio come il gigantesco albero di metallo giallo sgargiante, ideato da Rosario Murillo, che copre la sagoma di Sandino sulla collina di Tiscapa. A Managua il presente è caricatura del passato. Del resto, come diceva Karl Marx, la storia si ripete due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa. Come altro definire il processo che il vescovo Álvarez ha deciso di accettare, rifiutando di salire sull’aereo che ha portato i 222 rilasciati negli Usa? Il suo gesto ha costretto il mondo a togliere le lenti dell’ideologia e a guardare il Nicaragua di Ortega per quello che è. Ancora una volta nel Paese «violentemente dolce» risuonano le parole del poeta-simbolo Rubén Darío: «Tremate, tremate tiranni nelle vostre reali sedie. Né pietra su pietra di tutte le Bastiglie domani resterà».

UNIVERSITÀ. “STUDIARE È DIVENTATO UNA GARA”

La Stampa pubblica un estratto del discorso pronunciato lunedì dalla studentessa di Padova Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti, durante l'inaugurazione dell'anno accademico

«A 20 anni è il più giovane laureato d'Italia». «Studente trovato morto, da mesi non dava esami». «Gemelli laureati insieme: "Il segreto? Una sana competizione"». «Si suicida all'università: aveva mentito alla famiglia, gli esami erano inventati». «A 23 anni è medico: "Per me il sonno è tempo perso"». «Studentessa di 19 anni si suicida nella sua Università: "La mia vita è un fallimento"». Cara comunità studentesca, Magnifica Rettrice, Ministro Bernini, autorità, cara comunità dell'Università di Padova: credo siano evidenti a tutti le profonde contraddizioni della narrazione mediatica intorno al percorso universitario. Ci viene restituito il quadro di una realtà che fa male. Celebrate eccellenze straordinarie facendoci credere che debbano essere ordinarie, facendoci credere che siano normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri modi. Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l'intero sistema merito-centrico e competitivo. Ci viene insegnato che fermarsi significa deludere delle aspettative, sociali e molto spesso familiari. Fermarsi vuol dire rimanere indietro. Ma quand'è che studiare è diventato una gara? Tutto quello che sappiamo è che una vita bella, una vita dignitosa, non ci spetta di diritto, ma è qualcosa che ci dobbiamo meritare. Il mancato raggiungimento di un risultato è da attribuirsi esclusivamente alla colpa del singolo di non essersi «impegnato abbastanza». Ricordiamoci però che molti degli ostacoli che incontriamo nel nostro percorso accademico sono strutturali e sono, per esempio, non potersi permettere una casa da fuori sede, non poter frequentare le lezioni, non avere una borsa di studio, ed è codardo che si deleghi al singolo studente la responsabilità di trovare un modo per arrivare alla fine del percorso indenne, superando degli ostacoli che è compito delle istituzioni rimuovere. Quest'anno a Padova 2.426 studentesse e studenti avevano diritto a ricevere una Borsa di Studio che non è mai stata erogata. Come possano avere fiducia nel loro Ateneo, nella loro Regione, nel loro Stato, se vedono non rispettato un loro diritto costituzionale, quello di poter studiare? Sono domande che esigono risposta. Queste politiche di disimpegno e trascuratezza colpiscono sempre e solo chi è già condizioni precarie, spesso quegli stessi studenti che non si sono potuti adeguare a un mercato immobiliare che specula sulle carenze del pubblico. Quella abitativa, così come quella economica, sono emergenze, e come tali vanno affrontate. Non godere di un reale diritto allo studio pesa sul percorso universitario, così come insiste sulle nostre spalle la costante competizione corrosiva a cui siamo sottoposti e un ragionamento sul benessere psicologico ancora in fase embrionale, che non fornisce nemmeno a tutte le Università uno sportello di assistenza e ascolto, e che dove è presente lo vede sotto finanziato. Vogliamo lo psicologo di base. E anche se sentiamo solo il contrario, ricordiamoci che non è una sessione o la nostra media a definire chi siamo, ricordiamoci che è legittimo chiedere aiuto e pretendere che ci siano delle strutture adeguate a darcelo. Stare male non deve essere normale.
Se però si aspira a proseguire il proprio percorso accademico, è d'obbligo prendere atto di come il nostro Paese considera l'Istruzione e il mondo della Ricerca. Il 55% tra dottorandi e dottorande non riesce a risparmiare nemmeno 100 euro al mese. Una volta conseguito il titolo, ciò che li attende in Italia è l'incertezza. Saltare da un assegno all'altro, senza possibilità di accedere ai basilari diritti dei lavoratori, come maternità e tredicesima
. Pochi mesi fa la ministra Bernini riportava alle Camere che sarebbe un contratto lavorativo a limitare la libertà di un ricercatore. Ebbene no: è l'assenza di tutele che limita la libertà, impedendogli di immaginare un progetto di vita stabile nelle attuali condizioni. In questo contesto di precarietà ci viene richiesto di eccellere, con i mezzi a disposizione, qualunque essi siano, dentro e fuori l'Università. Sempre di più, sempre meglio, sempre più veloci, senza arrestarsi mai, nemmeno davanti alle difficoltà. Chi vuole può, giusto? Dobbiamo chiederci se è vero che tutti abbiamo la possibilità di arrivare ovunque e accettare che la risposta, per quanto possa fare paura, è "no". Ci troviamo davanti un Governo che sceglie deliberatamente di ignorare le grida di allarme dei suoi giovani. La civiltà e la forza di uno Stato si misurano su come questo tratta chi è messo ai margini dalla società stessa: come osano mentire raccontandoci che non toccheranno il diritto all'aborto? Non avete paura di cosa ne sarà dopo i tre disegni di legge che lo mettono in discussione? Non vi indigna il silenzio delle istituzioni davanti agli 84 suicidi dei detenuti in carcere nel 2022? Oppure che, in questo momento, alla Camera si stia proponendo l'aberrante tentativo di legittimare l'omissione di soccorso? L'accanimento verso gli ultimi e il calpestamento dei diritti civili e sociali sono atteggiamenti che appartengono a uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese. Ma dalle sue macerie è nata la nostra Costituzione, costruita sulle fondamenta della democrazia, dell'uguaglianza, della libertà e dell'antifascismo. Principi che oggi dobbiamo al coraggio ed al sacrificio delle giovani generazioni di allora, anche studenti come noi, che si schierarono con coraggio contro l'oppressione del regime . Il presente non è facile e altrettanto avere fiducia nel futuro. Forse la sfida più grande consiste nel non adeguarci al poco che ci viene concesso, pretendendo sempre di più. Possiamo esserne in grado solo mettendo da parte gli individualismi, in un'ottica di solidarietà, «per la fede che ci illumina e per lo sdegno che ci accende».

SCUOLA 1. IL 24 FEBBRAIO LEZIONI DI PACE

L’appello ai ministeri di Istruzione e Università del segretario della Flc-Cgil Francesco Sinopoli al congresso del sindacato a Perugia: le scuole sono luoghi della cooperazione. Preoccupazione per la condizione delle paritarie. Paolo Ferrario per Avvenire.

«Chiediamo ai Ministeri dell’Istruzione e del Merito e dell’Università che il 24 febbraio, anniversario dell’invasione dell’Ucraina, sia proclamata giornata di mobilitazione nazionale per la pace e la convivenza democratica ». Questo l’appello del segretario generale della Flc-Cgil, Francesco Sinopoli, in apertura del quinto Congresso nazionale del sindacato della scuola, in corso fino a domani a Perugia. Fin dal titolo (“Lezioni di pace”) si comprende l’impronta che, in questo momento storico, il sindacato vuole dare all’assise. A cui, oggi, interverrà il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ospite della tavola rotonda “Pace, ambiente, democrazia: il ruolo della conoscenza e dei movimenti sociali”.

Segretario, perché Perugia e come la nostra scuola può educare alla pace?
Abbiamo scelto Perugia guardando ad Assisi perché siamo convinti che per fermare la guerra non bisogna fare la guerra. L’unica possibilità che abbiamo oggi è costruire un grande movimento, dal basso, per la pace. Le scuole sono luoghi in cui naturalmente si educa alla pace. Sono i luoghi della cooperazione che è il contrario del conflitto e sono i luoghi dove ogni giorno si guarda per forza al futuro. Perché i bambini e gli adolescenti credono alla pace. In questo senso, noi abbiamo una grande responsabilità che non può essere delegata. Perciò abbiamo scelto di chiamare il nostro congresso “Lezioni di pace”.

Il ministro Valditara vuole ridare autorevolezza alla figura dell’insegnante: da dove si comincia?
Per restituire dignità a questa professione si comincia riconoscendone il valore. Un valore che è anche di natura economica. Noi veniamo da troppi anni in cui la scuola pubblica italiana è stata sottoposta alla cura del mercato, trasformata in un’agenzia che deve competere come se fosse un’azienda qualunque. Modello che non condividiamo, che ha messo in crisi la storia della pedagogia democratica e l’idea costituzionale di scuola pubblica. Io penso che con questo governo si rischia di tornare a una scuola in cui si punisce, una scuola in cui c’è la selezione. È un modello di scuola in cui noi non crediamo. Bisogna ripartire dalla scuola dell’inclusione, per questo, serve rimettere al centro la scuola democratica e delle politiche pubbliche. Se vuole dare valore agli insegnanti, allora, il Ministro deve battersi per finanziare il loro contratto. Quello che dovremmo rinnovare - non quello che stiamo chiudendo, che è la coda di un contratto già scaduto – vede zero risorse. Se il governo pensa che, per ridare valore alla professione, basta evocarne l’autorevolezza, noi diciamo che sbaglia e pensiamo si debba fare diversamente. Noi abbiamo la profonda convinzione che la scuola della Costituzione si possa rilanciare e si debba farlo anche immaginando una scuola diversa.

In che senso?
Nel documento congressuale della Cgil si dice chiaramente che noi vogliamo portare l’obbligo a 18 anni, ma questo significa anche ripensare il modo in cui si insegna. Diciamo che bisogna aumentare il tempo scuola, che bisogna investire su questo settore fondamentale. Non ci piaceva la scuola del quasi-mercato e non ci piace la scuola dell’autorità: noi vogliamo la scuola democratica, la scuola della Costituzione. Ma non possiamo difendere ciò che c’è. Bisogna rilanciarla e farlo con grande convinzione e determinazione.
Magari cominciando a colmare il divario Nord Sud…. In questo momento abbiamo una grande emergenza, rappresentata dall’attacco definitivo alla scuola pubblica che è il progetto di autonomia differenziata: renderà strutturali e permanenti i divari. Serve l’opposto. Abbiamo bisogno di affrontare davvero la grande questione del Paese, che è la questione Meridionale ormai diventata la questione delle diseguaglianze, che nascono innanzitutto nel mondo dell’istruzione, dove un bambino che è nato a Messina fa un anno in meno di scuola di un bambino di Milano. Noi saremo in campo contro quel progetto per rilanciare l’idea opposta: dare dignità alla scuola in tutto il Paese, consentendo non solo opportunità di accesso, ma gli stessi diritti a tutti i bambini.

Anche a quelli delle scuole paritarie, che chiudono al ritmo di una ogni due giorni e mezzo?

Come la Cgil ha sempre detto, per noi la scuola pubblica viene prima di ogni altra cosa. Prioritariamente, bisogna finanziare la scuola pubblica che è ampiamente sottofinanziata. Aggiungo che noi siamo firmatari di contratti collettivi di lavoro e siamo impegnati a garantire condizioni di lavoro e salari dignitosi a tutti. Perciò esprimiamo grande preoccupazione per la condizione delle scuole paritarie e dei loro lavoratori. Per questo settore, la pandemia è stata drammatica e noi ci siamo impegnati a tutelare al meglio questi lavoratori. Ma, ripeto, la nostra priorità è la scuola pubblica».

SCUOLA 2. VALDITARA ALLA PIAZZA DEI MESTIERI

Il ministro Giuseppe Valditara è stato in visita ieri alla Piazza dei Mestieri di Torino. Ha detto: “Realtà come queste sono pilastri della società e servono a dare un senso alla vita di tanti ragazzi”. Claudia Luise per La Stampa.

«Un visore per entrare nel metaverso creato dai ragazzi che si stanno formando per affrontare le professioni futuro. Così il ministro dell'Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha potuto sperimentare la realtà virtuale su cui ogni giorno si cimentano i ragazzi che frequentano l'Its per le Tecnologie dell'informazione e della comunicazione alla Piazza dei Mestieri, la fondazione voluta da Dario Odifreddi per la formazione professionale. Una visita privata, quella del ministro, che ha potuto conoscere tutti i laboratori e dialogare con i giovani. «Bisogna capire l'importanza del lavoro nella formazione e chi non la capisce non ama i giovani», dice. Rivolto ai ragazzi, il ministro riconosce che «questo è il percorso giusto che dobbiamo potenziare». Valditara assicura che investirà «sempre di più in percorsi di questo tipo, che sono pilastri della società e servono a dare un senso alla vita di tanti ragazzi». E a questo proposito ricorda, tra l'altro, che «agli Its del Piemonte arriveranno 28 milioni 196mila euro». Alla Piazza dei Mestieri studiano 1.180 allievi nei percorsi di qualifica e diploma (14-17 anni), 480 allievi nei percorsi Its (18-25 anni) e altri 4.100 giovani sono coinvolti in progetti speciali (14-25 anni) come l'aiuto allo studio e l'italiano per stranieri. Per un totale di oltre 5.500 ragazzi che frequentano via Durandi. Ci sono alcuni, come Marika, che raccontano di percorsi difficili: «Qui ho trovato la mia famiglia e sto riscoprendo la fiducia nel futuro che avevo perso». Mentre Odifreddi sottolinea il valore di una vera integrazione: «Finalmente una sensibilità politica che ben comprende come l'educazione e la formazione sono il vero strumento per la lotta alle diseguaglianze e per dare un futuro a tanti giovani che potranno occupare quei posti di lavoro per i quali le imprese oggi faticano a trovare personale». Poi l'incontro con il sindaco, Stefano Lo Russo. «Grazie a 1,2 miliardi di risorse aggiuntive che il ministero ha trovato nelle pieghe del bilancio, e che si sommano ai fondi del Pnrr, il Comune di Torino ha potuto usufruire di 12 milioni in più per lavori in due scuole, l'istituto comprensivo Gabelli - Scuola primaria Pestalozzi e l'istituto comprensivo Pacinotti - scuola primaria Carlo Boncompagni», dice Valditara. Una mattinata che si è conclusa alla scuola media Pascoli, ristrutturata nell'ambito del progetto ‘Torino fa scuola' promosso da Fondazione Agnelli e Compagnia di San Paolo in collaborazione con Città di Torino e Fondazione per la scuola. Aule ampie, luminose, pensate per «valorizzare i talenti». «Sto scrivendo un disciplinare da mandare agli enti locali su come intervenire sugli spazi, perché un ambiente di lavoro e di studio oltre che sicuro deve garantire serenità dell'animo». Gli studenti hanno consegnato al ministro uno speciale disegno che raffigura il volto di Rita Levi Montalcini in cui le ombreggiature sono realizzate con le parole su come loro desiderano la scuola: "legami", "non arrendersi mai", "creatività" sono state quelle più utilizzate».

MARE FUORI 3, UN GRANDE SUCCESSO

Grande successo per la serie Mare fuori, ambientata nell’istituto penale per i minori di Napoli, che stasera torna su Rai 2 in prima serata. Toni Viola per Avvenire.

«C’è qualcosa che in questi giorni può distogliere la mente dei millennials da ciò che resta del Festival di Sanremo? Sì, solo una cosa: la nuova stagione della fiction di Rai 2 Mare fuori 3. I fedelissimi hanno ammirato il cast ospite sul palco dell’Ariston, dove si sono esibiti nella canzone della colonna sonora O mar for, e hanno appena beneficiato dei primi sei episodi in anteprima su RaiPlay, mentre la nuova stagione della serie tv andrà in onda, con i primi due episodi, su Rai 2 da questa sera, alle ore 21.20. Cronaca di un successo annunciato quello dei ragazzi del carcere minorile napoletano, perché solo su RaiPlay i sei episodi sono stati visti da più di 8 milioni di telespettatori. E solo nella prima giornata di streaming, accumulando un totale di 3 milioni e 500 mila ore di visione. Numeri incredibili che sono in linea con altri successi della premiata ditta di Rai Fiction, sempre più saldamente al comando dell’indice di gradimento popolare da quanto al timone è arrivata la direttrice Maria Pia Ammirati. «Mare fuori è una serie contemporanea, innovativa e provocatoria - dice la direttrice Ammirati - Il grande successo su Rai-Play, conferma che è stata un'operazione particolarmente significativa nell'ambito delle scelte e del lavoro editoriale di RaiFiction: una serie calata nella contemporaneità, innovativa e provocatoria. Nel rifiuto di ogni stereotipo anche in un ambiente estremo come quello di un istituto di pena minorile la serie rappresenta senza conformismi la ricchezza contraddittoria dell'adolescenza, lasciando aperta la via alla speranza e alla presa di coscienza. Ne siamo orgogliosi, anche per il modo in cui tutto questo viene raccontato e che non a caso ha colpito il pubblico più giovane». Il 45% degli appassionati della serie sono under 25. Il 13 febbraio è stato il vero San Valentino degli innamorati di Mare fuori, è infatti il giorno con più tempo su digitale Auditel. L'ottavo episodio della terza stagione, in particolare, è il più visto nella storia del progetto Auditel per i contenuti Video On Demand, e gli episodi 7 e 8 hanno superato il record già raggiunto dal primo episodio della serie. Risultati che vanno ad aggiungersi a quelli ottenuti dai primi sei episodi, pubblicati in esclusiva assoluta su RaiPlay il 1° febbraio: complessivamente le tre stagioni integralmente disponibili hanno raggiunto il record di 54 milioni di visualizzazioni e quasi 23 milioni di ore di fruizione. Sul piano della narrazione il grande interesse si spiega con la trama che non manca mai di colpi di scena e la grande intensità della storia diretta da Carmine Elia. Interessanti e a tratti sorprendenti anche gli innesti di nuovi protagonisti. Sempre direttamente da Sanremo, con Furore, entra sul set di Mare fuori anche Chiara Iezzi, del duo Paola e Chiara. La cantante veste i panni della madre di Giulia Crazy J, la new entry della nuova stagione interpretata da Clara Soccini. Nel cast figurano anche Francesco Panarella e Giuseppe Pirozzi che vanno ad aggiungeri ai veterani e già affermati come Nicolas Muapas, reduce dal successo personale della passata stagione nella fiction di Rai1 Il professore in cui questo talento in ascesa ha il ruolo del figlio del professore, Alessandro Gassmann. Il personaggio di Muapas è tra i preferiti dai fans i quali hanno atteso in maniera spasmodica il ritorno di Ciro, alias l’attore Giacomo Giorgio. Ma nei primi sei episodi non c’è stata traccia di Ciro, tranne che nel primo episodio, e nei primissimi minuti, Ciro gira sul pontile di Bagnoli insieme alla sorella. Poi nel resto degli episodi Ciro non c’è, alimentando le illazioni dello spoileraggio e il terrore di non vederlo più: che sia davvero morto? Ciro tornerà negli ultimi sei episodi, ma solo nei ricordi degli altri personaggi. Un ruolo importante lo avrà nei flasback riguardanti la storia d’amore tra Carmela ed Edoardo».

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